Perché ai dietrologi da fastidio che i documenti sulle stragi non siano più riservati?

Smascheramenti – Il 22 aprile 2014 il capo del governo Matteo Renzi ha disposto la declassificazione degli atti conservati presso le diverse amministrazioni dello Stato (ministero dell’Interno, arma dei Carabinieri, Servizi segreti e altre strutture) riguardanti le stragi di piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), questura di Milano (1973), piazza della Loggia a Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980), Rapido 904 (1984)

image_galleryLa decisione del presidente del Consiglio fa seguito ad una direttiva impartita nel corso di una riunione del Cisr (Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica), tenutasi venerdì 18 aprile. In quella sede si è deciso il versamento anticipato della documentazione classificata relativa alle stragi in possesso delle diverse amministrazioni dello Stato, in omaggio alla trasparenza e in ottemperanza anche con quanto previsto nella legge 124 del 2007, che regola i nuovi termini del segreto di Stato, opponibile per un periodo non superiore ai 30 anni ma largamente disatteso, salvo alcuni casi circoscritti. Proprio perché il segreto di Stato – secondo la normativa attuale – può essere apposto per 15 anni, reiterabili una sola volta, restava sempre più ingiustificabile quel segreto di Stato strisciante che investe il resto della documentazione classificata prodotta dalle diverse amministrazioni dello Stato. Una inaccessibilità agli atti che incontra in via teorica un vincolo minimo di riservatezza di 40 anni (70 per le informazioni di carattere personale), in realtà spesso di gran lunga superiore per le ragioni più disparate frapposte da un’amministrazione completamente estranea ad una prassi e cultura della trasparenza.

Aboliti i vincoli di riservatezza
Quanto annunciato da alcuni organi d’informazione è risultato inesatto: la direttiva varata del governo non investe il segreto di Stato. Equivoco che ha suscitato diverse reazioni polemiche. Marco Minniti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza della Repubblica, ha precisato che il segreto di Stato «su queste vicende non c’era e non è stato apposto», perché non è opponibile sui documenti riguardanti le inchieste per strage o eversione dell’ordine democratico. Molto più semplicemente – ha spiegato – «sono stati eliminati i 4 livelli di classificazione: “riservato”, “riservatissimo”, “segreto” e “segretissimo” (l’equivalente nostrano della dicitura “Top Secret”)».

Socializzazione delle fonti
Le carte rese disponibili verranno raccolte in ordine cronologico presso l’Archivio centrale dello Stato. Anche se non siamo di fronte a quella rivoluzione copernicana annunciata da Repubblica, per intenderci nulla a che vedere con il Freedom of information act che negli Usa norma la trasparenza degli atti della pubblica amministrazione, si tratta pur sempre di una decisione positiva che faciliterà un accesso maggiore alla consultazione delle fonti d’origine statale (a dimostrazione del fatto che non serve essere di sinistra per fare cose intelligenti. Ricordiamo che quando rappresentanti della sinistra sono saliti al governo hanno fatto l’esatto contrario *).
Non solo specialisti e studiosi ma anche semplici cittadini potranno visionare questa documentazione e, nei limiti delle difficoltà che la lettura e l’interpretazione di materiali del genere presenta, costruirsi un giudizio storico-politico autonomo su quelle vicende. Questa “democratizzazione” degli archivi, questo controllo dal basso delle fonti archivistiche tuttavia non ha suscitato l’unanimità, al contrario è stata accolta con sufficienza e fastidio dai maggiori esponenti della scuola dietrologica e da alcuni portavoce della vittimocrazia che negli ultimi anni si sono visti attribuire il ruolo di tutori del ministero del passato.

