L’inutile eredità del Pci: consociativismo e compromesso storico

Una eredità che non serve

Paolo Persichetti
Liberazione
18 febbraio 2009 (versione integrale)

Serve ancora il comunismo? O meglio serve ancora l’eredità del Pci al rilancio di una prospettiva anticapitalista e comunista? Nei giorni scorsi (per esattezza il 3 febbraio 2009) sulle pagine di Liberazione si è aperta una discussione del genere. Un dibattito che segnala il profondo arretramento culturale che sta attraversando questa formazione politica. Nella seconda metà degli anni 80 si discusse molto attorno alla nozione di consociativismo, introdotta da alcuni storici per riassumere la condotta politica che aveva contraddistinto e presupposto l’azione del Pci a partire dal dopoguerra. n1421273877_48513_3439

Sulla valenza esplicativa del concetto convergevano buona parte degli studiosi. Divergenze invece esistevano sulla scansione temporale nella quale la pratica consociativa avrebbe trovato spazio. Per alcuni la consociazione aveva caratterizzato la politica italiana fin dall’immediato dopoguerra. I fautori di questa tesi leggevano all’interno di questo paradigma l’originario patto costituzionale e il sostanziale duopolio con il quale Dc e Pci si erano suddivisi l’influenza sull’Italia, in un contesto geopolitico sovradeterminato dalla guerra fredda e dalla suddivisione in blocchi del mondo.
Per altri questa lettura era eccessiva. A loro avviso non tutte le fasi della politica italiana potevano leggersi attraverso questo accordo di fondo. Gli anni 50, in particolare, restano un momento molto conflittuale che non riesce a trovare spiegazione all’interno del paradigma consociativo che invece a partire dagli anni 60 torna gradualmente ad inverarsi, per raggiungere il suo apice nella seconda parte degli anni 70 con il compromesso storico e proseguire anche negli anni del pentapartito.

palcoNon è possibile riassumere in queste poche righe l’intera discussione storiografica. Certo è che sul piano ideologico, il consociativismo può essere letto come una concezione che ha influenzato in modo abbastanza uniforme buona parte della cultura politica del Pci (da Togliatti a Berlinguer), anche quando le fasi storiche non lo rendevano praticabile.

In ogni caso questa discussione vecchia di 20 anni portò a concludere che molta parte della crisi e del declino del Pci risiedeva proprio nei limiti della sua cultura consociativa che l’aveva portato a non comprendere e confliggere prima con il sommovimento sociale degli anni 70, percepito con fastido, come una turbativa ai propri progetti di autonomia del politico, poi a non avere più gli strumenti per fare fronte all’offensiva neoliberale deglli anni 80 e allo sfaldamento dell’era dei blocchi.

Va detto che quella cultura politica non è mai definitivamente tramontata, ma anzi è proseguita e ha trovato un suo inveramento finale nella nascita del Partito democratico, vera essenza della cultura consociativa che aveva tenuto insieme, attraverso un patto tacito di reciproca spartizione del paese, forze di matrice genericamente popolare (ma la Dc non era certo solo questo…), Democrazia cristiana e Partito comunista italiano.

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Università di Roma, 17 marzo 1977. Il movimento caccia Lama e il servizio d’ordine del Pci dal piazzale della Minerva

