Il Berlinguer falso alla mostra del Berlinguer vero

All’ex mattatoio di Testaccio a Roma si è tenuta la mostra organizzata dall’associazione Enrico Berlinguer, patrocinata dall’assessorato alla cultura del comune e dalla Fondazione Gramsci

Era lì in bella mostra, esposto su un enorme tavolo che raccoglieva un centinaio di pubblicazioni dedicate a lui, Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista italiano dal 1972 al 1984. Si tratta di un famoso falso editoriale, apparso nel 1977, a nome di Enrico Berlinguer, ma preso ancora oggi per vero, tanto da trovarsi mischiato con gli altri volumi scritti o dedicati al segretario del Pci. Titolo: Lettere agli eretici. Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana, Einaudi, Nuovo Politecnico 99, Febbraio 1977, 120 pagine. Testo scritto, poi si scoprì, da un situazionista torinese, PierFranco Ghisleni che sbeffeggiò in questo modo il segretario del più grande partito comunista d’Occidente, l’ultimo dei grandi segretari indiscussi, magnetici, amati dal popolo comunista. Crollato sul campo di battaglia, colpito da un’emorragia celebrale devastante durante un comizio a Padova, di fronte alla folla che gli chiedeva di smettere mentre bianco in volto, sofferente e con i conati di vomito si aggrappava al microfono per concludere il suo discorso. Una morte tragica ed eroica davanti al suo popolo che lo trasformò in un mito e portò oltre un milione di persone in strada al suo corteo funebre e il Pci a scavalcare per la prima ed unica volta la Dc alle elezioni, anche se erano solo le europee. Tutto questo era raccontato nella esposizione, ricca di materiali documentali e iconografici, organizzata dall’associazione amici di Berlinguer ma pensata soprattutto per i nostalgici.

Ma torniamo al noto falso che colpisce ancora e confonde chi se lo trova tra le mani, come gli espositori stessi. Perché di falsi esposti ve ne erano altri, ma stavolta presentati come tali: il falso numero dell’Unità del lunedì pubblicato dal Male, la micidiale rivista satirica fondata nel 1977 da Pino Zac con Vincino, Angese, Jacopo Fo, Pazienza, Pasquini, Saviane, Perini, il grafico Fascioli e Vincenzo Sparagna, col titolo a caratteri cubitali, «Basta con la DC», che tanti militanti fece sognare e sperare. Un successo di vendite enorme che la diceva lunga su quanto fosse poco amato dalla base del partito il patto scellerato con la Democrazia cristiana, quel «compromesso storico» pensato proprio da Berlinguer, rivelatosi una fallimentare strategia che lo stesso segretario provò a mettere nel cassetto all’inizio degli anni 80 senza riuscire veramente a convincere buona parte dell’apparato del suo partito, ormai non più partito di lotta ma solo di sottogoverno, adagiato sulle comode poltrone delle giunte degli enti locali: comuni, province, regioni e municipalizzate. L’ex ambasciatore Usa, Gardner, scrisse nelle sue memorie che nel 1979 lunga era la fila di parlamentari a amministratori del Pci che attendevano davanti all’ingresso della sua residenza a Villa Taverna. Il console statunitense di Milano dedicò a quel Pci un lungo rapporto realizzato dopo una serie di incontri con l’apparato intermedio, il ventre del partito. Inchiesta realizzata per accertare quanto fosse veritiero e profondo il mutamento antropologico che aveva attraversato quella forza politica.

La lettera agli eretici, scritta dal falso Berlinguer fu un abile e gustoso détournement che incarnava lo spirito irriverente del movimento del ’77, sbeffeggiava il Pci definito «partito dell’intelligenza cinica» ma anche esponenti politici e intellettuali in polemica con Botteghe oscure e a cui sono indirizzate le lettere. Ci sono un po’ tutti i filoni politici, culturali che animavano il conflitto politico all’estrema sinistra nel 1977: i radicali, con Marco Pannella a cui è dedicato il primo capitolo, seguono Adele Faccio e Angelo Pezzana, quest’ultimo tra i fondatori del movimento omosessuale Fuori, quindi è il turno del critico cinematografico Goffredo Fofi, segue un esponente della lotta armata in carcere, definito mister X, Andrea Valcarenghi di Re nudo, Antonio Negri per l’Autonomia e gli Indiani metropolitani per i creativi, vittime della loro stessa irriverenza. Un universo variegato che all’epoca agitava la spazio sociale a sinistra del Pci, suscitando incubi, tormenti e dolori di pancia ai suoi dirigenti.

Si scatenò subito una caccia all’autore misterioso, Einaudi presentò denuncia e Giulio Bollati che all’epoca lavorava in Einaudi replicò su Tuttolibri dando del reazionario all’autore senza nome, «Identikit di un falsario». La risposta di Ghisleni apparve in un libricino, Il Caso Berlinguer e la Casa Einaudi. Corrispondenza recente, a firma di Gianfranco Sanguinetti, peraltro indicato da Bollati come uno dei sospetti autori del falso (lo trovi qui).
Questa storia avrebbe meritato un pannello dedicato all’interno della mostra. Ma così non è stato. D’altronde perché stupirsene in un’epoca che ci ha abituato a non distinguere più il falso dal vero (vedi qui un esempio preso da un sito ipercomplottista caduto nel tranello. Ovvio, altrimenti non sarebbe stato complottista, www.iskrae.eu).

