Sono profonde le radici del «ghetto», Franco Basaglia commenta il film «Matti da slegare»

Archivi – Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare.

Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano aboliva i manicomi psichiatrici. Primo paese al mondo a prendere una decisione del genere. La legge 180 arrivò dopo un complesso dibattito culturale e parlamentare dove il movimento antipsichiatrico era cresciuto intrecciandosi con le rivendicazioni degli altri movimenti sociali animati da forti spinte innovatrici e liberatrici. La decisione fu accelerata dall’incombere del referendum promosso dal partito radicale e venne integrata nel dicembre successivo all’interno della legge che istituiva il sistema sanitario nazionale. Conosciuta anche come legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, nonostante questi fosse contrario alla presenza del trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla nuova normativa, è forse l’istituto più rivoluzionario varato nella storia della repubblica italiana per la portata concreta che ebbe sulla realtà del Paese e il significato gravido di potenza simbolica che conteneva.
Gli asili psichiatrici erano dei veri e propri lager, luoghi di sofferenza, emarginazione, violenza, torture, sevizie, come avevano testimoniato nel 1969 Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nella loro inchiesta fotografica, Morire di classe. La condizione manicomiale. Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare. Forse non è un caso se a metà di quel decennio, il 1975, si raggiunge in Italia il più basso numero di detenuti rinchiusi nelle prigioni. Basaglia aveva già sperimentato con alcuni anni di anticipo, prima a Gorizia e poi a Trieste, la chiusura degli asili manicomiali. I reparti erano stati aperti, ai pazienti erano stati restituiti i loro diritti fondamentali, le rigide divisioni di genere abolite (portando i pazienti a vivere in intimità). L’ospedale diviso in settori (corrispondenti a diverse zone della città e provincia), soprattutto furono create delle cooperative per consentire ai pazienti di vivere una vita autonoma, di costruire la propria indipendenza e socialità. All’abolizione del manicomio dovevano subentrare delle vere e proprie comunità terapeutiche. Con il raffreddamento delle spinte di cambiamento, la riproposizione dei vecchi modelli di società disciplinare, anche la legge 180 ha subito un freno, soprattutto il carcere ha ripreso il posto dei vecchi asili psichiatrici. Nonostante ciò, l’antipsichiatria è stato il movimento che più di ogni altro è riuscito a incrinare i dispositivi di stigmatizzazione sociale, lasciando dietro di sé una eredità feconda su cui è potuta crescere la cultura della inclusività, la rivendicazione delle differenze, quel diritto di vivere ognuno a modo suo che ha animato i movimenti di liberazione delle donne, omosessuali, lgbt, queer, disabili e oggi la cultura della intersezionalità.

«Matti da slegare»
Sono profonde le radici del «ghetto»
Franco Basaglia
L’Unità 26 giugno 1977
Pagina 3

Sabato scorso è apparso e ieri sera si è concluso alla Televisione italiana il documentario che Bellocchio, Agosti Petraglia e Rulli hanno realizzato raccontando una esperienza che si è maturata alla fine degli anni ’60 nel campo dell’assistenza psichiatrica in provincia di Parma.
«Matti da slegare – Tutti o Nessuno» è il documento nel quale si riconoscono quegli operatori che in Italia, negli ultimi 15 anni, sulla spinta delle grandi lotte operaie e studentesche hanno lavorato per «aprire» le arcaiche strutture psichiatriche.
Il film va ben oltre le vicende personali che narra. In un medesimo atto di denuncia vengono coinvolti, nelle loro reciproche connessioni, da un lato lo spazio concreto dell’internamento del malato di mente – come nella puntata che abbiamo visto ieri – dall’altro la funzione di un sapere astratto, ritagliato nella teoria medica, intimamente dissociato, fin dalle sue origini, quanto alle sue finalità non mediche.
La dissociazione profonda, costitutiva della psichiatria, eroicamente risospinta verso riaggiustamenti interni delle «istituzioni» o del «sapere» non è viceversa spiegabile se non si coinvolge nell’analisi e nella denuncia la società, sia come organizzazione, sia come norma e valori dominanti, sia come società divisa in classi.
Limitarsi ad umanizzare la condizione di chi soffre con la creazione di luoghi «alternativi» e «comunitari», ma pur sempre appartati, dove trascorrere il tempo, breve o indefinito, della propria rottura con la norma, non muta la qualità della risposte se si accettano le finalità di una organizzazione «sociale» che tende ad espellere da sé la sofferenza separando i suoi portatori fra le mura di una istituzione.
Al contrario occorre tendere alla distruzione di questi luoghi dove miseria e sofferenza si occultano e si confondono reciprocamente, omologando dentro un mondo di marginali l’identità ed i bisogni di ciascuno.
Alle contraddizioni di una sofferenza che si mostra, nel suo ambiente, irriducibile, si risponde col servizio: quale che sia il destino della domanda, quale che sia la normalizzazione ottenuta o la soddisfazione del bisogno o la possibilità stessa di esprimerlo, il rapporto col servizio realizza l’omologazione necessaria affinché il conflitto apertosi non resti senza norma, non resti «fuori», «altro», polo critico ed illegale, pericoloso, spazio non controllabile.

