La mancata rappresaglia contro Pino Rauti per la strage di Brescia

468px-Rauti_AlmiranteNel giugno del 1974 un gruppo di militanti romani provenienti da Potere operaio e che operavano all’ombra del Comitato comunista centocelle (Cococen), in procinto di muovere i primi passi verso la lotta armata, inizialmente sotto la sigla Lapp (Lotta armata per il potere proletario) e successivamente nelle Fca (Formazioni comuniste armate), meditò di compiere un attentato contro Pino Rauti, figura di spicco della destra neofascista della capitale. L’azione era stata concepita come rappresaglia per la strage compiuta il 28 maggio precedente in piazza della Loggia a Brescia, nel corso di una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal locale Comitato antifascista, che costò la vita ad 8 persone e ne ferì 1029. L’esponente missino abitava in via Stresa, a ridosso dell’incrocio con via Fani, tanto che il 16 marzo 1978 fu tra i primi a telefonare al centralino della questura per dare l’allarme: alle 9.15 dichiarò di aver sentito alcune raffiche di mitra e visto due uomini in divisa da ufficiali dell’aeronautica e una Fiat 132 blu risalire via Stresa ad altissima velocità. Osservando i movimenti di Rauti, il gruppo aveva notato che quando questi lasciava la propria abitazione percorreva un tratto di strada in salita dove a causa di uno stop la sua automobile era costretta a sostare (in effetti Rauti si immetteva su via della Camilluccia risalendo il breve tratto di via Stresa che segue l’incrocio con via Fani). Di fronte allo stop, sul lato opposto della via, era fissato un grosso cartellone pubblicitario dietro al quale uno del gruppo si sarebbe appostato per sparare con un fucile di precisione Sig Sauer attraverso un foro praticatto sull’insegna. L’attacco, preparato nei minimi dettagli, era giunto fino alla fase operativa ma il giorno previsto, arrivato sul luogo di raduno nel quartiere Prati, il responsabile militare del commando informò gli altri componenti che l’azione era stata annullata. Tra i componenti del gruppo che avevano progettato l’esecuzione di Rauti c’erano due futuri brigatisti della colonna romana che quattro anni dopo presero parte al sequestro in via Fani del presidente del consiglio nazionale della Dc, Aldo Moro. Un precedente importante che spiega perché gli esponenti della colonna romana che progettarono il sequestro dello statista democristiano erano così pratici della zona.

Fonte Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017

 

 

Strage di Brescia e altre stragi di Stato: la grande ingenuità di chi ha creduto che la magistratura potesse arrivare alla verità senza cambiamenti politici profondi nelle istituzioni coinvolte

Dopo 38 anni dai fatti, cinque istruttorie e dieci sentenze, il sistema giudiziario non è stato in grado di identificare i responsabili della strage di Brescia come per piazza Fontana e l’Italicus. L’assoluzione pronunciata ieri dalla corte d’appello è su tutte le prime pagine dei quotidiani di stamani dove più o meno si grida allo scandalo, si censurano i «depistaggi», «l’impunità», la «storia negata», la «beffa» del risarcimento per le spese di giustizia inflitte ai familiari delle vittime.

Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage, si lascia andare davanti a Giovanni Bianconi del Corriere della sera ad alcune considerazioni disincantate: «C’è una catena di ricatti che lega gli uni agli altri, dagli esecutori ai rappresentanti degli apparati, fino ai responsabili politici. Le coperture e i depistaggi son il risultato di questi collegamenti occulti, che negano la trasparenza e mettono in pericolo i presupposti della democrazia. Io temo che questo meccanismo funzioni ancora oggi, su diverse questioni, e se non viene denunciato e smantellato la vita di questo Paese rimarrà sempre inquinata dal gioco dei ricatti».

La verità sulle stragi sacrificata sull’altare del compromesso storico
Milani è convinto che la verità sarebbe potuta venire fuori subito se ci fosse stato nella seconda parte degli anni 70 un diverso atteggiamento politico più deciso nel denunciare le ambiguità istituzionali, «Credo che subimmo – aggiunge – una certa timidezza del Pci dell’epoca che non voleva rischiare di compromettere il rapporto con la Dc. Ma fino a quando la ragion di Stato avrà il sopravvento sulla ricerca della verità?».

