Estate romana: Scalzone «Veltroni manipola la memoria di Renato Nicolini e lo arruola nel partito dell’emergenza antiterrorista»

La figura di Renato Nicolini, l’inventore dell’Estate romana recentemente scomparso, l’Effimero, le periferie della capitale negli anni 70. Parla Oreste Scalzone ed è subito tabula rasa del cretinismo veltroniano

 

di Paolo Persichetti
Altri 24 agosto 2012

«Era uno spirito dubbioso e critico con un fondo di timidezza da cui provava a difendersi con una punta di dandismo. Di lui si potrebbe dire che era un poeta libertario e comunista». La figura di Renato Nicolini affiora tra fiotti di ricordi che mischiano vissuto pubblico e personale. Un fatto quasi inevitabile se a raccontare è Oreste Scalzone.
Era l’estate del 1979, da alcuni mesi l’ex esponente di Potere operaio era finito in carcere per la retata giudiziaria del 7 aprile. A fargli compagnia migliaia di altri prigionieri politici. Lucia Martini, sua moglie, conosceva bene Nicolini per aver frequentato la stessa facoltà di architettura a Valle Giulia, nei primi anni 60, ed aver dato vita insieme alla prima occupazione nell’Italia del dopoguerra. «Lucia – spiega Oreste – si ricorda ancora di una cosa che le era sembrata la più grande assemblea del mondo, durante l’Estate romana. Nicolini la chiamò sul palco di piazza di Siena e le fece leggere una lettera che le avevo mandato dal carcere».
Cosa? Ho capito bene? Mi chiedo fra me e me mentre Oreste continua a snocciolare un episodio dietro l’altro, raccontando aneddoti picareschi, surreali, sempre sintomatici, sulla falsa riga di chi ritiene che prendersi sul serio sia in fondo la cosa meno seria che si possa fare nella vita. «Aspetta, aspetta, Ore’, fermati un attimo», non solo glielo dico ma ci riesco pure.
Alla cerimonia ufficiale di commemorazione che si è tenuta alla Protomoteca del Campidoglio, Walter Veltroni, e il suo replicante Gianni Alemanno, hanno sostenuto cose che vanno in direzione esattamente opposta. Oreste però conferma tutto e rincara pure la dose: «Nel 1983 Nicolini venne a Parigi, dove ero rifugiato, per partecipare ad una iniziativa al Beaubourg. Ero andato a curiosare anch’io. Quel giorno c’era pure Rino Serri, che dopo Trivelli e prima di Occhetto era stato segretario della Fgci, quello della mia prima tessera. Renato terminato l’incontro ufficiale venne a casa nostra».

A casa di un latitante? Veltroni ci rimarrà male quando lo verrà a sapere. Alla commemorazione ha detto che l’Effimero «è stata una risposta straordinaria a chi, negli anni di piombo, voleva che vincesse la paura, che la gente restasse chiusa in casa».
La gente chiusa in casa negli anni ‘70? Ormai abbiamo una nomenclatura demenziale. La coppia Veltroni-Alemanno mi ricorda i fratelli de Rege, una coppia di comici famosi negli anni ’60 che ispirò Walter Chiari e Paolo Panelli.

Se non è vero quello che racconta Veltroni o capita di leggere su Repubblica, allora l’Effimero che cosa è stato?
Certo non un capitolo della lotta contro il terrorismo, come ora qualcuno va raccontando pretendendo di arruolare Nicolini nella truppa dell’emergenzialismo. Il termine fu coniato con un intento dispregiativo dai suoi nemici, a destra come a sinistra. La politica culturale di Nicolini fu una rottura che metteva al centro la parola, l’attimo, l’immagine, l’immanenza, perché materialista non è per forza il calcestruzzo e il resto è roba dello spirito. Forse tutto ciò è stato possibile perché il Pci era un partito che tracimava ormai da tempo, dalla morte di Togliatti che probabilmente quella politica non l’avrebbe mai permessa… Nicolini era sì capitato nel Pci, ma prima era stato dissidente, un po’ gauchiste. Perché in fondo il Pci era ciò che passava il convento e dopo per alcuni restava una sorta di fedeltà. Ma il partito non era più una specie di dio, come scrisse una volta Otto Rühle: “la rivoluzione non è affare di partito”.