Una doppia resistenza
Questa nuova totalizzazione, apparentemente opposta a quella asilare in quanto diffusa, destigmatizzante, pulita quanto l’altra appariva concentrata, definitoria, violenta, ha il vantaggio così di poter estendere il controllo medico-istituzionale ad aree di conflitto molto più larghe.
Il lavoro di questi anni è partito da questa consapevolezza.
Non si aveva di fronte solo una fortezza da attaccare, il manicomio, ma una «istituzione diffusa» modellata sulla sua logica, assai più duttile della rigida struttura asilare, capace di diffondersi, trasformarsi e riciclarsi.
Si è trattato dunque di innescare un processo del tutto nuovo, in cui gli ostacoli, affrontati giorno per giorno, non concernevano più solo le resistenze – istituzionali del dentro, ma, insieme a queste, incrociate e sovrapposte, le resistenze del «fuori», cioè della organizzazione sociale generale.
L’esperienza si è dislocata così su piani molto più complessi, per i quali si sono dovute inventare strategie «assistenziali» capaci di mediare contemporaneamente più fronti di intervento.
Obiettivo prioritario diventava la ricostituzione della singolarità della persona: sottrarla definitivamente al rapporto di tutela e riportarla, attraverso un percorso a ritroso, nel circuito degli scambi sociali.
Il processo tendenziale, così enunciato può suonare ancora una volta equivoco, dacché la psichiatria europea, da molti anni a questa parte, ha declamato proclami del genere, di reinserimento nel sociale, attraverso il riapprendimento delle regole; mettendo in atto per far questo nuovi codici e nuove terapeutiche.
La differenza che ci separa è lo spessore delle mura manicomiali.
Non si è trattato per noi di liberare la istituzione per riconvertirla ad un nuovo progetto «interno», costellandola, allo «esterno», di nuovi servizi assistenziali, selettivi di una nuova utenza, bensì di creare una nuova organizzazione transitoria capace di adeguarsi allo scopo che ritenevamo – essenziale: spezzare tutte le norme che regolamentavano la dipendenza dell’internato, ricostruire concretamente la sua identità di persona giuridica; porre le basi irreversibili del suo essere dentro il corpo sociale.
In altre parole sostituire al rapporto di «tutela» un rapporto di «contratto».
In nessun momento abbiamo nutrito l’illusione di trasformare lo spazio dell’internamento in uno spazio «clinico» o «multidisciplinare», per la consapevolezza profonda di due ordini di problemi: da un lato la «malattia» si costituisce nel sociale come processi di sanzioni, di restrizioni, di scambi, di resistenze accumulate – che rafforzano il «germe»; dall’altro l’Ospedale Psichiatrico non è mai stato altro che la sanzione definitiva della esistenza del «contagio», il luogo che con la sua esistenza, determinava ed organizzava la presenza minacciosa dei germi e l’inevitabilità, a certe condizioni, di andarveli a depositare.
Assumere il manicomio in tutta la sua consistenza di focolaio di infezione significa trovare una coerenza in facce opposte di una stessa realtà: comunità terapeutiche, manicomi, servizi territoriali, ospedali giudiziari si intrecciano costantemente capaci di convivere grazie, non solo all’inerzia del sistema, ma alla logica di un piano che non rischia su spazi vuoti di controllo.
La denuncia di Terzian sul racket italo-argentino della lobotomia, la condanna del direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa, le difficoltà quotidiane a rompere la reazione a catena della psichiatrizzazione rappresentano in modo chiaro le contraddizioni in cui si muove la situazione italiana.
Da un lato la capacità di lotta espressa in questi anni dal movimento operaio e delle dorme sui temi della salute e della medicina, dall’altro la rigidezza e l’inerzia di una classe dirigente che resiste al cambio, sono fattori che acuiscono la durezza dello scontro in atto e la impotenza dei programmatori.
[…]