«Tango», nel marzo 1986 appare l’inserto satirico dell’Unità

Archivio – La satira si rivolgeva volentieri all’interno del partito, al suo gruppo dirigente seguendo la massima maoista di tirare contro il quartiere generale

Lunedì 10 marzo 1986 l’Unità si presenta in edicola con una novità al suo interno: un inserto satirico di quattro pagine rosa. Era nato Tango, «settimanale di satira, umorismo e travolgenti passioni», diretto da Sergio Staino. Sarà subito un grande successo. L’edizione del lunedì subisce un immediato incremento di vendite, oltre 30 mila copie di media in più con punte di 50 mila e 1300 nuovi abbonamenti solo per quella edizione. Un pubblico di lettori affezionati che acquistano il giornale solo per leggere il suo inserto e che Staino raffigurerà in una sua vignetta dove Bobo, il suo alter ego, mentre si accinge ad acquistare una copia di Tango si vede rispondere dall’edicolante che esce insieme all’Unità: «Pazienza», risponde sconsolato.
Il nuovo inserto consente all’Unità di stampare il quotidiano anche a Roma, oltre alla tradizionale tipografia di Milano, migliorando la sua diffusione in tutta Italia e in particolare nel Meridione, prima penalizzato. L’esperienza durerà circa due anni, nel 1988 dopo 127 numeri, chiuderà – sosterrà Staino in una intervista – per stanchezza dopo aver suscitato non poche polemiche. Prima esperienza di satira in un quotidiano organo stampa di un partito che si trovò all’improvviso proiettato dalle regole e dai modi inamidati del centralismo democratico in una sorta di seduta permanente di autocoscienza collettiva.
La satira sull’Unità c’’era sempre stata fin dai memorabili corsivi di Fortebraccio, pseudonimo di Mario Melloni, con un passato nella Resistenza bianca, poi deputato democristiano espulso dal partito perché nel 1954 aveva votato contro l’adesione dell’Italia alla Unione europea occidentale, ritenuta una sorta di semaforo verde al riarmo della Germania. Dopo aver frequentato Franco Rodano, l’intellettuale ponte tra cattolicesimo e partito comunista che Togliatti utilizzò in tutti i modi per tentare di staccare dalla Dc – senza mai riuscirci – la sua componente popolare di sinistra, Melloni iniziò a collaborare a Paese sera per approdare all’Unità nel 1967, prendendo il nome di un capitano di ventura dell’Umbria medievale, Braccio da Montone detto Fortebraccio, scelto per lui da Maurizio Ferrara allora direttore del quotidiano del Pci. Per tutti i giorni, salvo il lunedì, fino al 1982, Fortebraccio uscì in prima pagina taglio basso con il suo corsivo, divenuto un appuntamento soprattutto per i suoi avversari al punto che non apparirvi voleva dire non esistere politicamente. Fu proprio ispirandosi a Fortebraccio che Bettino Craxi scelse il nome di Ghino di tacco per i suoi corsivi al vetriolo sull’Avanti, brigante vissuto nel tredicesimo secolo, rifugiatosi a Radicofani, una rocca situata sulla via Cassia tra la Repubblica di Siena e lo Stato pontificio.
L’ironia di Fortebraccio era misurata, elegante, soprattutto rivolta all’esterno, contro gli avversari, democristiani, gli industriali: aveva affibbiato a Gianni Agnelli il soprannome di «avvocato basetta». Quella di Tango invece si rivolgeva volentieri all’interno del partito, al suo gruppo dirigente seguendo la massima maoista di tirare contro il quartiere generale. Nella estate del 1986 vi fu uno degli episodi che fece più discutere: in una intervista Giorgio Forattini, vignettista leggendario, prima di Paese sera poi di Repubblica, aveva sostenuto che Tango era solo uno strumento di propaganda a cui mancava il coraggio di mettere alla berlina i dirigenti del partito comunista, come lui faceva quotidianamente con Andreotti, Craxi e Spadolini, raffigurato come un maxiputto. Staino rispose su Tango con una caricatura dell’allora segretario Alessandro Natta mentre nudo danzava, come lo Spadolini di Forattini, al suono di una orchestra diretta da Craxi e Andreotti. L’episodio creò scompiglio ma rappresentava anche la fine di quel sottile culto della personalità che fino allora, almeno all’esterno del gruppo dirigente, aveva circondato l’immagine del segretario generale, figura venerata e inattaccabile. Impensabile rappresentare – come aveva fatto Forattini – un Berlinguer imborghesito che in pantofole e grisaglia sorseggiava tè sulla sua poltrona mentre dalla strada giungeva l’eco lontana delle manifestazioni di piazza degli anni 70. E proprio Forattini rispose su Repubblica con un disegno di Natta che armato di un panetto di burro in mano inseguiva il povero Bobo, con la didascalia «Ultimo Tango a Parigi». Oggi si sarebbe parlato di bodishaming e basta, il bromuro del politicamente corretto ha addormentato il pensiero.
Per Tango collaborarono nomi come Altan, Ellekappa, Vincino, Vauro, Andrea Pazienza, Dalmaviva, Roberto Perini, Disegni & Caviglia, Giuliano, Daniele Panebarco, Gino e Michele, Angese, Davide Riondino, Paolo Hendel, Stefano Benni, Piergiorgio Paterlini, Patrizia Carrano, Roberto Vecchioni, Lella Costa, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Patrizio Roversi, Susy Blady, Lorenzo Beccati, Renato Nicolini, Sergio Saviane, Michele Serra.
Sembrava che una pezzo del Male, la più alta, irripetuta e irriverente esperienza di satira politica indipendente degli anni 70 fosse incredibilmente approdata in uno di quei palazzi della politica presi di mira nel decennio precedente. Uno di quei palazzi che quando le vie della città ribollivano di giovani, donne e operai, invece di mischiarsi tra loro si richiudeva in difesa della fortezza, come nel deserto dei Tartari. Alberto Menichelli, responsabile centrale della vigilanza del Pci, ha raccontato tempo fa in un libro di Luca Telese come loro difesero la sede del Pci: «Ogni sabato, ogni giorno in cui c’è una manifestazione, noi dovremo essere in grado di cordonare i cinque vertici della pianta di Botteghe Oscure, schierando per ogni vertice duecento persone. Formeranno un primo cerchio intorno ai compagni della vigilanza che restano nel palazzo a presidio, dunque almeno mille persone: un muro protettivo […] Dal 17 marzo [1977] in poi, ogni volta che ci sarà mobilitazione di piazza noi faremo in modo che i compagni siano già dentro».

Sono profonde le radici del «ghetto», Franco Basaglia commenta il film «Matti da slegare»

Archivi – Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare.

Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano aboliva i manicomi psichiatrici. Primo paese al mondo a prendere una decisione del genere. La legge 180 arrivò dopo un complesso dibattito culturale e parlamentare dove il movimento antipsichiatrico era cresciuto intrecciandosi con le rivendicazioni degli altri movimenti sociali animati da forti spinte innovatrici e liberatrici. La decisione fu accelerata dall’incombere del referendum promosso dal partito radicale e venne integrata nel dicembre successivo all’interno della legge che istituiva il sistema sanitario nazionale. Conosciuta anche come legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, nonostante questi fosse contrario alla presenza del trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla nuova normativa, è forse l’istituto più rivoluzionario varato nella storia della repubblica italiana per la portata concreta che ebbe sulla realtà del Paese e il significato gravido di potenza simbolica che conteneva.
Gli asili psichiatrici erano dei veri e propri lager, luoghi di sofferenza, emarginazione, violenza, torture, sevizie, come avevano testimoniato nel 1969 Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nella loro inchiesta fotografica, Morire di classe. La condizione manicomiale. Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare. Forse non è un caso se a metà di quel decennio, il 1975, si raggiunge in Italia il più basso numero di detenuti rinchiusi nelle prigioni. Basaglia aveva già sperimentato con alcuni anni di anticipo, prima a Gorizia e poi a Trieste, la chiusura degli asili manicomiali. I reparti erano stati aperti, ai pazienti erano stati restituiti i loro diritti fondamentali, le rigide divisioni di genere abolite (portando i pazienti a vivere in intimità). L’ospedale diviso in settori (corrispondenti a diverse zone della città e provincia), soprattutto furono create delle cooperative per consentire ai pazienti di vivere una vita autonoma, di costruire la propria indipendenza e socialità. All’abolizione del manicomio dovevano subentrare delle vere e proprie comunità terapeutiche. Con il raffreddamento delle spinte di cambiamento, la riproposizione dei vecchi modelli di società disciplinare, anche la legge 180 ha subito un freno, soprattutto il carcere ha ripreso il posto dei vecchi asili psichiatrici. Nonostante ciò, l’antipsichiatria è stato il movimento che più di ogni altro è riuscito a incrinare i dispositivi di stigmatizzazione sociale, lasciando dietro di sé una eredità feconda su cui è potuta crescere la cultura della inclusività, la rivendicazione delle differenze, quel diritto di vivere ognuno a modo suo che ha animato i movimenti di liberazione delle donne, omosessuali, lgbt, queer, disabili e oggi la cultura della intersezionalità.

«Matti da slegare»
Sono profonde le radici del «ghetto»
Franco Basaglia
L’Unità 26 giugno 1977
Pagina 3

Sabato scorso è apparso e ieri sera si è concluso alla Televisione italiana il documentario che Bellocchio, Agosti Petraglia e Rulli hanno realizzato raccontando una esperienza che si è maturata alla fine degli anni ’60 nel campo dell’assistenza psichiatrica in provincia di Parma.
«Matti da slegare – Tutti o Nessuno» è il documento nel quale si riconoscono quegli operatori che in Italia, negli ultimi 15 anni, sulla spinta delle grandi lotte operaie e studentesche hanno lavorato per «aprire» le arcaiche strutture psichiatriche.
Il film va ben oltre le vicende personali che narra. In un medesimo atto di denuncia vengono coinvolti, nelle loro reciproche connessioni, da un lato lo spazio concreto dell’internamento del malato di mente – come nella puntata che abbiamo visto ieri – dall’altro la funzione di un sapere astratto, ritagliato nella teoria medica, intimamente dissociato, fin dalle sue origini, quanto alle sue finalità non mediche.
La dissociazione profonda, costitutiva della psichiatria, eroicamente risospinta verso riaggiustamenti interni delle «istituzioni» o del «sapere» non è viceversa spiegabile se non si coinvolge nell’analisi e nella denuncia la società, sia come organizzazione, sia come norma e valori dominanti, sia come società divisa in classi.
Limitarsi ad umanizzare la condizione di chi soffre con la creazione di luoghi «alternativi» e «comunitari», ma pur sempre appartati, dove trascorrere il tempo, breve o indefinito, della propria rottura con la norma, non muta la qualità della risposte se si accettano le finalità di una organizzazione «sociale» che tende ad espellere da sé la sofferenza separando i suoi portatori fra le mura di una istituzione.
Al contrario occorre tendere alla distruzione di questi luoghi dove miseria e sofferenza si occultano e si confondono reciprocamente, omologando dentro un mondo di marginali l’identità ed i bisogni di ciascuno.
Alle contraddizioni di una sofferenza che si mostra, nel suo ambiente, irriducibile, si risponde col servizio: quale che sia il destino della domanda, quale che sia la normalizzazione ottenuta o la soddisfazione del bisogno o la possibilità stessa di esprimerlo, il rapporto col servizio realizza l’omologazione necessaria affinché il conflitto apertosi non resti senza norma, non resti «fuori», «altro», polo critico ed illegale, pericoloso, spazio non controllabile.