La prima edizione dell’Estate romana è del 1977. Un anno cruciale. Nicolini con il suo assessorato alla cultura fece scelte molto diverse dalla politica condotta dal Pci a livello nazionale.
Quelli erano gli anni dei divieti di manifestare, dove ogni assembramento era percepito come un’adunata sediziosa e anche ai concerti interveniva la polizia. Che l’Estate romana sia finita, forse oltre gli intendimenti del suo stesso creatore, per andare in controtendenza rispetto al plumbeo dell’emergenza giudiziaria antiterrorista, sostenuta in prima fila proprio dal Pci, è un dato di fatto. Fu come una grande respirazione. La città riprese fiato. Non è vero che la popolazione romana fosse barricata in casa perché c’erano le Brigate rosse. Forse questo era vero per gli esponenti della nomenclatura politico-economica, gli uomini degli apparati o dei grandi media, non più di due-tremila persone. Ma gli altri, i giovani delle borgate, se non potevano andare in centro era perché non avevano una lira in tasca, perché le periferie erano ghetti, perché la città non era fatta per loro, non li gradiva, non prevedeva la loro presenza. C’era uno sfacelo sociale e quello era il piombo del cielo sulla loro vita, non le stupidaggini che racconta oggi Veltroni.

L’anno prima c’era stata la festa del proletariato giovanile al parco Lambro di Milano a cui parteciparono 150mila persone.
Invece di reprimerli Nicolini offrì una risposta a questa espressione di “nuovi bisogni”, come allora si chiamavano, rivendicati da larghi strati del movimento di quegli anni. Va incontro ad una dirompente domanda di convivialità, al desiderio di cultura proveniente dal basso. Pensate al festival dei poeti sulla sabbia di Ostia, davanti a migliaia di giovani col palco che crolla perché ognuno voleva salire a recitare i suoi versi. Capisco che Veltroni si è dovuto confrontare con le veline. In fondo ognuno è portato a misurarsi con l’epoca che si merita. Portando le periferie in centro Nicolini rompe anche il muro di classe che impediva l’accesso alla cultura di massa. L’evento non è più la prima della Scala ma cinquemila persone sedute davanti all’arco di Costantino a vedere la rassegna cinematografica di Massenzio.

Quella ferita aperta degli anni 70. Lama, «Scalzone, sei un pregiudicato». Ma anche Gramsci lo era

Quando Luciano Lama spiegava il no del Pds alla provocatoria richiesta di ingresso nel partito avanzata da Oresta Scalzone, che da Parigi voleva mettere alla prova il “nuovo corso” occhettiano, la tanto declamata e mai compiuta discontinuità con gli anni del consociativismo e del compromesso storico