Una delle caratteristiche che hanno reso singolare la vicenda politica di Rifondazione comunista è stata quella specie di rivoluzione semantica che dalla sua nascita ha visto il predicato in posizione di preminenza sul soggetto. Seppur con alterne vicende, tra frenate e subitanee accelerazioni, Rifondare era un’evidenza indiscutibile di fronte alla quale, dopo la sartre77 Bolognina, anche i più restii convenivano, almeno a parole. Da quel 12 dicembre 1991 sono passati 18 anni, età in cui si diventa maggiorenni. Ma l’ingresso nell’età adulta è arrivato proprio quando la forza politica di Rifondazione è scesa al suo minimo storico. Una crisi che rischia di metterne in discussione la stessa sopravvivenza: l’uscita dal parlamento prima, un congresso devastante poi, quindi l’ennesima lacerante scissione, la crisi di Liberazione, la riforma elettorale con soglia del 4% che rischia di relegare il suo peso politico nel limbo della marginalità e dell’insignificanza, pongono interrogativi enormi. Dov’è approdata allora quella rifondazione che nelle sue premesse conteneva ambiziose intenzioni teoriche, culturali e politiche?
Per anni si sono succeduti congressi che annunciavano grandi svolte che si è visto poi senza respiro strategico e consistenza teorica, come l’ultima – in ordine di tempo – sulla nonviolenza. Spesso viziate da contenziosi interni (e guru occulti), tentativo di liquidare (giustamente ma in modo inappropriato) zavorre ideologiche che hanno sempre messo piombo sulle ali del movimento operaio. Inevaso è rimasto il nodo dello «statalismo», da cui discendono implicazioni teoriche e politiche che hanno minato le esperienze del comunismo lungo tutto il 900. Troppo profondo, troppo difficile affrontare un tasto del genere. Tuttavia, almeno negli enunciati, il predicato continuava a prevalere sul soggetto. Cercare la via della rifondazione del comunismo restava la ragione sociale del Prc. Ora non più. La rifondazione non serve, il comunismo – quello buono – c’è già. Perché rifondarlo se basta ripescarlo nelle soffitte del secolo appena chiuso? Il comunismo altro non è che la storia del Pci. Sì, il Pci, quello di Togliatti, Longo e Berlinguer (del povero Natta non si ricorda più nessuno). Questo si legge nello scambio di articoli pubblicati su queste pagine nell’edizione del 3 febbraio sotto la domanda: il comunismo serve ancora? Quale comunismo? Viene immediatamente da obiettare. E sì, perché nelle risposte di Giuseppe Chiarante, Alberto Burgio e Adalberto Minucci all’intervento di Franco Russo, ciò che più colpisce è la sovrapposizione assiomatica tra comunismo e Pci. In nessun momento Russo dice che bisogna liberarsi del comunismo. Sostiene invece che la critica anticapitalista più innovativa ed efficace che ha preso corpo in Italia dagli anni 60 in poi è nata fuori dal Pci e che questo partito nel migliore dei casi l’ha rincorsa, cercando di contenerla e normalizzarla. Il più delle volte, in realtà, l’ha osteggiata, combattuta come nemica, ritenendola un ostacolo alla propria definitiva consacrazione istituzionale. Insomma è della eredità del Pci che occorre fare a meno.
A questa tesi i suoi tre contraddittori rispondono – seppur con argomenti e stile diversi – che non c’è stato e non può esserci altro comunismo e anticapitalismo all’infuori della storia del Pci. I tre ripropongono un’anacronistica concezione proprietaria del comunismo che nelle parole di Chiarante è animata da nostalgie catto-comuniste; in quelle di Burgio da pulsioni neocarriste e in Minucci da una clamorosa boutade, per cui il Pci sarebbe stato la formazione politica «più vicina alla concezione teorica del comunismo proprio di Marx». Così, come niente fosse, viene omessa la matrice culturale del gruppo