Una doppia resistenza
Questa nuova totalizzazione, apparentemente opposta a quella asilare in quanto diffusa, destigmatizzante, pulita quanto l’altra appariva concentrata, definitoria, violenta, ha il vantaggio così di poter estendere il controllo medico-istituzionale ad aree di conflitto molto più larghe.
Il lavoro di questi anni è partito da questa consapevolezza.
Non si aveva di fronte solo una fortezza da attaccare, il manicomio, ma una «istituzione diffusa» modellata sulla sua logica, assai più duttile della rigida struttura asilare, capace di diffondersi, trasformarsi e riciclarsi.
Si è trattato dunque di innescare un processo del tutto nuovo, in cui gli ostacoli, affrontati giorno per giorno, non concernevano più solo le resistenze – istituzionali del dentro, ma, insieme a queste, incrociate e sovrapposte, le resistenze del «fuori», cioè della organizzazione sociale generale.
L’esperienza si è dislocata così su piani molto più complessi, per i quali si sono dovute inventare strategie «assistenziali» capaci di mediare contemporaneamente più fronti di intervento.
Obiettivo prioritario diventava la ricostituzione della singolarità della persona: sottrarla definitivamente al rapporto di tutela e riportarla, attraverso un percorso a ritroso, nel circuito degli scambi sociali.
Il processo tendenziale, così enunciato può suonare ancora una volta equivoco, dacché la psichiatria europea, da molti anni a questa parte, ha declamato proclami del genere, di reinserimento nel sociale, attraverso il riapprendimento delle regole; mettendo in atto per far questo nuovi codici e nuove terapeutiche.
La differenza che ci separa è lo spessore delle mura manicomiali.
Non si è trattato per noi di liberare la istituzione per riconvertirla ad un nuovo progetto «interno», costellandola, allo «esterno», di nuovi servizi assistenziali, selettivi di una nuova utenza, bensì di creare una nuova organizzazione transitoria capace di adeguarsi allo scopo che ritenevamo – essenziale: spezzare tutte le norme che regolamentavano la dipendenza dell’internato, ricostruire concretamente la sua identità di persona giuridica; porre le basi irreversibili del suo essere dentro il corpo sociale.
In altre parole sostituire al rapporto di «tutela» un rapporto di «contratto».
In nessun momento abbiamo nutrito l’illusione di trasformare lo spazio dell’internamento in uno spazio «clinico» o «multidisciplinare», per la consapevolezza profonda di due ordini di problemi: da un lato la «malattia» si costituisce nel sociale come processi di sanzioni, di restrizioni, di scambi, di resistenze accumulate – che rafforzano il «germe»; dall’altro l’Ospedale Psichiatrico non è mai stato altro che la sanzione definitiva della esistenza del «contagio», il luogo che con la sua esistenza, determinava ed organizzava la presenza minacciosa dei germi e l’inevitabilità, a certe condizioni, di andarveli a depositare.
Assumere il manicomio in tutta la sua consistenza di focolaio di infezione significa trovare una coerenza in facce opposte di una stessa realtà: comunità terapeutiche, manicomi, servizi territoriali, ospedali giudiziari si intrecciano costantemente capaci di convivere grazie, non solo all’inerzia del sistema, ma alla logica di un piano che non rischia su spazi vuoti di controllo.
La denuncia di Terzian sul racket italo-argentino della lobotomia, la condanna del direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa, le difficoltà quotidiane a rompere la reazione a catena della psichiatrizzazione rappresentano in modo chiaro le contraddizioni in cui si muove la situazione italiana.
Da un lato la capacità di lotta espressa in questi anni dal movimento operaio e delle dorme sui temi della salute e della medicina, dall’altro la rigidezza e l’inerzia di una classe dirigente che resiste al cambio, sono fattori che acuiscono la durezza dello scontro in atto e la impotenza dei programmatori.
[…]

Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia /1a puntata

Da sempre priva di riscontri la vecchia dietrologia cerca conforto nelle nuove tecnologie. Domenica 22 febbraio la polizia scientifica ha effettuato una scansione laser del luogo dove Aldo Moro venne sequestrato 36 anni fa.
Questo è il primo di un ciclo di interventi dedicato ai lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. Leggi le puntate successive (2a e 3a)

Paolo Persichetti
Il Garantista 28 febbraio 2015

10995657_816482041732693_2140707097252357948_nIl tratto di strada che il 16 marzo 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del Nord dare l’assalto, insieme a dei giovani romani di varia estrazione, al convoglio di auto che trasportava il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non trova pace.
Quella mattina, lungo via Fani si erano dati appuntamento in dieci: un tecnico, un contadino, una assistente di sostegno, diversi studenti, un artigiano, un paio di disoccupati, alcuni operai, un commerciante. Il più anziano aveva 32 anni, la più giovane 20. Erano le Brigate rosse, intenzionate a sferrare un attacco senza precedenti al «cuore dello Stato».
A distanza di 36 anni questo fatto storico non è ancora accettato dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili, che nei tre decenni ormai alle spalle si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro.
E’ per questo che domenica scorsa l’incrocio tra via Fani e via Stresa, situato nella zona nord di Roma, è stato sottoposto a scansione laser da alcuni tecnici della polizia scientifica che in questo modo tenteranno di far rivivere i fatti di quella mattina di 36 anni fa attraverso alcuni software tridimensionali in grado di elaborare e verificare tutti i dati balistici, peritali e testimoniali raccolti all’epoca delle indagini e dei processi.
Lo ha deciso la terza commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento del leader 10986837_10204730816563878_2601269910022609904_ndemocristiano, insediatasi in ottobre. Dopo tanta dietrologia i commissari hanno pensato di ricostruire sotto forma di realtà virtuale la scena del rapimento. Quanto alla fine possa risultare attendibile una ricostruzione del genere, che integra dati raccolti in epoche lontane e con tecniche ormai sorpassate rispetto all’odierna tecnologia forense, per ora non ci è dato sapere. Il teatro dell’azione fu largamente inquinato dall’invasione di funzionari e vertici delle forze dell’ordine, fotografi e giornalisti che calpestarono i reperti. Addirittura una vettura della Digos, un’Alfasud beige, piombò sulla scena dell’attentato e fu parcheggiata sul lato del marciapiede dove era partito il commando. Si può facilmente ipotizzare che i suoi pneumatici abbiano fatto schizzare, o comunque spostato, diversi reperti, in particolare i bossoli. Ma in fondo, questo è l’aspetto meno importante: dei nuovi rilievi – sempre che risultino attendibili – non possono che confortare quanto è già noto da tempo.
Significativo, invece, è il dato politico che esprime questa iniziativa, mirata «a stabilire – come ha dichiarato il presidente della nuova commissione d’inchiesta, Giuseppe Fioroni – l’oggettività di alcuni fatti sulla base di una certezza: non c’è corrispondenza tra il racconto dei 55 giorni e alcune chiare circostanze».