Quella ferita aperta degli anni 70

Paolo Persichetti
il manifesto 10 luglio 1991

Era forse un anno fa, o giù di lì, nel bel mezzo del travagliato scontro sulla scnapoli1 proposta di dar vita ad una nuova formazione politica, che l’Unità pubblicava con rilievo la notizia di un gruppo di ex appartenenti al movimento del 77 bolognese intensionati ad aderire al nuovo partito occhettiano, la «Cosa», nato dopo l’annuncio della Bolognina. L’iniziativa non era frutto di una operazione unilaterale, bensì il prodotto di contatti e discussioni evidentemente giunti a buon punto. Non fu certo un caso se al termine della scorsa estate, durante un dibattito svoltosi nel corso della festa della Fgci a Castel Sant’Angelo, si ritrovarono dietro ad uno stesso tavolo Massimo D’Alema, Franco Berardi, detto Bifo, (uno degli esponenti più noti del movimento del 77 bolognese) e altri per discutere proprio del 1977. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti se è vero che ad Oreste Scalzone, esule a Parigi, poco tempo fa è stata respinta la richiesta di adesione al Pds, per altro con una motivazione che ha del grottesco. Lo statuto del nuovo partito, infatti, impedirebbe l’iscrizione a chiunque sia incorso nella interdizione dai pubblici uffici o abbia subito condanna per delitto grave. L’ingresso in un partito politico appare, così, normativamente equiparato a quello in una amministrazione pubblica. Triste fine per il partito dei diritti che assume come propria regola interna una «pena accessoria» che compromette la piena affermazione dei diritti civili. Ancor di più viene da chiedersi quale sia ormai il senso della storia per quella parte del corpo politico che vorrebbe impersonare la sinistra. Quanti fondatori, dirigenti, militanti del Pci sono diventati pregiudicati secondo le norme del codice Rocco? Le stesse che, con l’aggiunta delle aggravanti della legge speciale Cossiga, hanno reso pregiudicato Scalzone e migliaia di altri partecipanti alle formazioni politiche della sinistra estrema (armata e non) nel corso degli anni 70 e 80. fot017
Qui non interessa discutere i motivi, condivisibili o meno, che hanno spinto Scalzone e altri provenienti dalla stagione degli anni 70 a chiedere la tessera del Pds (anche se le ragioni di una simile scelta in una figura come la sua non sono state certo esenti dalla volontà di porre in modo estremo il problema degli esuli e della amnistia politica). Occorre invece affrontare il rapporto irrisolto con il recente passato, questione che sta alla base del rifiuto posto dal Pds. A tal proposito l’articolo di Renato Nicolini (manifesto del 22 giugno) questa volta aiuta a ben poco. Il taglio del suo intervento (piuttosto minimalista) aggira il cuore del problema: l’incoerenza e l’insufficienza di un percorso di discontinuità condotto nel senso della più completa rimozione sia delle ragioni di quella stagione di opposizione estrema, sia delle contestuali scelte operate dalla maggiore forza della sinistra italiana nell’aderire alla causa dello Stato democristiano. Nicolini non va al fondo dei motivi politici che suscitano gli spasmi reattivi del suo collega di partito Luciano Lama e in qualche modo fa anche propria quella «differenza», ritenuta una ragione valida per dire no a Scalzone. Nel voler salvare lo Scalzone del 68 ne esce un po’ male quello del 77. A questo punto sono raccolti tutti gli elementi per fare di questo episodio un fatto esemplare, testimone delle lacerazioni, dei contrasti e delle sconfitte lunghe vent’anni della sinistra nel nostro paese mentre si rinnova solo «continuando», e le discontinuità si realizzano con un segno fortemente moderato e subalterno. Quando si ha il coraggio minimo di addentrarsi nella «notte della Repubblica» lo si fa sempre in modo manicheo per separare un «prima» da un «dopo», lì dove ciò che precede il 68 o la prima metà degli anni 70 è sempre migliore o più innocente di ciò che segue. È più facile rifiutare una tessera che affrontare le responsabilità avute nella stagione della solidarietà nazionale, nella scelta strategica del compromesso storico, nell’avvio delle politiche di concertazione e consociazione. È più facile negare un’iscrizione che spiegare perché si è sacrificata la possibilità di una forte alternativa politica e sociale in favore di uno scambio politico: accettazione di un ruolo di moderazione sociale in cambio dell’ingresso, per altro misero, nella maggioranza. Scelte che hanno prodotto l’omologazione dell’opposizione, la perdita di una sua autonomia e agibilità sociale, l’assunzione di una visione neutrale delle istituzioni che ha condotto alle aberrazioni dell’emergenza. L’avvio di una strategia emergenziale nei confronti dei movimenti armati e delle espressioni più indipendenti dell’antagonismo sociale, sostenuta dalla coralità dell’intero sistema politico e istituzionale, con una inedita saldatura nella storia della repubblica tra opposizione e governo, dà inizio a una prassi che negli anni successivi (fino ad oggi) ha teso a caratterizzare sempre più il sistema politico e sociale. Ne risultano modificate l’attività del governo, la soluzione delle controversie sociali e sindacali, la materia delle libertà civili fino a ridisegnare in senso autoritario il volto del paese. Il resto è storia di questi giorni.
a1977g Le reticenze e le oscillazioni nel ripensare la politica di quella intera stagione, le premesse e le conseguenze, sono sicuramente parte dei diversi motivi che hanno condotto alla crisi e al declino della sinistra italiana. E rappresentano una pesante ipoteca su ogni sua possibilità futura. Dalla «scena madre», i nodi problematici di questa crisi si sono trasmessi alle nuove formazioni politiche. Il nodo irrisolto degli anni 70 è tema trasversale di tutta l’attuale sinistra italiana. Anche per il suo versante comunista, Rifondazione: fin troppo carico di incertezze e differenze interne è il suo impegno sul tema della fine dell’emergenza e di una soluzione politica radicale, nonostante l’attività coraggiosa ma ancora troppo isolata di alcuni suoi dirigenti. Forse esagerava un po’ Luigi Pintor nei giorni scorsi quando, commentando il dibattito alla camera su Cossiga, constatava con la sua solita amara ironia come ormai l’opposizione sembra essere un concetto d’altri tempi e la sinistra una mera espressione geografica. Sbagliava Pintor e sbagliavamo tutti noi a pensare una cosa del genere. Perché invece in Italia una sinistra esiste. È la sinistra perbene. A quanto pare l’unica sinistra possibile.