La verità sulle stragi sacrificata sull’altare del compromesso storico. Il sospetto di Manlio Milani non è affatto infondato. Il Pci concepiva il ricorso allo strumento giudiziario come una leva per facilitare i suoi scopi politici, così le inchieste subivano accelerazioni o rallentamenti a seconda degli interessi del momento. Ciò spiega la linea della fermezza, il massimo di repressione con tanto di leggi speciali e torture contro la lotta armata per il comunismo, che si mise di traverso alla strategia del compromesso storico, ed al contrario i tentennamenti verso la Dc sulle stragi.

Ma se le cose stanno così e se tutte le inchieste, al di là degli esiti processuali, sono sempre giunte ad una identica ricostruzione del contesto ambientale nel quale ha avuto origine la strage di Brescia, come le altre: i settori del neofascismo del triveneto collegati, infiltrati, inquinati dalla presenza di agenti di varie intelligences Nato e dei nostri apparati; la vera domanda da porre non è forse un’altra?
Non è stata malrisposta la fiducia riversata sulla magistratura affinché potesse arrivare ad una verità certificata processualmente?
Se di mezzo c’è lo Stato con i suoi apparati e le inconfessabili strategie elaborate in sede atlantica, è pensabile l’accertamento della verità da parte della magistratura senza che ciò non proceda insieme ad un mutamento politico radicale delle istituzioni coinvolte?
Non è stata una follia ritenere che la liturgia del processo penale potesse svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica delle vittime?

A nostro avviso si è trattato di una deriva sbagliata, anzi devastante poiché:

a) ha innescato una privatizzazione del diritto di punire;
b) la giustizia processuale ha perso in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa;
c) conseguenza che favorisce il rischio di verità giudiziarie di comodo, verità politiche – altrimenti dette “ragion di Stato” – necessarie a placare domande che vengono dall’opinione pubblica o servono a lenire semplicemente la sofferenza dei familiari, ad appagarne il risentimento;
d) devasta la dimensione psicologica delle vittime stesse, messe di fronte all’assurdo paradosso di dover pretendere verità da quello stesso Stato coinvolto nei fatti incriminati;
e) verità che evidentemente non potrà mai venire senza che sia investita la dimenzione del cambiamento politico delle istituzioni coinvolte;
f) ne può uscire soltanto un atteggiamento vittimistico e querulante che di fronte al frustrante fallimento degli esiti processuali, o peggio al mancato appagamento che la scena giudiziaria offre (“la verità giudiziaria non dice tutto”, “i colpevoli nascondono altre verità”, ”la pena deve essere infinità anche una volta sconata per intero”), trascina la figura della vittima in una spirale di risentimento senza fine, di avvitamento rancoroso;

E’ sulla verità storica che occore dunque lavorare. Ciò dipende da quelle categorie, gli imprenditori della memoria, che lavorano con la materia storica, ma dipende anche e soprattutto dall’autorganizzazione sociale, dalla capacità di creare le condizioni politiche perché questa verità esca fuori.

Link
Il paradigma vittimario
Giovanni de Luna, “Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia degli anni 70”
Stazione di Bologna una strage di depistaggi
Quando la memoria uccide la ricerca storica
De Luna: “Senza verità giudiziaria il passato non passa”

Miseria della storia: quel cialtrone di Aldo Giannuli 1/continua

di Paolo Persichetti

Prima di ottenere una cattedra di storia del mondo contemporaneo presso la facoltà di scienze politiche dell’università statale di Milano, Aldo Giannuli è stato per lunghi anni consulente, anzi il consulente, di numerose procure. Come questo ricercatore dell’università di Bari, ancora senza grandi titoli, sia arrivato a lavorare almeno per due decenni, inizialmente per la procura di Bari, poi per quella di Milano nell’ambito delle indagini sulla strage di piazza Fontana, quindi a Pavia e Brescia (strage di piazza della Loggia), per approdare al famoso “porto delle nebbie”, come era chiamata la procura di Roma, infine a Palermo dove si è occupato addirittura di mafia senza ovviamente lasciarsi sfuggire le consulenze per diverse legislature (dal 1994 al 2001) nelle commissioni parlamentari sul terrorismo e le stragi, nonché alla Mitrokhin, è una domanda che incuriosisce molto.