Morte di Giuseppe Uva, una telefonata accusa i carabinieri

I due militari: “Lo puoi tenere bene, è debole”

http://www.youtube.com/watch?v=KB-RtWXV3Pg


Una registrazione smentisce nettamente la versione dei carabinieri su quanto accaduto nella caserma di Varese la notte fra il 13 e il 14 giugno 2008, quando iniziò il calvario di Giuseppe Uva che poi lo portò alla morte. I militari hanno sempre parlato di “atti di autolesionismo” del quarantenne che, portato in caserma, avrebbe iniziato a “buttarsi dalla sedia, divincolarsi, resistere, dare calci contro armadio e scrivania, procurandosi lesioni lievi ed escoriazioni agli arti inferiori”, che la sorella avrebbe poi fotografato la mattina dopo sul corpo senza vita di Giuseppe. In realtà, leggendo le registrazioni, la realtà sembrerebbe un’altra: i due carabinieri parlano di Giuseppe come di “un ragazzo debole, che si può tenere”, a differenza dell’altro fermato, l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, che dalla caserma aveva chiamato il 118.
 Nella telefonata, Bigioggero dice di vedere “il via vai di carabinieri e poliziotti, di sentire le urla di Giuseppe che echeggiano per la caserma e i colpi dal rumore sordo” e dice all’operatore che “stanno massacrando un ragazzo”. A quel punto il 118 chiama in caserma per sapere se serve un’ambulanza, ma i militari rispondono che non serve perche “sono due ubriachi e ora gli togliamo i cellulari”. Bigioggero racconterà di aver sentito le urla di Uva per un’altra ora e mezzo dopo la telefonata.

Ecco il testo della telefonata. Sono le 7 e 54 minuti. Giuseppe è in ospedale. Per un minuto e mezzo, i militari del Radiomobile ridono, si scambiano battute, poi parlano di due ragazzi fermati.


Carabiniere 1
: “Paolo era impegnato con Uva Giuseppe, stanotte”.

Carabiniere 2: “Si, si..”.

Carabiniere 1: “E poi io gli ho portato qua anche il F. B. Gliel’ho detto a Mario, non so chi è tra i due.. chi è il migliore. Non lo so, Uva..”.

Carabiniere 2: “No, no.. Uva fisicamente lo puoi tenere, tanto è debole”.

Carabiniere 1: “Ah..”

Carabiniere 2: “Il B. era intenibile”.

A quell’ora Uva era arrivato all’ospedale, ma solo da poco (circa alle 6 di mattina). Qui prende i farmaci che alle 11.10 lo portano alla morte – secondo la procura, che ha indagato per omicidio colposo due medici – perché incompatibili con l’alcol in corpo. 
«La telefonata tra i militari – dice l’avvocato degli Uva Fabio Anselmo – mina alla base la versione data dalle forze dell’ordine, che sostengono che Uva si sia procurato le ferite da solo». Anche lo stato fisico di Uva è uno dei tanti enigmi: il tasso alcolico di 1,6 registrato dall’autopsia è compatibile con l’autolesionismo o provoca – come dice la letteratura medica – “sonnolenza molto intensa?”. Per questo, da tempo, la difesa chiede una nuova autopsia: la mancanza di esami radiologici ha impedito di individuare fratture. Una verifica che oggi può essere fatta solo con la riesumazione del corpo.

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Perché Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto?

Nuovi sconcertanti particolari emergono sul decesso del ragazzo di Varese fermato dai carabinieri