L’altroquando, ovvero la verità è sempre altrove
«In quelle carte non ci sono grandi rivelazioni, non troverete nessuna smoking gun», ha subito ribattuto uno dei maggiori esponenti del complottismo italiano. Aldo Giannuli ha tuonato contro la decisione del governo affermando che «La magistratura, sia direttamente che tramite agenti di pg e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali». Anche le commissioni parlamentari – ha proseguito Giannuli – «che si sono succedute sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici). Diversi consulenti parlamentari e giudiziari (a cominciare dal più importante, Giuseppe De Lutiis, a finire al sottoscritto) hanno successivamente utilizzato abbondantemente quella documentazione per i loro libri». Saremmo dunque «alla “quinta spremuta” di queste olive – ha concluso– : ci esce solo la morga, robaccia».
«I segreti stanno altrove», suggerisce quello che è stato il consulente di ben 13 procure e diverse commissioni d’inchiesta parlamentare. «Bisogna cercare nell’archivio riservato della Presidenza della Repubblica, nella sede Nato di Bruxelles, negli uffici Uspa dei ministeri», lì dove l’inaccessibilità ad oggi resta totale.
Insomma il messaggio dei dietrologi è chiaro: è inutile che andiate a cercare, lo abbiamo già fatto noi! Fidatevi di quello che noi vi abbiamo raccontato, lasciate a noi il monopolio del discorso storico!

Una storia dal basso
Se le cose stanno così, se le carte che verranno versate presso l’Acs – come sottolinea Giannuli – non hanno grandi rivelazioni da fornirci, se la verità si trova sempre altrove, nell’altroquando, vorremmo allora capire su quali basi e fonti i dietrologi hanno creato nel corso degli ultimi decenni la loro monumentale produzione letteraria, quell’immensa discarica della storia che è la narrazione dietrologica imperniata sulle varie teorie del doppio Stato, dello Stato parallelo, degli Anelli, collari e guinzagli….
Basterebbe solo questo per comprendere l’importanza di questa declassificazione. L’eventuale persistenza di “santuari del segreto” non toglie nulla al fatto che si sia aperta finalmente una crepa, che si sia rotto il monopolio delle fonti in mano alla magistratura e alle commissioni parlamentari, a quello stuolo di specialisti di corte, quella scia di consulenti di partito, periti della magistratura e funzionari di polizia giudiziaria, cioè gli stessi produttori delle carte esperite, che hanno valutato per decenni queste fonti riservate elargendole in modo selettivo al giornalista amico, orientando scoop e rivelazioni, elaborando il più delle volte narrazioni mistificatorie.
Fermo restando che un giudizio completo sul valore dei documenti declassificati sarà possibile solo dopo la loro consultazione, la possibilità di un libero accesso a fonti prima riservate contiene i germogli di una nuova primavera storiografica libera dalla dipendenza dei discorsi formulati dalla magistratura e dai suoi consulenti. Non è cosa da poco tornare ad una storiografia non più egemonizzata dal paradigma penale, da una concezione indiziaria, da una visione poliziesca che ha fatto del “sospetto” la chiave di lettura della realtà.

I dietrologi snobbano il libero accesso alle fonti d’archivio
Ai dietrologi tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte ha permesso a questi cialtroni di utilizzare gli archivi come un fondo di commercio per i loro libri-spazzatura e per le loro carriere accademiche, ma ancor di più ha messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, totalmente stabilizzatore, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita con questo atteggiamento ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico.
La «dietrologia», ovvero questa moderna arte divinatoria protesa a «predire il passato», ha tolto la capacità di capire la storia. È in questo modo che la dietrologia contro le trame di Stato si è fatta dietrologia dello Stato contro la società. Sugli anni 70 si romanza, s’inventa, si fantastica, si fa astrologia e cartomanzia, criminologia, vittimologia, fiction, tutto fuorché scienza sociale.

Ripensare le fonti
È noto come il discorso dietrologico segua una logica ermetica, un procedere circolare, un divenire chiuso. Questa sordità cognitiva lo tutela dalle smentite che si accumulano nel tempo rendendo estenuante e del tutto inefficace la verifica della semplice coerenza interna ed esterna delle sue asserzioni. Le teorie complottiste non recepiscono mai la confutazione, che anzi viene letta come una dimostrazione ulteriore della cospirazione contro la verità (dispositivo che ricorda la famosa «prova diabolica» dell’inquisizione). Tallonare i molteplici e mutevoli asserti che alimentano le teorie del complotto, quegli arcana imperii, quei «lati oscuri», quel «sottosuolo inquietante» sempre evocato, non sortisce risultati per la semplice ragione che la dietrologia è un’antistoria.
In queste vicende la logica e i principi della razionalità illuministica non funzionano di fronte ad una retorica che ricorre a tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, l’uso di acquisizioni parziali, ricostruzioni lacunose, errori macroscopici, manipolazioni, invenzioni, sentito dire, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni.
Liberarsi dalle superstizioni e tornare a pensare una realtà traversata da processi, conflitti e contraddizioni, recuperare la categoria di storicità degli eventi, è il solo modo per uscire dalla superstizione del complotto. Emanciparsi dall’idea che il lavoro di ricostruzione storica debba ridursi a una sorta di risalita gerarchica verso un vertice, una struttura a base piramidale che nasconde l’ordito del complotto (variante volgare, nel migliore dei casi, delle ben più solide teorie elitiste) è un grande salto verso la libertà di ricerca.
L’acceso libero alle fonti è sicuramente un passaggio fondamentale per portare avanti questo rinnovamento storiografico, ma non basta. Occorre ripensare anche le fonti, allargare il loro spettro. Cercare fonti nuove, non solo di produzione statale per non restare imprigionati all’interno di quello che fu lo sguardo degli enti statali sui fatti.