Nato nel 1952, la sua biografia accenna a giovanili collaborazioni con il Quotidiano dei lavoratori, organo di Avanguardia operaia, ad un libro sulle origini del movimento trotzkijsta, pubblicato nel 1983, quando aveva 31 anni, da Adriatica editrice; doppiato cinque anni più tardi con un volume sul Sessantotto e la stagione dei movimenti (1960-1979), uscito per le Edizioni associate. Opere del tutto anonime che non hanno impresso alcun segno, suscitato polemica, aperto nuovi orizzonti interpretativi. Nonostante ciò Giannuli diventa il cocco delle procure, riceve incarichi importanti come quello di fare ricerche negli archivi di Stato, della Presidenza del consiglio, del ministero dell’Interno, della Guardia di finanza, del Sismi, del Sisde, dell’ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, dei tribunali e delle questure di Roma e Milano. In totale arriverà a redigere una cinquantina di relazioni. Quali meriti scientifici o titoli di altra natura gli abbiano garantito una così ampia fiducia e una così lunga cooptazione negli ambienti giudiziari e nelle commissioni parlamentari non è di dominio pubblico. Tuttavia queste attività gli hanno consentito di accreditarsi come un profondissimo conoscitore della storia delle trame eversive e dei Servizi e di produrre una discreta mole di pubblicazioni e libri di stampo dietrologico-complottistico sulla materia, il più famoso dei quali resta Lo Stato parallelo. L’Italia «oscura» nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi, del 1997 uscito da Gamberetti editore, scritto insieme a Paolo Cucchiarelli.

Erano gli anni in cui andava molto di moda la teoria del «doppio Stato», coniata in un saggio del 1989 da Franco De Felice (“Doppia lealtà e doppio Stato”, Studi storici 3/1989). Una formula molto azzardata ripresa fuor di contesto dai lavori del costituzionalista Ernst Fraenkel che in un libro del 1942 aveva definito «Stato duale» la particolare situazione in cui vennero a trovarsi la costituzione di Weimar e lo statuto albertino. Ordinamenti mai aboliti dal nazismo e dal fascismo, una volta saliti al potere, ma disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello stato d’eccezione e affiancati da una seconda struttura statuale, parallela alla prima. Da bravo parassita concettuale, Giannuli si accodò a questa moda intellettuale senza grande successo perché l’aporia di quella formula non resse al tempo, svanendo come tutte le altre fantasmagorie dietrologiche.

Nel corso delle sue ricerche d’archivio Giannuli incappò in una scoperta dovuta, come lui stesso racconta, ad un suo collaboratore: un poliziotto abituato ad orientarsi senza difficoltà tra le scartoffie impolverite del ministero dell’Interno. Questo investigatore-archivista nel novembre 1996 trovò, abbandonati all’interno di alcuni scatoloni lasciati in un archivio distaccato del ministero dell’Interno situato sulla circonvallazione Appia, una gran quantità di documenti non catalogati dell’Ufficio Affari riservati. Dall’analisi di quelle carte venne fuori un nota riservata redatta da un certo Alberto Grisolia, un confidente del nucleo milanese dell’Ufficio affari riservati, che faceva riferimento all’esistenza di un «noto servizio». Da questa scoperta scaturirà un nuovo tormentone destinato a mettere in soffitta la narrazione complottistica costruita attorno alla vicenda Gladio per sostituirla con l’esistenza di un super Sid, una struttura informale, senza nome, definita appunto «noto servizio» oppure denominata «anello».

Struttura parallela o semplice corrente tra le tante presenti nei Servizi? Conventicola traghettata in origine da alcune sezioni del Sim di epoca fascista di Mario Roatta, che passando per l’intelligence confindustriale approda alla neonata Repubblica per poi legarsi ad una delle tanti correnti democristiane di quegli anni? O «“funzione esterna” del servizio militare» come ipotizza lo stesso Giannuli?