Liberazione 28 marzo 2010
Luca Bresci

Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto. Dopo la presunta storia della relazione sentimentale con la moglie di uno dei militari che lo avevano fermato, insieme con un suo amico, la sera del 13 giugno nelle strade di Varese, vengono a galla nuovi sconcertanti particolari sulla vicenda del suo decesso. Il 15 giugno proprio l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, consegna una denuncia per lesioni, ingiurie e minacce alla procura della repubblica. Nell’esposto si descrive uno scenario da incubo: l’atteggiamento aggressivo dei militi, in particolare di uno di loro che subito apostrofa Uva gridandogli: «cercavo proprio te»; e poi «un’ora e mezzo di pestaggio» nella caserma di via Saffi, la chiamata al 118, l’intervento dell’ambulanza bloccato dal personale della caserma, il sequestro del telefonino. Quello stesso 15 giugno sia Uva che Biggiogero furono a loro volta denunciati per «disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone», come riporta il processo verbale redatto dai due militari dell’Arma che avevano bloccato i due amici in piazza Madonnina del Prato. Sarà interessante conoscere l’ora esatta in cui furono depositate le due denuncie, per sapere quale venne presentata prima, e se quella dei carabinieri fu solo una risposta all’esposto di Bigioggero per tentare di giustificare il fermo a posteriori. Tuttavia qualunque sia la risposta a questa domanda, nulla ormai potrà cambiare il fatto che a quella data Uva era già cadavere da almeno ventiquattro ore.
Perché i carabinieri hanno aspettato tanto? L’anomalia, se così vogliamo chiamarla, portata alla luce da alcuni quotidiani locali, è davvero gigantesca e si aggiunge alle tante ombre e domande, ancora senza risposta, che circondano l’intera vicenda. L’artigiano di 43 anni venne fatto ricoverare in un reparto psichiatrico dai carabinieri che chiesero per lui un Tso presso l’ospedale di Circolo. Uno stratagemma per farlo sembrare pazzo e depotenziare preventivamente una sua eventuale denuncia per il trattamento subìto. Chi avrebbe dato retta ad uno “squilibrato” certificato con un trattamento sanitario obbligatorio? Ad Uva venne somministrata una terapia sedativa incompatibile con l’alcool assunto nella serata precedente. Poche ore dopo, alle 10.30 del 14 giugno, spirò per insufficienza respiratoria ed edema polmonare. Ovviamente la versione ufficiale del decesso, stilata dopo una sommaria autopsia che stranamente non contemplò esami radiologici per verificare l’esistenza di eventuali fratture ossee, nonostante l’evidente presenza sul corpo di ematomi, traumi e tracce di sangue, non ha mai persuaso i familiari. L’inquietante dinamica dei fatti, la procedura illegale del fermo, le tracce di percosse sul corpo, sollevano troppi dubbi. Di punti oscuri la vicenda ne ha fin troppi: come le dichiarazioni, ignorate, del comandante del posto di polizia presso l’ospedale che nel suo rapporto escludeva la natura «non traumatica» della morte e rilevava «una vistosa ecchimosi rosso-bluastra» sul naso, e che «le ecchimosi proseguono su tutta la parete dorsale». Il poliziotto registrava anche l’assenza di slip e la presenza sui pantaloni, «tra il cavallo e la zona anale di una macchia di liquido rossastro», mentre la sorella ricorda di aver visto «tracce di sangue dall’ano». A proposito degli slip, in un’informativa inviata quindici giorni dopo la morte, i carabinieri sostengono di non essere in grado di dire se l’uomo indossasse o meno gli slip, perché «al momento dell’intervento dei militari non venne perquisito». Affermazione che secondo l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, è in palese contrasto con le relazioni presentate dall’Arma dopo i fatti. In quei rapporti, sostiene sempre il legale, «i militari mostravano di sapere di ferite sulle gambe di Giuseppe, che però aveva i jeans». I suoi slip non sono mai stati rinvenuti, al loro posto la sorella, giunta all’obitorio, ha trovato un pannolone. Circostanza che solleva inquietanti sospetti, ad oggi ancora mai fugati, sulla possibilità che siano stati fatti sparire perché intrisi di sangue, e possibile prova di sevizie praticate nella parte posteriore del corpo. Le domande senza risposta non finiscono certo qui. A detta sempre di Lucia Uva, il carabiniere più giovane, presente al momento dell’arresto, sarebbe stato trasferito quindici giorni dopo la morte di suo fratello. Nessuno dei carabinieri coinvolti nella vicenda o degli agenti della polizia di Stato, stranamente accorsi in forze nel Comando dei carabinieri la sera del pestaggio, è mai stato ascoltato fino ad oggi dai magistrati che indagano.
E’ di ieri la notizia che due cronisti della stampa locale, uno della Prealpina e l’altro della Provincia di Varese, sono stati sentiti in procura per «sommarie informazioni testimoniali». La convocazione, secondo un’interpretazione apparsa su alcuni quotidiani, sarebbe dovuta a degli articoli poco apprezzati in procura. Intanto l’eco mediatica raggiunta dalla vicenda ha sbloccato l’iter giudiziario: il gip ha fissato per il 9 giugno prossimo l’udienza preliminare nei confronti dei due medici che hanno accettato il Tso e somministrato i farmaci, accusati di omicidio colposo, sempre che la riapertura delle indagini sulla verifica del movente della gelosia e la nuova autopsia richiesta dalla famiglia non dimostri che Uva subì traumi tali da indebolire il suo fisico di 69 chili, al punto da non sopportare il Tso. In questo caso sarebbero i carabinieri a dover rispondere di omicidio preterintenzionale.