 Note
* Nel periodo in cui fu ministro dell’Interno, 1996-1998, Giorgio Napolitano non si distinse certo per un’azione in favore della trasparenza. Il successivo governo di Massimo D’Alema, 1998-1999, promosse addirittura i Carabinieri a quarta arma dello Stato ed allungò i termini del segreto di Stato.

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Il nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70

Libri – Il Nemico inconfessabile, Paolo Persichetti, Oreste Scalzone, Odradek gennaio 1999

Adriana Bellini
Liberazione
27 dicembre 1998

«Quando la Francia ha dato asilo politico a gente che era stata condannata nel nostro paese, non abbiamo certo assalito l’ambasciata, abbiamo rispettato quella decisione». Interrogato sul caso Ocalan, nel cortile dell’Eliseo, il 24 novembre D’Alema ha risposto così, accennando ai fuoriusciti italiani che vivono a Parigi. nemicoinconfessabile21Era stato
Mitterrand, dopo la sua elezione a presidente della Repubblica nell’81, ad accogliere quei protagonisti degli anni di piombo italiani che erano fuggiti in Francia per evitare le pene severe previste dalla legislazione d’emergenza contro il terrorismo. C’è chi ha fatto l’operaio, chi si è trovato un posto da giornalista o ha vinto un concorso da ricercatore chi, infine, si e scoperto la vocazione dello scrittore. Figli, famiglie e alcuni punti di incontro, come la libreria italiana di Rue du roi de Sicile, certe trattorie o i locali dove Scalzone organizza i suoi incontri teatrali e letterari. Ma l’Europa e l’applicazione del trattato di Schengen, che rende esecutivo in ogni paese il mandato d’arresto emesso da un altro stato membro, ha sconvolto la vita di questa mini comunità italiana. La polizia ha arrestato alcuni fuoriusciti – altri ne avrebbe potuto arrestare in qualunque momento – per avviare la procedura d’estradizione. Ma Jospin è intervenuto rapidamente, dopo appena dieci giorni, per ribadire che il governo della gauche plurielle avrebbe tenuto fede agli impegni di Mitterrand. Così persino Scalzone, che si voleva ultimo degli esuli, ha ottenuto tre mesi fa i documenti. Non li ha, invece, Paolo Persichetti che con Scalzone firma un libro, Il nemico inconfessabile, che sarà in libreria, sia in Italia che in Francia, alla fine di gennaio. Persichetti, infatti, è stato oggetto di un decreto di estradizione già quando era primo ministro Balladur (e la destra usava fare i dispetti all’allora presidente Mitterrand). Così ora quest’uomo, rimasto implicato quando era poco più che un ragazzo nell’ultimissima fase della lotta armata in Italia, viene semplicemente ignorato: nessuno lo arresta ma è rimasto l’unico “sans papier” tra i fuoriusciti italiani. Scalzone sostiene che sarebbero state esercitate pressioni da parte del ministero di Grazia e Giustizia per riavere in Italia uno almeno dei fuggitivi. Perciò si appella al ministro Diliberto e minaccia persino lo sciopero della fame.
Caso Persichetti a parte, nel libro, fin dalla prefazione di Erri de Luca, si sostiene che la lotta armata era conseguenza inevitabile dello scontro sociale negli anni settanta. E tuttavia, sostengono Scalzone e Persichetti, gli intellettuali di sinistra, lo Stato, la democrazia italiana non vogliono riconoscere, non intendono confessare, il carattere politico di quella stagione: di qui il titolo “Il nemico inconfessabile”.
Di queste storie, di questo modo particolare di vivere da Parigi la storia recente d’Italia, si occupa un film, presentato, alla cinemateque francaise, nel grande complesso delle Halles. Il titolo è Ciao Bella Ciao e l’autore Jorge Amat, figlio di un comunista spagnolo. Si apre con il viaggio di ritorno in Italia di Toni Negri, con la sua scelta di andare in carcere per strappare una soluzione politica del problema dei fuoriusciti. Poi immagini di repertorio (Valle Giulia, Parco Lambro, i funerali a Milano dello studente Zibecchi) si alternano alle interviste realizzate a Parigi con gli “esuli”.
Marongiu – che ora è giornalista a “Liberation” – racconta nel film gli incontri di calcio fra fuoriusciti italiani e spagnoli, o greci, o marocchini, o iraniani. Poi sono passati gli anni e a poco a poco le altre squadre scomparivano: i giocatori potevano tornare al loro paese. «Allora uno comincia a pensare alla storia – dice Marongiu – la Comune di Parigi fece migliaia e migliaia di morti, ma dieci anni dopo, nel 1881, nelle colonie penali di oltreoceano non c’era più nessuno dei comunardi». Gli stati dopo crisi politiche, insurrezioni e repressioni, scelgono in genere di voltare pagina. E in Italia?