Sul lato baso della foto è visibile l'alfasud della Digos

Sul lato baso della foto è visibile l’alfasud della Digos

Cinque processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul caso Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo, quando in realtà è proprio questa ostinazione negazionista il nodo che ha trasformato in un “caso” l’azione di via Fani.
Fa paura ancora oggi cercare risposte alle vere domande che quei 55 giorni sollevano: come prevalse la linea della fermezza? Perché Dc e Pci, in un reciproco gioco di ricatti e sospetti, rimasero irremovibili sulla posizione del rigor mortis? Perché gli uomini di Moro, ben piazzati dentro la Dc e nei gangli dello Stato, non fecero nulla, o ben poco, per agevolare la sua liberazione? Perché il Pci sabotò ogni tentativo di trattativa, anzi denigrò le lettere dell’ostaggio dichiarando che non erano farina del suo sacco, se è vero che Moro era ritenuto la pedina decisiva per portare a termine la strategia del compromesso storico? Le culture politiche di questi due grandi partiti furono poi così all’altezza degli eventi? Non è lì dentro che si dovrebbe scavare senza riverenze e scrupoli per capire?
Invece ancora oggi c’è chi prova ad offuscare l’intelligibilità di quell’evento, come ha fatto recentemente lo storico, ora parlamentare e membro della nuova commissione Moro, Miguel Gotor, restio ad accettare l’idea che dei giovani operai e borgatari romani si fossero organizzati al punto da sfidare lo Stato lasciando il corpo di Moro nel cuore della toponomastica del compromesso storico, «della lotta politica e della guerra fredda» (episodio reiterato con il sequestro D’Urso), a due passi da via delle Botteghe oscure (allora sede nazionale del Pci) e piazza del Gesù (sede nazionale della Dc).
Per Gotor, se le Brigate rosse volevano raggiungere quell’obbiettivo propagandistico, «lo avrebbero lasciato in una discarica della periferia con nella destra una copia dell’Unità e nella sinistra una copia del Popolo, e non si sarebbero mai e poi mai assunte tutti quei rischi incredibili».
Dunque Moro doveva finire nell’immondizia perché ciò che muove dalle periferie non può che sfociare nelle discariche, è quanto mostra di pensare il braccio destro di Bersani, dando prova di un forte pregiudizio classista venato di populismo anticasta. La storia successiva ci dice che a mettergli l’Unità in tasca non furono le Brigate rosse ma l’autore del monumento che gli venne dedicato a Maglie, in Puglia, mentre la sola idea che le periferie dell’epoca potessero appostarsi sotto i Palazzi della politica e dell’economia suscita ancora negli esemplari odierni del ceto politico quegli stessi brividi freddi che l’aristocrazia versagliese provò di fronte ai sanculotti che mettevano a ferro e fuoco l’ancien régime.
Si comprende perché la dietrologia, ora nella sua veste tridimensionale, oltre ad essere un redditizio affare per l’industria editoriale e la pubblicistica da marciapiede, si presta come balsamo consolatorio, diversivo che consente di evadere i quesiti più imbarazzanti, le responsabilità più pesanti. Quanti su questa fondamentale rimozione hanno costruito la loro fortuna, le loro carriere negli anni di quella Seconda repubblica nata sul funerale di Moro?

Via Fani, Le nuove frontiere della dietrologia

Liberazione sulla pagine di Left? I lavoratori del quotidiano di via del Policlinico 131 hanno detto “No”

Oggi non avete trovato il pdf del giornale, vi speghiamo perché

da www.liberazione.it

#OccupyLiberazione 13 gennaio 2012

Care lettrici, cari lettori,

oggi dobbiamo deludervi: non trovate il giornale stampabile in Pdf a cui vi state affezionando.
I primi a essere delusi e amareggiati per essere stati costretti a questa decisione siamo noi.
Vi spieghiamo quello che è successo: abbiamo appreso casualmente questa mattina che il numero della rivista Left in edicola da domani, venerdì 13, contiene quattro pagine sotto la testata del nostro giornale. Queste le parole che le introducono: «Left ospita Liberazione. Quattro pagine per garantire al quotidiano la presenza in edicola».
E’ il terzo tentativo che subiamo di far vivere la testata senza i suoi lavoratori.
I primi sono avvenuti col manifesto e con l’Unità: la nostra direzione, dando per già avvenuta la sparizione dalle edicole di Liberazione prima ancora dell’inizio del primo tavolo sindacale convocato per discuterne, aveva concordato con le rispettive direzioni che i due “giornali fratelli” ospitassero una pagina con la nostra testata. In particolare col manifesto era gia stato definito che sarebbe stata un facsimile della nostra prima pagina, con titolo (fatto ovviamente dal direttore), sommarione (fatto ovviamente dal direttore) ed editoriale del giorno (scritto dal direttore o, come si usa, da una firma esterna autorevole su commissione del direttore).
Ci siamo opposti con tutte le nostre forze: quello che le altre testate avevano concepito come un gesto di solidarietà al primo giornale che soccombeva ai tagli di Berlusconi-Monti si tramutava nell’azzeramento della redazione, a rischio di Cassa integrazione a zero ore. Una cosa che non potevamo accettare. Lo abbiamo spiegato, i colleghi – e non smettiamo di ringraziarli – hanno capito e si sono rifiutati a qualsiasi iniziativa che non fosse condivisa anche da noi. Il manifesto in particolare ne ha dato conto diffusamente sulle sue pagine.
Per questo abbiamo trovato incredibile che la cosa si ripetesse alla chetichella con Left. Non una parola: quattro pagine, di cui nessuno della redazione aveva mai sentito parlare, firmate dal direttore Dino Greco e da un collega.
Il fatto è gravissimo per tre motivi:
1) rompe la collaborazione – finora una dialettica difficile, ma che cercavamo di mantenere aperta – tra direzione e redazione occupante;
2) interviene come un’irresponsabile turbativa nell’interlocuzione, appena riaperta, con reciproco impegno di costruttività e trasparenza , tra l’editore Mrc e le rappresentanze sindacali (un primo contatto in sede aziendale mercoledì 11, teso alla riconvocazione di un tavolo nazionale, questa volta speriamo per un autentico confronto);
3) irrompe come un elefante in una una cristalleria nella delicatissima consultazione in corso con il Dipartimento all’Editoria (condotta in totale reciproca autonomia ma con fini si spera convergenti da Cdr e Rsu da una parte e editore dall’altra) sulla continuità editoriale – e relativa possibilità di finanziamento – dopo la interruzione delle pubblicazioni cartacee.
Il giornale che avete letto in questi giorni come sapete è frutto della scelta di lotta dell’assemblea permanente unitaria dei lavoratori di Liberazione che dal 28 dicembre occupano la redazione di viale del Policlinico. Nonostante ci troviamo in ferie non per nostra volontà, nonostante il contratto di solidarietà durissimo in cui siamo impegnati sia stato revocato dal nostro editore, nonostante la richiesta di Cassa integrazione a zero ore per tutti avanzata dall’editore alla Regione Lazio abbiamo messo tutto il nostro impegno e senso di responsabilità a far vivere Liberazione.
Ricominciamo da domani: l’occupazione aperta si arrichisce di idee e presenze, e l’assemblea si riconvoca per dare ulteriore slancio, far fare un nuovo salto di qualità al giornale.