Col passar dei decenni questa struttura sarebbe diventata, a detta di Giannuli, uno strumento della politica occulta di Giulio Andreotti ed avrebbe agito, nell’unico caso veramente accertato, per far fuggire dall’ospedale militare del Celio ed esfiltrare dall’Italia il criminale nazista Kappler, in cambio del sostegno tedesco alla disastrata situazione di crisi economica dell’Italia in pieno 1977, si badi bene – afferma Giannuli – operazione realizzata grazie al clima di solidarietà nazionale del periodo.

Il suo apparato, stando ancora alla descrizione che ne offre Giannuli, vantava figure sempre in bilico tra mitomania, millanteria, raggiri, truffaldineria altamente professionale e servigi sporchi, dove non c’è mai un confine chiaro tra tornaconto personale, affarismo privato e fedeltà alla ragion di Stato… Insomma un universo infido, scivoloso, che impone infinite precauzioni d’uso, dove la scoperta di un documento di per sè non prova nulla o forse il suo esatto contrario, in un mondo che per definizione si regge sulla falsificazione e la contraffazione-intossicazione.

Da questa scoperta Giannuli trae il suo ultimo libro, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea editore 2011, che secondo la tesi dell’autore riscrive la recente storia d’Italia; l’ennesima riscrittura dietrologica, aggiungiamo noi. Nel volume Giannuli annuncia anche di prendere definitivamente congedo dalla storia delle trame eversive degli anni 70. Notizia che non renderà certo orfani gli studiosi di quel decennio.

Il libro non è all’altezza delle promesse per ragioni di metodo, presenta infatti un apparato concettuale avvizzito dal paradigma complottista che restringe sistematicamente ogni possibile sviluppo interpretativo dei fatti. Inevitabilmente alla fine il volume non approda, come spesso accade nella letturatura dietrologica, ad una definizione assertiva del fatto storico. L’autore non ne è in grado e supplisce questa sua debolezza dilungandosi in un mare di illazioni che moltiplicano confusamente e contraddittoriamente scenari, suggestioni, ipotesi, allusioni, sospetti, veleni…

Forse in un modo eccessivamente sarcastico, ma non lontano dal vero, in passato avevo così descritto (qui) questo proliferare concorrenziale di narrazioni dietrologiche sulla presenza in Italia di molteplici “doppi Stati”:

«Come spiegare allora il fatto che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera d’esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene buono), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio insieme ad Aldo Moro, dunque entrambi esponenti del secondo Stato (quello deviato), per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un terzo Stato (deviato e traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della Repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un quarto Stato (deviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto, il tutto in presenza del «noto servizo» o «super Sid», scoperto da Aldo Giannuli per conto del giudice Guido Salvini, che forse era dunque un quinto Stato (ancora più che deviato, invertito)?
Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati. Che vuol dire tutto questo? Che forse l’Italia era un paese eccessivamente statalista?».

Il lavoro di Giannuli è un raffazzonato assemblaggio delle relazioni che l’autore ha nel tempo consegnato ai suoi mandatari. E questo è uno degli altri aspetti decisivi che ci hanno fatto sempre diffidare da opere del genere, che sono il risultato di ricerche commissionate dalla politica, oppure dalla magistratura, con un preciso mandato, dei quesiti formulati dalle commissioni d’inchiesta che incardinano prim’ancora di cominciare il risultato della ricerca. Parliamo di lavori che nascono dunque dalla fucina dello Stato, del suo apparato ideologico che produce consenso. Si tratta di una storiografia di regime che rifiutiamo alla radice e non consideriamo nemmeno storia ma miseria della storia.

Allora perché occuparsene?

Unicamente per il fatto che, come annunciato nel titolo, il libro affronta anche il rapimento Moro. Ovviamente senza essere in grado di provare alcunché degli sproloqui che sostiene. Soprattutto il volume si conclude, alle pagine 403-404, con 18 domande a Mario Moretti e agli altri ex dirigenti delle Brigate rosse (Giannuli ancora una volta è poco originale ma siccome non ha il dono della sintesi le domande da 10, come ci aveva abituato Repubblica, diventano 18).

Ovviamente si tratta di un artificio retorico. Giannuli non ha mai avuto l’intenzione di porre seriamente questi quesiti ai brigatisti, altrimenti l’avrebbe fatto di persona, li sarebbe andati a cercare o gli avrebbe scritto in carcere. Non lo ha fatto perché non è questo il suo interesse e forse perché voleva evitare imbarazzanti smentite.