Quella ferita aperta degli anni 70. Lama, «Scalzone, sei un pregiudicato». Ma anche Gramsci lo era

Quando Luciano Lama spiegava il no del Pds alla provocatoria richiesta di ingresso nel partito avanzata da Oresta Scalzone, che da Parigi voleva mettere alla prova il “nuovo corso” occhettiano, la tanto declamata e mai compiuta discontinuità con gli anni del consociativismo e del compromesso storico


Quella ferita aperta degli anni 70

Paolo Persichetti
il manifesto 10 luglio 1991

Era forse un anno fa, o giù di lì, nel bel mezzo del travagliato scontro sulla scnapoli1 proposta di dar vita ad una nuova formazione politica, che l’Unità pubblicava con rilievo la notizia di un gruppo di ex appartenenti al movimento del 77 bolognese intensionati ad aderire al nuovo partito occhettiano, la «Cosa», nato dopo l’annuncio della Bolognina. L’iniziativa non era frutto di una operazione unilaterale, bensì il prodotto di contatti e discussioni evidentemente giunti a buon punto. Non fu certo un caso se al termine della scorsa estate, durante un dibattito svoltosi nel corso della festa della Fgci a Castel Sant’Angelo, si ritrovarono dietro ad uno stesso tavolo Massimo D’Alema, Franco Berardi, detto Bifo, (uno degli esponenti più noti del movimento del 77 bolognese) e altri per discutere proprio del 1977. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti se è vero che ad Oreste Scalzone, esule a Parigi, poco tempo fa è stata respinta la richiesta di adesione al Pds, per altro con una motivazione che ha del grottesco. Lo statuto del nuovo partito, infatti, impedirebbe l’iscrizione a chiunque sia incorso nella interdizione dai pubblici uffici o abbia subito condanna per delitto grave. L’ingresso in un partito politico appare, così, normativamente equiparato a quello in una amministrazione pubblica. Triste fine per il partito dei diritti che assume come propria regola interna una «pena accessoria» che compromette la piena affermazione dei diritti civili. Ancor di più viene da chiedersi quale sia ormai il senso della storia per quella parte del corpo politico che vorrebbe impersonare la sinistra. Quanti fondatori, dirigenti, militanti del Pci sono diventati pregiudicati secondo le norme del codice Rocco? Le stesse che, con l’aggiunta delle aggravanti della legge speciale Cossiga, hanno reso pregiudicato Scalzone e migliaia di altri partecipanti alle formazioni politiche della sinistra estrema (armata e non) nel corso degli anni 70 e 80. fot017
Qui non interessa discutere i motivi, condivisibili o meno, che hanno spinto Scalzone e altri provenienti dalla stagione degli anni 70 a chiedere la tessera del Pds (anche se le ragioni di una simile scelta in una figura come la sua non sono state certo esenti dalla volontà di porre in modo estremo il problema degli esuli e della amnistia politica). Occorre invece affrontare il rapporto irrisolto con il recente passato, questione che sta alla base del rifiuto posto dal Pds. A tal proposito l’articolo di Renato Nicolini (manifesto del 22 giugno) questa volta aiuta a ben poco. Il taglio del suo intervento (piuttosto minimalista) aggira il cuore del problema: l’incoerenza e l’insufficienza di un percorso di discontinuità condotto nel senso della più completa rimozione sia delle ragioni di quella stagione di opposizione estrema, sia delle contestuali scelte operate dalla maggiore forza della sinistra italiana nell’aderire alla causa dello Stato democristiano. Nicolini non va