Link
Bonarchionne o Bonaccorsi? Chi è veramente l’imprenditore-direttore di Terra
Occupy Liberazione


Allarme terrorismo: quel vizio del “Giornale” di imbastire false notizie

Cronista del Giornale denunciato per procurato allarme. Aveva redatto un falso volantino siglato Br

Paolo Persichetti
Liberazione 27 novembre 2009

Scoperto l’autore del volantino firmato Brigate rosse giunto alla redazione genovese del Giornale nei giorni scorsi, dopo l’enorme clamore mediatico che ha accompagnato la notizia dell’arrivo nelle sedi di altri giornali e tv (Bologna, Milano e altri centri del nord), di un volantino di 4 pagine siglato Nat, Nuclei di azione territoriale. Si tratta di Francesco Guzzardi, 49 anni, un nome che da solo dice poco. Molto più interessante è invece la sua professione. Non è un operaio, non è un precario, non è uno studente. Non frequenta i centri sociali, al contrario lavora proprio nella redazione del quotidiano fatto oggetto di minacce. Si tratta, infatti, di un giornalista. Denunciato dalla digos per procurato allarme e simulazione di reato, Guzzardi ha spiegato agli agenti di aver scritto il volantino minatorio per far uscire allo scoperto una storia di minacce gravi rivolte nei suoi confronti, da parte di non meglio precisati «malavitosi e nomadi della periferia genovese», a causa di una serie di inchieste giornalistiche sulla Valbisagno. Il testo, un grossolano falso scritto a mano e con una stella a cinque punte, un logo talmente inflazionato che ormai non si nega più a nessuno, era stato messo da Guzzardi davanti alla porta della redazione. All’interno il giornalista proferiva contro se stesso frasi dal significativo contenuto politico, del tipo: «Non abbiamo ancora deciso se spaccare il culo al vostro servo». Senza percepire il benché minimo senso del ridicolo, il capo della redazione genovese dello stesso quotidiano, Lussana, nel dichiarare il proprio stupore per quanto emerso dall’indagine ha tuttavia voluto ringraziare: «lettori ed istituzioni per la solidarietà e la vicinanza espresse in questi giorni al Giornale ». La vicenda suscita ovvia ilarità. Ma il semplice sghignazzo non basta. Oltre ad osservare che il narcisismo vittimistico è ormai una delle posture più ambite nello spazio pubblico, al punto da rasentare vertigini autopersecutorie, forse vale la pena trarre qualche considerazione in più. Dopo l’arrivo del volantino dei Nat, vi è stata una rincorsa generale ad accreditare un nuovo allarme terrorismo. Una fretta fin troppo sospetta, quasi una voglia malcelata. Intervistato, il magistrato Ferdinando Pomarici ha parlato di «imitatori delle Br». Gli ha fatto eco l’ex pm Libero Mancuso, «Non è un delirio, ma un’analisi lucida». Quando il fenomeno armato esisteva e aveva radici, il suo linguaggio veniva definito «delirante», ora che è fantasmatico diventa «lucido». Nel gioco di ombre cinesi che prende per vero i fantasmi, chi accredita lo fa per darsi credito. È ormai lontana l’epoca in cui nelle redazioni, in particolare quelle di sinistra come l’Unità, una circolare interna ordinava ai giornalisti di non citare mai per esteso la firma “Brigate rosse”, preferendogli la sigla Br o la dizione bierre , accompagnata con aggettivi come «sedicenti» e «deliranti» per evitare imbarazzanti riferimeti a terminologie sulle quali, ovviamente, si voleva mantenere il monopolio assoluto evitando, anche solo attraverso la semplice evocazione di alcuni termini, riferimenti all’immaginario della storia del movimento operaio, al patrimonio memoriale della Resistenza e della lotta internazionalista. In questa rincorsa a dare per buone anche le bufole più inverosimili, il Giornale si è contraddistinto lanciando una campagna su «Milano incubatrice del nuovo terrorismo», descrivendo una situazione di «tensioni, sgomberi e arresti» e il «rischio infiltrazioni Br nei cortei». Il quotidiano di Feltri si riferiva all’arresto di alcuni militanti di un centro sociale, tra cui il figlio di Mario Ferrandi, detto «coniglio», un importante collaboratore di giustizia passato per Prima linea e altri gruppi armati milanesi degli anni 70. Di «clima avvelenato» e «soffio degli anni violenti», ha scritto anche «l’agente Betulla», al secolo Renato Farina, vice direttore del Giornale quando si scoprì la sua collaborazione con il Sismi, ed oggi firma di Libero. La sua proposta? «Lavoro repressivo, condito con analisi sulle fucine di questi pensieri» sovversivi. Farina si riferiva forse a Guzzardi?