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Delitti d’onore: ucciso perché «aveva frequentato la moglie di un carabiniere»

Luca Bresci
Liberazione 23 marzo 2010

Emergono nuove circostanze che gettano una luce ancora più inquietante sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo di 43 anni morto il 14 giugno del 2008 nell’ospedale di Varese dopo un pestaggio subito nella caserma dei carabinieri. Sembra che tra lui e uno dei militi che lo avevano fermato la notte precedente ci fossero degli screzi personali legati a una donna. Alberto Biggiogero condotto in caserma insieme ad Uva, e che racconta di aver sentito le grida atroci dell’amico provenire dalla stanza dove era stato rinchiuso, tanto da chiamare il centralino del 118 per chiedere un intervento (circostanza che ha trovato piena conferma dalla registrazione della telefonata e dai successivi contatti del 118 con la caserma), ha sostenuto in un’intervista che Uva «aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere e questi, in seguito, aveva promesso di fargliela pagare». Biggiogero non sa chi fosse la donna, ma la sera del fermo per schiamazzi notturni accadde qualcosa di molto simile a quanto paventato dall’amico. Nella dettagliata denuncia presentata alla procura di Varese, Biggiogero descrive la scena: «Un carabiniere si avvicina a noi con uno sguardo stravolto urlando “Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del brutale pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia avrebbe potuto essere quello del forte risentimento personale nutrito da un esponente dell’Arma e che avrebbe coinvolto altri suoi colleghi. La presenza in passato di uno screzio con i carabinieri, sempre per questioni di donne (Uva era incensurato), viene confermato anche dalla sorella dell’uomo, Lucia. D’altronde la descrizione del suo corpo martoriato, in particolare le tracce di sangue sul retro dei pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e alla zona anale, lasciano supporre il ricorso a sevizie di natura sessuale compatibili col movente indicato. L’avvocato Anselmo, legale della famiglia, è più prudente e preferisce procedere con metodo: «Basterebbe poter consultare il traffico delle chiamate in uscita e in entrata sull’utenza del cellulare di Uva per accertare la verità». Per questo nei prossimi giorni depositerà una memoria avanzando diverse richieste per la riapertura delle indagini, tra cui la riesumazione della salma affinché venga realizzata una nuova autopsia finalizzata a nuovi accertamenti medico-legali sulla natura delle ecchimosi e dei lividi raffigurati nelle foto e la presenza di eventuali fratture e altri traumi. Nel frattempo il procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, ha rivendicato «il corretto operato dei colleghi titolari del procedimento». In un comunicato ha reso noto che «il 30 settembre 2009 la dottoressa Sara Arduini ha aperto un nuovo procedimento proprio per verificare le nuove accuse della famiglia e le dichiarazioni rese da Alberto Biggiogero ed accertare ulteriori ipotesi di determinismo sull’accadimento». Non vi sarebbero per il momento persone iscritte nel fascicolo degli indagati, ma a detta del procuratore «sono state espletate ulteriori attività istruttorie e altre ne verranno svolte, nel caso con la possibile partecipazione dei difensori». Per quanto riguarda, invece, il procedimento per omicidio colposo nei confronti dei due medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese che diedero assistenza a Uva durante il ricovero, il procuratore ha sottolineato che «si è in attesa della fissazione della prima udienza preliminare».
A ventuno mesi dalla morte di Giuseppe Uva cominciano a trovare conferma molti elementi che smentiscono la versione ufficiale fornita dalle autorità. Tuttavia numerose domande attendono ancora risposta, tra queste il numero dei militi dell’Arma e degli agenti della polizia di Stato presenti nella caserma la notte tra il 13 e 14 giugno e perché mai questi testi non siano mai stati ascoltati. Il velo di omertà, la catena di complicità e il muro dell’impunità di Stato cadranno?