al fondo dei motivi politici che suscitano gli spasmi reattivi del suo collega di partito Luciano Lama e in qualche modo fa anche propria quella «differenza», ritenuta una ragione valida per dire no a Scalzone. Nel voler salvare lo Scalzone del 68 ne esce un po’ male quello del 77. A questo punto sono raccolti tutti gli elementi per fare di questo episodio un fatto esemplare, testimone delle lacerazioni, dei contrasti e delle sconfitte lunghe vent’anni della sinistra nel nostro paese mentre si rinnova solo «continuando», e le discontinuità si realizzano con un segno fortemente moderato e subalterno. Quando si ha il coraggio minimo di addentrarsi nella «notte della Repubblica» lo si fa sempre in modo manicheo per separare un «prima» da un «dopo», lì dove ciò che precede il 68 o la prima metà degli anni 70 è sempre migliore o più innocente di ciò che segue. È più facile rifiutare una tessera che affrontare le responsabilità avute nella stagione della solidarietà nazionale, nella scelta strategica del compromesso storico, nell’avvio delle politiche di concertazione e consociazione. È più facile negare un’iscrizione che spiegare perché si è sacrificata la possibilità di una forte alternativa politica e sociale in favore di uno scambio politico: accettazione di un ruolo di moderazione sociale in cambio dell’ingresso, per altro misero, nella maggioranza. Scelte che hanno prodotto l’omologazione dell’opposizione, la perdita di una sua autonomia e agibilità sociale, l’assunzione di una visione neutrale delle istituzioni che ha condotto alle aberrazioni dell’emergenza. L’avvio di una strategia emergenziale nei confronti dei movimenti armati e delle espressioni più indipendenti dell’antagonismo sociale, sostenuta dalla coralità dell’intero sistema politico e istituzionale, con una inedita saldatura nella storia della repubblica tra opposizione e governo, dà inizio a una prassi che negli anni successivi (fino ad oggi) ha teso a caratterizzare sempre più il sistema politico e sociale. Ne risultano modificate l’attività del governo, la soluzione delle controversie sociali e sindacali, la materia delle libertà civili fino a ridisegnare in senso autoritario il volto del paese. Il resto è storia di questi giorni.
a1977g Le reticenze e le oscillazioni nel ripensare la politica di quella intera stagione, le premesse e le conseguenze, sono sicuramente parte dei diversi motivi che hanno condotto alla crisi e al declino della sinistra italiana. E rappresentano una pesante ipoteca su ogni sua possibilità futura. Dalla «scena madre», i nodi problematici di questa crisi si sono trasmessi alle nuove formazioni politiche. Il nodo irrisolto degli anni 70 è tema trasversale di tutta l’attuale sinistra italiana. Anche per il suo versante comunista, Rifondazione: fin troppo carico di incertezze e differenze interne è il suo impegno sul tema della fine dell’emergenza e di una soluzione politica radicale, nonostante l’attività coraggiosa ma ancora troppo isolata di alcuni suoi dirigenti. Forse esagerava un po’ Luigi Pintor nei giorni scorsi quando, commentando il dibattito alla camera su Cossiga, constatava con la sua solita amara ironia come ormai l’opposizione sembra essere un concetto d’altri tempi e la sinistra una mera espressione geografica. Sbagliava Pintor e sbagliavamo tutti noi a pensare una cosa del genere. Perché invece in Italia una sinistra esiste. È la sinistra perbene. A quanto pare l’unica sinistra possibile.