Link
Populismo armato, alle radici della fraseologia dei Nuclei di azione territoriale
Nta, la sigla vuota utilizzata per lanciare intimidatori allarmi terrorismo
Progetto memoria, Le parole scritte
Annamaria Mantini
Roberto Maroni: Nat, analogie con vecchie Br

Torna la grande paura: Paolo Granzotto, il reggibraghe degli imprenditori

Nei suoi “Souvenirs” delle giornate parigine del giugno 1848 Tocqueville raccontava i brividi di un suo amico che durante gli scontri aveva ascoltato le parole di due suoi giovani domestici che sognavano di farla finita con il potere dei loro padroni. Sul momento quel suo amico «si guardò bene dal lasciar intendere di aver sentito quelle frasi» che «gli misero una grande paura»; attese prudentemente l’indomani della vittoria sull’insurrezione per licenziare in tronco gli sfrontati e rispedirli alle loro baracche. Dall’aristocratico Tocqueville al borghese berlusconiano Paolo Granzotto, la parabola decadente della letteratura sulle classi pericolose


“Bossnapping, la sinistra si smaschera: questa lotta paga”

di Paolo Granzotto
Il Giornale 15 aprile 2009

La sinistra si smaschera www.ilgiornale.it

«Almeno finora, sequestrare paga». Questa la conclusione alla quale è giunto Gianni Marsilli dell’Unità. Gli fa eco Paolo Persichetti, su Liberazione: «Brutta aria per i padroni». L’uno e l’altro davano conto a modo loro del «bossnapping», il sequestro, a scopo intimidatorio, di manager di grandi gruppi industriali «fino a che il padrone non abbia calato le braghe», per dirla con Marsilli. Un «modello di lotta» che si sta sperimentando in Francia e che a qualcuno piacerebbe fosse esportato da noi, vuoi perché, come scrive Marsilli, «il sindacato è storicamente debole sulle realtà aziendali», vuoi perché, come invece sostiene Persichetti, «scioperi e picchetti non sono più sufficienti per costringere il padronato a trattare», cioè a calare le braghe.
Paolo Persichetti, brigatista rosso condannato a 22 anni per concorso nell’omicidio del generale Licio Giorgeri e pertanto uno che se ne intende di sequestri a termine o a tempo indeterminato, vede nel «bossnapping» qualcosa di più d’una innovativa versione del «dialogo» e del «confronto». Poiché la lingua sempre lì batte, dove il dente duole, egli vi vede o meglio vi sente «il sapore di embrioni vitali di autonomia operaia», dando la forte impressione di essere un emulo del colonnello Kilgore di Apocalipse now. Se questi si estasiava all’odore del napalm, Persichetti si inebria, perde la testa a quello della cordite degli Anni di piombo. Da addetto ai lavori, rileva che in Francia il «bossnapping» è «risultato pagante seppure attuato in un contesto ultradifensivo che mira unicamente a ridurre i danni». Non che l’ex brigatista lo auspichi a chiare lettere, però sembra di capire che stando un po’ meno sulla difensiva e magari alzando il tiro i risultati sarebbero migliori. E gli embrioni di autonomia operaia ingrasserebbero a vista d’occhio.
Il caloroso apprezzamento della «trattativa forzata» del sequestro di persona a scopo intimidatorio e delle prospettive di lotta di classe che esso apre potrebbe essere liquidato come demenziale folklore, come tritume ideologico e dialettico dei nostalgici della lotta armata. Ma quando un quotidiano come l’Unità che un giorno sì e l’altro no la mena con la sacralità della Costituzione, dei suoi princìpi e dei suoi diritti, manda a dire che «sequestrare paga», che «l’ostaggio è uno strumento per far pressione sulla proprietà lontana, nulla di più» – nulla più! – è forse il caso di stare in guardia. L’esecuzione a freddo di Marco Biagi dolorosamente ci ricorda che teste ideologicamente marce non ce ne sono poche in giro. Precedenti esperienze insegnano, poi, che nel caso l’intendance degli intellettuali, del giornalismo progressista, della società civile e della sinistra radicale e salottiera, suivra. Non che al momento ci sia da allarmarsi, perché i Persichetti sono pur sempre dei Persichetti, dei pavidi che nel momento della verità scappano, incapaci di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità, ma tutto questo fervore per il «bossnapping» va tenuto d’occhio. E a farlo non dovrebbe tanto essere il ministro degli Interni, quanto Guglielmo Epifani, se non vuole che il suo sindacato, già malconcio qual è, sia scavalcato dalle avanguardie della «trattativa forzata» (fino al calamento, con le buone o con le cattive, delle braghe del padrone) e passi direttamente alla rottamazione.

Cronache operaie
Il Bossnapping vince: la Caterpillar cede
Bossnapping, una storia che viene da lontano
Bossnapping nuova arma sociale dei lavoratori
Bruxelles,manager Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore
F
rancia, altri manager sequestrati e poi liberati
Francia, padroni assediati torna l’insubordinazione operaia
Rabbia populista o nuova lotta di classe
Paolo Granzotto sanzionato per razzismo. Aveva scritto: “Rispedire al mittente la feccia rumena”
Paolo Granzotto: “Cacciamoli, Bucarest si riprenda sue canaglie
Cattivi maestri e bravi bidelli: le carte truccate di Paolo Granzotto

Quella ferita aperta degli anni 70. Lama, «Scalzone, sei un pregiudicato». Ma anche Gramsci lo era

Quando Luciano Lama spiegava il no del Pds alla provocatoria richiesta di ingresso nel partito avanzata da Oresta Scalzone, che da Parigi voleva mettere alla prova il “nuovo corso” occhettiano, la tanto declamata e mai compiuta discontinuità con gli anni del consociativismo e del compromesso storico