Lo storico Marco Clementi, autore tra l’altro di tre importanti volumi sulla storia delle Brigate rosse: La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli, Storia delle Brigate rosse, Odradek, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi (con Santalena e Persichetti), si è preso la briga di stare al gioco ed ha risposto a Giannuli (qui).

Qui potete leggere il post con le domande di Giannuli e le risposte di Clementi.

Qui sotto le immagini delle due pagine che raffigurano le 18 domande di Aldo Giannuli

 

Sullo stesso argomento
Le 18 risposte ad Aldo Giannuli 2/continua
Lotta armata e teorie del complotto: l’antistoria

Strage di Brescia, De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

Dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di Brescia del 1974 parla Giovanni De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

La tesi sostenuta dal professor De luna in questa intervista è oggi molto diffusa. Essa ritiene infatti che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A nostro avviso si tratta di una deriva sbagliata, anzi devastante poiché:

a) innesca una privatizzazione del diritto di punire;
b) la giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa;
c) conseguenza che apre la portà al rischio di verità giudiziarie di comodo, verità politiche – altrimenti dette “ragion di Stato” – necessarie a placare domande che vengono dall’opinione pubblica o servono a lenire semplicemente la sofferenza dei familiari, ad appagarne il risentimento;
d) devasta la dimensione psicologica delle vittime stesse, messe di fronte all’assurdo paradosso di dover pretendere verità da quello stesso Stato coinvolto nei fatti incriminati;
e) verità che evidentemente non potrà mai venire senza che sia investita la dimensione del cambiamento politico delle istituzioni coinvolte;
f) ne può uscire soltanto un atteggiamento vittimistico e querulante che di fronte al frustrante fallimento degli esiti processuali, o peggio al mancato appagamento che la scena giudiziaria offre (“la verità giudiziaria non dice tutto”, “i colpevoli nascondono altre verità”, ”la pena deve essere infinità anche una volta sconata per intero”), trascina la figura della vittima in una spirale di risentimento senza fine, di avvitamento rancoroso;

E’ sulla verità storica che occore dunque lavorare. Ciò dipende da quelle categorie, gli imprenditori della memoria, che lavorano con la materia storica ma dipende anche e soprattutto dall’autorganizzazione sociale, dalla capacità di creare le condizioni politiche perché questa verità esca fuori.

Paolo Persichetti
Liberazione
18 novembre 2010


Nonostante le cinque fasi istruttorie e gli otto gradi di giudizio l’ennesimo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia si è concluso senza essere riuscito ad accertare, «oltre ogni ragionevole dubbio», l’identità degli autori e dei mandanti dell’attentato che il 28 maggio 1974 provocò 8 morti e 102 feriti durante una manifestazione antifascista. Come è accaduto anche per gli undici gradi di giudizio sulla strage di piazza Fontana la macchina della giustizia sembra girare a vuoto quando si tratta di identificare autori e mandanti della violenza stragista che ha insanguinato la prima parte degli anni 70.
Sia chiaro, i processi non servono soltanto a condannare le persone chiamate in giudizio ma a stabilire una «verità giudiziaria» (che non per forza è la copia carbone della verità storica), la quale prevede anche la possibilità di giungere a delle assoluzioni (circostanza che si ha tendenza a dimenticare troppo facilmente). Credere che un processo non sia servito a nulla quando non porta a delle condanne è dunque un errore di prospettiva che contiene un’idea deformata di giustizia. Tuttavia il dispositivo di assoluzione emesso martedì dalla corte d’assise di Brescia suscita molta frustrazione poiché non afferma la piena estraneità delle persone assolte, ma ricorre all’ambigua formula della «prova mancante e contraddittoria».
In sostanza la sentenza (capiremo meglio una volta rese pubbliche le motivazioni scritte), sembra riconoscere un fondamento alla ricostruzione del contesto all’interno del quale è maturata la strage. L’ambiente neofascista veneto, le cellule ordinoviste, la presenza d’infiltrati e doppiogiochisti del servizio segreto militare italiano e della Cia. Nonostante ciò il processo – riconosce sul manifesto lo storico Mimmo Franzinelli – era appesantito da una ricostruzione dei fatti «sovrabbondante, talvolta dietrologica», sorretta da «un castello accusatorio poi crollato con la ritrattazione di Maurizio Tramonte» (la fonte Sismi denominata Tritone), «personaggio infido, collaboratore di giustizia premiato con larghe prebende», e la presenza di altri testi che hanno ritrattato in aula le precedenti ammissioni, come Martino Siciliano e Carlo Digilio, ordinovista in contatto con la Cia, mentre l’autore materiale sarebbe stato un altro ordinovista morto per overdose nel 1991.
Dopo questa ennesima sconfitta comincia a farsi strada l’idea che ad oltre 30 anni dai fatti il mezzo processuale abbia esaurito ogni capacità conoscitiva sulle vicende più oscure e drammatiche degli anni 70.