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«Lucia Uva mi ha telefonato a Natale»

Checchino Antonini
Liberazione 21 marzo 2010


«Lucia Uva mi ha telefonato a Natale. Era disperata per l’insensibilità riscontrata rispetto alle sue aspettattive di giustizia». Fabio Anselmo, legale ferrarese, all’epoca era impegnato nel processo per i depistaggi nell’inchiesta Federico Aldrovandi e nelle prime indagini sull’omicidio di Stefano Cucchi. Ora ha accettato il nuovo incarico.
Giuseppe Uva, 43 anni, per lavoro guidava la gru e posava ferri nei cantieri. Lo hanno arrestato i carabinieri di Varese mentre spostava certe transenne per bloccare una strada. Era il 14 giugno 2008, le tre di notte, e Uva era un po’ sbronzo. «Chi lo arrestò lo conosceva, lo chiamò per nome», ricostruisce Anselmo: gli disse, più o meno, “proprio tu! sei cascato male!”, cominciarono gli spintoni. Le carte in mano alla famiglia «sono scarne», dice l’avvocato ma sono inquietanti. Intanto c’è la querela di Alberto Biggioggero, portato pure lui in caserma perché aveva tentato di difendere l’amico. Da lì chiamerà il 118 atterrito dalle urla che venivano dalla stanza dell’interrogatorio. Ma, al 118, l’Arma minimizza l’accaduto e sequestra il cellulare di Alberto. «La stranezza è che poi Uva verrà dipinto come un indemoniato. Possibile che una procura non senta il dovere di approfondire?», si chiede il legale. E in ospedale Uva ci andrà e certi farmaci incompatibili con l’alcool lo avrebbero ammazzato. «Ma Uva non era seguito dai servizi di salute mentale. Era una persona normale e non un delinquente incallito. C’erano tracce di sangue tra l’ano e i testicoli, lo sanno anche i poliziotti di turno in ospedale che segnalano che la morte non poteva non essere di origine traumatica come, invece, la struttura sanitaria cercava di escludere. Perché quel carabiniere conosceva Uva? Abbiamo bisogno immediato di alcuni atti di indagine e c’è tempo fino a giugno. Dopo due anni dai fatti, altrimenti, non sarà più possibile. E’ urgente che si possano incrociare i tabulati telefonici di Uva e del carabiniere».
Quando Anselmo ha ascoltato il racconto di Lucia ha pensato che la storia fosse «troppo grossa per essere vera». Poi ha visto le foto e letto il verbale dell’unico interrogatorio nel fascicolo, quello del comandante delle volanti. «Il primo pm aveva messo bene a fuoco la questione chiedendo come fosse possibile che in una sera normale tutte le volanti di turno fossero nel cortile della caserma dei carabinieri. Però l’inchiesta è passata di mano. Altro non so». Biggioggero, che sporge una querela dettagliatissima, non è ancora stato mai sentito.
52 anni, cattolico, iscritto al Pd proveniente dalla Margherita. Anselmo era noto per essere l’avvocato dei casi di malasanità e mai, almeno da 12 anni, in difesa di medici. «Solo vittime», precisa a Liberazione . Finché, nel 2005, un ispettore della digos lo presenta agli Aldrovandi che lo presenteranno ai Rasman e ai Cucchi che lo metteranno in contatto con la famiglia Uva. «Il caso Aldrovandi – spiega – ha inciso sulle coscienze mostrando ciò che può accadere a un ragazzo normale anche fuori da contesti di piazza o di stadio. Quella di Aldro è una vicenda emblematica anche per quello che è successo subito dopo, i depistaggi. Queste vicende sono isolate ma troppo numerose, la recrudescenza di episodi è dovuta alla garanzia di impunità non scritta ma che si verifica puntualmente. Un film costante: l’autolesionismo attribuito alle vittime, il processo al loro stile di vita (tossico, ubriacone, per non dire se capita che sia pregiudicato), l’evidenza negata, i comportamenti particolarmente arroganti e aggressivi contro chi si oppone al silenzio omertoso».
Veniamo al caso Cucchi. La sensazione di Anselmo è che l’indagine sia ferma, che i pm siano in attesa delle conclusioni dei consulenti. Intanto la relazione della commissione parlamentare mette molta enfasi sulla morte per
disidratazione. «I primi a dirlo furono i nostri consulenti che però non credono che la disidratazione sia un fenomeno biologico slegato dai traumi subiti. Pazzesco che si sia cercato di far passare una frattura coccigea, recentissima, come una malformazione genetica per ridurre gli effetti del politraumatismo».
Non è troppo vicina al rene quella vertebra rotta? «Le criticità sulle funzioni renale e urinaria possono essere determinate dalle complicanze neurologiche di quella frattura della vertebra L3 in quella posizione. Il blocco renale può anche essere conseguenza dei traumi subiti. Se si dice che è solo colpa dei medici si configura un dolo eventuale, non un omicidio colposo».

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Ancora un episodio di violenza e tortura in una caserma dei carabinieri

Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù si rovescia nel suo esatto contrario.

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