Quella ferita aperta degli anni 70

Paolo Persichetti
il manifesto 10 luglio 1991

Era forse un anno fa, o giù di lì, nel bel mezzo del travagliato scontro sulla scnapoli1 proposta di dar vita ad una nuova formazione politica, che l’Unità pubblicava con rilievo la notizia di un gruppo di ex appartenenti al movimento del 77 bolognese intensionati ad aderire al nuovo partito occhettiano, la «Cosa», nato dopo l’annuncio della Bolognina. L’iniziativa non era frutto di una operazione unilaterale, bensì il prodotto di contatti e discussioni evidentemente giunti a buon punto. Non fu certo un caso se al termine della scorsa estate, durante un dibattito svoltosi nel corso della festa della Fgci a Castel Sant’Angelo, si ritrovarono dietro ad uno stesso tavolo Massimo D’Alema, Franco Berardi, detto Bifo, (uno degli esponenti più noti del movimento del 77 bolognese) e altri per discutere proprio del 1977. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti se è vero che ad Oreste Scalzone, esule a Parigi, poco tempo fa è stata respinta la richiesta di adesione al Pds, per altro con una motivazione che ha del grottesco. Lo statuto del nuovo partito, infatti, impedirebbe l’iscrizione a chiunque sia incorso nella interdizione dai pubblici uffici o abbia subito condanna per delitto grave. L’ingresso in un partito politico appare, così, normativamente equiparato a quello in una amministrazione pubblica. Triste fine per il partito dei diritti che assume come propria regola interna una «pena accessoria» che compromette la piena affermazione dei diritti civili. Ancor di più viene da chiedersi quale sia ormai il senso della storia per quella parte del corpo politico che vorrebbe impersonare la sinistra. Quanti fondatori, dirigenti, militanti del Pci sono diventati pregiudicati secondo le norme del codice Rocco? Le stesse che, con l’aggiunta delle aggravanti della legge speciale Cossiga, hanno reso pregiudicato Scalzone e migliaia di altri partecipanti alle formazioni politiche della sinistra estrema (armata e non) nel corso degli anni 70 e 80. fot017
Qui non interessa discutere i motivi, condivisibili o meno, che hanno spinto Scalzone e altri provenienti dalla stagione degli anni 70 a chiedere la tessera del Pds (anche se le ragioni di una simile scelta in una figura come la sua non sono state certo esenti dalla volontà di porre in modo estremo il problema degli esuli e della amnistia politica). Occorre invece affrontare il rapporto irrisolto con il recente passato, questione che sta alla base del rifiuto posto dal Pds. A tal proposito l’articolo di Renato Nicolini (manifesto del 22 giugno) questa volta aiuta a ben poco. Il taglio del suo intervento (piuttosto minimalista) aggira il cuore del problema: l’incoerenza e l’insufficienza di un percorso di discontinuità condotto nel senso della più completa rimozione sia delle ragioni di quella stagione di opposizione estrema, sia delle contestuali scelte operate dalla maggiore forza della sinistra italiana nell’aderire alla causa dello Stato democristiano. Nicolini non va al fondo dei motivi politici che suscitano gli spasmi reattivi del suo collega di partito Luciano Lama e in qualche modo fa anche propria quella «differenza», ritenuta una ragione valida per dire no a Scalzone. Nel voler salvare lo Scalzone del 68 ne esce un po’ male quello del 77. A questo punto sono raccolti tutti gli elementi per fare di questo episodio un fatto esemplare, testimone delle lacerazioni, dei contrasti e delle sconfitte lunghe vent’anni della sinistra nel nostro paese mentre si rinnova solo «continuando», e le discontinuità si realizzano con un segno fortemente moderato e subalterno. Quando si ha il coraggio minimo di addentrarsi nella «notte della Repubblica» lo si fa sempre in modo manicheo per separare un «prima» da un «dopo», lì dove ciò che precede il 68 o la prima metà degli anni 70 è sempre migliore o più innocente di ciò che segue. È più facile rifiutare una tessera che affrontare le responsabilità avute nella stagione della solidarietà nazionale, nella scelta strategica del compromesso storico, nell’avvio delle politiche di concertazione e consociazione. È più facile negare un’iscrizione che spiegare perché si è sacrificata la possibilità di una forte alternativa politica e sociale in favore di uno scambio politico: accettazione di un ruolo di moderazione sociale in cambio dell’ingresso, per altro misero, nella maggioranza. Scelte che hanno prodotto l’omologazione dell’opposizione, la perdita di una sua autonomia e agibilità sociale, l’assunzione di una visione neutrale delle istituzioni che ha condotto alle aberrazioni dell’emergenza. L’avvio di una strategia emergenziale nei confronti dei movimenti armati e delle espressioni più indipendenti dell’antagonismo sociale, sostenuta dalla coralità dell’intero sistema politico e istituzionale, con una inedita saldatura nella storia della repubblica tra opposizione e governo, dà inizio a una prassi che negli anni successivi (fino ad oggi) ha teso a caratterizzare sempre più il sistema politico e sociale. Ne risultano modificate l’attività del governo, la soluzione delle controversie sociali e sindacali, la materia delle libertà civili fino a ridisegnare in senso autoritario il volto del paese. Il resto è storia di questi giorni.
a1977g Le reticenze e le oscillazioni nel ripensare la politica di quella intera stagione, le premesse e le conseguenze, sono sicuramente parte dei diversi motivi che hanno condotto alla crisi e al declino della sinistra italiana. E rappresentano una pesante ipoteca su ogni sua possibilità futura. Dalla «scena madre», i nodi problematici di questa crisi si sono trasmessi alle nuove formazioni politiche. Il nodo irrisolto degli anni 70 è tema trasversale di tutta l’attuale sinistra italiana. Anche per il suo versante comunista, Rifondazione: fin troppo carico di incertezze e differenze interne è il suo impegno sul tema della fine dell’emergenza e di una soluzione politica radicale, nonostante l’attività coraggiosa ma ancora troppo isolata di alcuni suoi dirigenti. Forse esagerava un po’ Luigi Pintor nei giorni scorsi quando, commentando il dibattito alla camera su Cossiga, constatava con la sua solita amara ironia come ormai l’opposizione sembra essere un concetto d’altri tempi e la sinistra una mera espressione geografica. Sbagliava Pintor e sbagliavamo tutti noi a pensare una cosa del genere. Perché invece in Italia una sinistra esiste. È la sinistra perbene. A quanto pare l’unica sinistra possibile.