Professor De Luna, il giudice Salvini dice che ora gli storici devono sostituirsi ai giudici. Se la verità giudiziaria non è accessibile – ha spiegato – l’unica via è una commissione di esperti indipendenti per la memoria del Paese.
Mi sembra una idea strampalata. Ognuno deve fare il suo mestiere. I giudici fanno i giudici e gli storici gli storici. Non confondiamo le due cose. La storia non è un tribunale.

L’idea che la verità sia accessibile unicamente per via giudiziaria, questo voler delegare continuamente alla magistratura la funzione di scrivere la storia degli anni 70 non è un errore, oltre che la prova di una mancanza di coraggio della società civile e di timidezza da parte degli storici?
L’assenza di verità giudiziaria impedisce l’elaborazione del lutto, non rimargina le ferite perché vengono meno i presupposti di verità e giustizia che delle istituzioni virtuose dovrebbero fornire. Questo vuoto rende impossibile la convivenza civile, tiene aperta una memoria conflittuale, un passato che non passa che nutre rancori, desideri di vendetta, richieste di risarcimenti, bisogno di legittimazione. Un groviglio identitario di passioni, una dimensione emotiva e sentimentale della memoria che resta campo di battaglia permanente tra opposti atteggiamenti vittimari.

Eppure di fronte a verità giudiziarie pienamente accertate, pesanti condanne emesse e scontate, come è avvenuto per la lotta armata di sinistra, questa vertigine vittimaria non è affatto cessata. Al contrario, alimentata dalle più fantasiose dietrologie, si è spesso mostrata ancora più aggressiva.
E’ vero, però c’è una differenza di fondo tra chi chiede verità e giustizia, quando questa manca, e chi mantiene un atteggiamento vittimario quando siamo di fronte a sentenze che hanno certificato le responsabilità individuali. In questo caso l’atteggiamento vittimario cambia di segno e perde il suo interesse pubblico e il suo valore civile per trasformarsi in una memoria che può essere carica di rancore o restare confinata in una dimensione individuale.

Lei distingue un vittimismo virtuoso da uno ripiegato su se stesso.
Non tutte le memorie vittimarie sono uguali. Il familismo civico è stato possibile grazie alla presenza di una verità giudiziaria. E’ in questo modo che molti familiari hanno potuto elaborare il lutto ed in alcuni casi avvicinarsi addirittura alla ragioni degli assassini. Quella legata alla mancanza della verità giudiziaria è oggettivamente una memoria pubblica che dovrebbe ispirare i valori della cittadinanza.

Ma se la verità giudiziaria, quando c’è, non è appagante, cosa deve fare un Paese perché il passato passi?
Avere delle istituzioni virtuose in grado di recintare uno spazio pubblico fatto di verità, di giustizia, di valori riconoscibili dove non c’è più una democrazia legata al mondo dell’indicibile e del nascosto ma del visibile e della trasparenza.

E se queste istituzioni non sono virtuose o addirittura appaiono colluse con la stagione delle stragi?
Poco prima che cadesse il governo Prodi era stata approvata la legge per togliere il segreto di Stato. Un segnale di trasparenza. Poi i regolamenti attuativi non sono mai stati realizzati. Finché le istituzioni si comporteranno così quel ruolo virtuoso non sarà mai ricoperto.

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Quando la memoria uccide la ricerca storica