dirigente del Pci, l’hegelo-marxismo d’impronta crociana, l’influenza di Gentile, la covata bottaiana che sfornò tanti redenti, il peso dell’azionismo. Se non ci fosse stata la Bolognina, ci viene suggerito, oggi non saremmo ridotti in queste condizioni. Classico schema di ragionamento autoconsolatorio che confonde l’effetto con la causa. Esemplare, in proposito è Burgio quando afferma che la fine dell’Urss e la liquidazione del Pci non hanno fatto fare all’Italia e al mondo intero nessun balzo in avanti. Quasi a voler suggerire che lo sfondamento neoliberale, la vittoria della rivoluzione conservatrice, il trionfo delle destre e del populismo sono stati la diretta conseguenza della loro scomparsa, invece che una prova della loro inadeguatezza. L’Urss e il Pci sono implosi, non hanno retto lo scontro perché minati al proprio interno, al pari (va detto per chiarezza) delle altre culture comuniste, e in senso più ampio neomarxiste, che anch’esse non hanno retto il confronto col salto di paradigma provocato dalla fine della società fordista. Alcune, quella operaista in particolare,  hanno saputo leggere e anticipare meglio di altre quanto stava accadendo e quali sfide nuove si aprivano, ma nessuna componente (parlamentare o extraparlamentare) è riuscita a costruire una risposta politica efficace. A questo punto l’atteggiamento migliore, sul piano storico e politico, sarebbe quello di tirare bilanci critici, rompere recinti, cercare ancora e approfondire la strada di un nuovo anticapitalismo nella sua fase postfordista. Invece riemergono istinti identitari, nostalgie autoincantatorie, per giunta rivolte a percorsi politici che hanno grosse responsabilità nella sconfitta, se non altro in misura del loro peso, come la stagione catto-comunista. Un’ideologia inclusiva, un progetto che prevedeva la massima integrazione della società nello Stato, a differenza del marxismo sorretto dal valore positivo del conflitto tra capitale e lavoro e da una profonda critica verso le forme statuali. Ciò spiega le ragioni del grande successo della cultura catto-comunista nel decennio della crisi economica di fine secolo, gli anni 70, quando essa parve molto utile a fornire quel supporto ideologico necessario a giustificare la nuova cultura delle compatibilità economiche e del moderatismo politico, la famosa «austerità», che la classe operaia – in quanto «classe dirigente nazionale» – doveva assumere su di sé come esempio per il paese e lo stesso padronato. Il catto-comunismo in quegli anni rappresentò anche la cultura politica che un Pci in crisi teorica tentò di opporre alla sociologia americana, veicolata dai gruppi ideologici legati alla modernizzazione capitalista che puntarono politicamente sul craxismo. In risposta, lo storicismo idealista e il cattocomunismo trovarono una fusione comune in una sorta d’eticismo brezneviano. L’etica divenne la barricata ideologica residuale che pervase la stagione politica di Berlinguer, tutta improntata sulla «diversità comunista». Una tesi che disegnava l’alterità morale assoluta dell’uomo di sinistra rispetto al resto della società. Il capitalismo, la corruzione, i disfunzionamenti dell’amministrazione potevano trovare soluzione grazie alla tempra morale di quell’uomo nuovo che era l’amministratore comunista, finché lo scandalo delle tangenti della metropolitana milanese non riportò tutti alla cruda realtà. Ma intanto quell’eticismo favorì un atteggiamento culturale conformista e intollerante che aprì la strada alla supplenza giudiziaria della politica, chiudendo la porta alla possibilità di comprendere le radicali istanze di cambiamento e le culture innovative che i movimenti degli anni 70 sollevavano.
Davvero di questa cultura politica non abbiamo alcun bisogno.

Link
Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene

Quella ferita aperta degli anni 70. Lama, «Scalzone, sei un pregiudicato». Ma anche Gramsci lo era

Quando Luciano Lama spiegava il no del Pds alla provocatoria richiesta di ingresso nel partito avanzata da Oresta Scalzone, che da Parigi voleva mettere alla prova il “nuovo corso” occhettiano, la tanto declamata e mai compiuta discontinuità con gli anni del consociativismo e del compromesso storico


Quella ferita aperta degli anni 70

Paolo Persichetti
il manifesto 10 luglio 1991

Era forse un anno fa, o giù di lì, nel bel mezzo del travagliato scontro sulla scnapoli1 proposta di dar vita ad una nuova formazione politica, che l’Unità pubblicava con rilievo la notizia di un gruppo di ex appartenenti al movimento del 77 bolognese intensionati ad aderire al nuovo partito occhettiano, la «Cosa», nato dopo l’annuncio della Bolognina. L’iniziativa non era frutto di una operazione unilaterale, bensì il prodotto di contatti e discussioni evidentemente giunti a buon punto. Non fu certo un caso se al termine della scorsa estate, durante un dibattito svoltosi nel corso della festa della Fgci a Castel Sant’Angelo, si ritrovarono dietro ad uno stesso tavolo Massimo D’Alema, Franco Berardi, detto Bifo, (uno degli esponenti più noti del movimento del 77 bolognese) e altri per discutere proprio del 1977. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti se è vero che ad Oreste Scalzone, esule a Parigi, poco tempo fa è stata respinta la richiesta di adesione al Pds, per altro con una motivazione che ha del grottesco. Lo statuto del nuovo partito, infatti, impedirebbe l’iscrizione a chiunque sia incorso nella interdizione dai pubblici uffici o abbia subito condanna per delitto grave. L’ingresso in un partito politico appare, così, normativamente equiparato a quello in una amministrazione pubblica. Triste fine per il partito dei diritti che assume come propria regola interna una «pena accessoria» che compromette la piena affermazione dei diritti civili. Ancor di più viene da chiedersi quale sia ormai il senso della storia per quella parte del corpo politico che vorrebbe impersonare la sinistra. Quanti fondatori, dirigenti, militanti del Pci sono diventati pregiudicati secondo le norme del codice Rocco? Le stesse che, con l’aggiunta delle aggravanti della legge speciale Cossiga, hanno reso pregiudicato Scalzone e migliaia di altri partecipanti alle formazioni politiche della sinistra estrema (armata e non) nel corso degli anni 70 e 80. fot017
Qui non interessa discutere i motivi, condivisibili o meno, che hanno spinto Scalzone e altri provenienti dalla stagione degli anni 70 a chiedere la tessera del Pds (anche se le ragioni di una simile scelta in una figura come la sua non sono state certo esenti dalla volontà di porre in modo estremo il problema degli esuli e della amnistia politica). Occorre invece affrontare il rapporto irrisolto con il recente passato, questione che sta alla base del rifiuto posto dal Pds. A tal proposito l’articolo di Renato Nicolini (manifesto del 22 giugno) questa volta aiuta a ben poco. Il taglio del suo intervento (piuttosto minimalista) aggira il cuore del problema: l’incoerenza e l’insufficienza di un percorso di discontinuità condotto nel senso della più completa rimozione sia delle ragioni di quella stagione di opposizione estrema, sia delle contestuali scelte operate dalla maggiore forza della sinistra italiana nell’aderire alla causa dello Stato democristiano. Nicolini non va al fondo dei motivi politici che suscitano gli spasmi reattivi del suo collega di partito Luciano Lama e in qualche modo fa anche propria quella «differenza», ritenuta una ragione valida per dire no a Scalzone. Nel voler salvare lo Scalzone del 68 ne esce un po’ male quello del 77. A questo punto sono raccolti tutti gli elementi per fare di questo episodio un fatto esemplare, testimone delle lacerazioni, dei contrasti e delle sconfitte lunghe vent’anni della sinistra nel nostro paese mentre si rinnova solo «continuando», e le discontinuità si realizzano con un segno fortemente moderato e subalterno. Quando si ha il coraggio minimo di addentrarsi nella «notte della Repubblica» lo si fa sempre in modo manicheo per separare un «prima» da un «dopo», lì dove ciò che precede il 68 o la prima metà degli anni 70 è sempre migliore o più innocente di ciò che segue. È più facile rifiutare una tessera che affrontare le responsabilità avute nella stagione della solidarietà nazionale, nella scelta strategica del compromesso storico, nell’avvio delle politiche di concertazione e consociazione. È più facile negare un’iscrizione che spiegare perché si è sacrificata la possibilità di una forte alternativa politica e sociale in favore di uno scambio politico: accettazione di un ruolo di moderazione sociale in cambio dell’ingresso, per altro misero, nella maggioranza. Scelte che hanno prodotto l’omologazione dell’opposizione, la perdita di una sua autonomia e agibilità sociale, l’assunzione di una visione neutrale delle istituzioni che ha condotto alle aberrazioni dell’emergenza. L’avvio di una strategia emergenziale nei confronti dei movimenti armati e delle espressioni più indipendenti dell’antagonismo sociale, sostenuta dalla coralità dell’intero sistema politico e istituzionale, con una inedita saldatura nella storia della repubblica tra opposizione e governo, dà inizio a una prassi che negli anni successivi (fino ad oggi) ha teso a caratterizzare sempre più il sistema politico e sociale. Ne risultano modificate l’attività del governo, la soluzione delle controversie sociali e sindacali, la materia delle libertà civili fino a ridisegnare in senso autoritario il volto del paese. Il resto è storia di questi giorni.
a1977g Le reticenze e le oscillazioni nel ripensare la politica di quella intera stagione, le premesse e le conseguenze, sono sicuramente parte dei diversi motivi che hanno condotto alla crisi e al declino della sinistra italiana. E rappresentano una pesante ipoteca su ogni sua possibilità futura. Dalla «scena madre», i nodi problematici di questa crisi si sono trasmessi alle nuove formazioni politiche. Il nodo irrisolto degli anni 70 è tema trasversale di tutta l’attuale sinistra italiana. Anche per il suo versante comunista, Rifondazione: fin troppo carico di incertezze e differenze interne è il suo impegno sul tema della fine dell’emergenza e di una soluzione politica radicale, nonostante l’attività coraggiosa ma ancora troppo isolata di alcuni suoi dirigenti. Forse esagerava un po’ Luigi Pintor nei giorni scorsi quando, commentando il dibattito alla camera su Cossiga, constatava con la sua solita amara ironia come ormai l’opposizione sembra essere un concetto d’altri tempi e la sinistra una mera espressione geografica. Sbagliava Pintor e sbagliavamo tutti noi a pensare una cosa del genere. Perché invece in Italia una sinistra esiste. È la sinistra perbene. A quanto pare l’unica sinistra possibile.