Dietro l’omicidio Vassallo la pista del traffico di droga

Crolla la narrazione dell’episodio diffusa dai professionisti dell’antimafia dopo l’omicidio e che suscitò forte emozione e una imponente mobilitazione politico-mediatica. Pochi giorni dopo la morte di Vassallo venne addirittura organizzato un convegno dalle fondazioni Democratica e Generazione Italia con la partecipazione di Veltroni, Fini, Mantovano e Saviano. La morte di Vassallo era diventata un’ottima passerella per quel tipo di politica che flirta con il populismo. L’incontro venne poi rinviato a pochi giorni dall’appuntamento per un malanno che avrebbe colpito Saviano, ospite di punta dell’iniziativa. Una provvidenziale polmonite in pieno settembre. Convegno, a quanto se ne sa, mai più riconvocato.
La Direzione distrettuale antimafia ha emesso cinque ordini di custodia cautelare: tre le persone arreste e due quelle latitanti. L’omicidio sarebbe il frutto di un contesto “anomalo”, frutto di una strana commistione di ambienti legali e illegali che navigano tra lo spaccio locale di droga e mire affaristiche sul litorale del Cilento

Paolo Persichetti
Liberazione 13 ottobre 2011

Il porticciolo di Pollica

«Due pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan». Era passate solo 48 ore ma per Roberto Saviano, che scrisse queste parole su Repubblica, la morte di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica-Acciaroli in provincia di Salerno, avvenuta nella tarda serata del 5 settembre di un anno fa, non era affatto un mistero. Per l’autore di Gomorra si trattava dell’ennesimo crimine camorristico. Il primo cittadino del paesino del Cilento, eletto in una lista civica dopo aver rotto col Pd, sarebbe morto perché lasciato solo a combattere lo strapotere di una camorra in procinto di allargare i suoi voraci interessi affaristici e criminali su nuovi territori ancora incontaminati e strenuamente difesi dal «sindaco-pescatore».
Nel suo lungo articolo Saviano snocciolava nomi di capi clan, si dilungava in organigrammi, disegnava piramidi criminali, raccontava dei sicuri appetiti sul porticciolo turistico di Acciaroli che avrebbero fatto gola ai casalesi, i suoi nemici di sempre, additandoli come i sicuri mandanti dell’assassinio. «Uno scandalo della democrazia», concludeva lo scrittore con la scorta pronto a lanciare la sua nuova crociata.
Oggi sappiamo che la camorra non c’entra. La verità è un’altra, meno banale, meno manichea, carica di sorprese e piena di sfumature, dove i cattivi non stanno nel posto che ti aspetti. La pista che porterebbe agli assassini di Vassallo sarebbe invece legata ad un traffico locale di stupefacenti. Niente a che vedere, dunque, con la narrazione dell’episodio diffusa dopo l’omicidio e che suscitò una forte emozione e una imponente mobilitazione politico-mediatica. Il 25 settembre successivo venne addirittura organizzato un convegno, proprio a Pollica, dalle fondazioni Democratica e Generazione Italia con Veltroni, Fini, Mantovano e Saviano. La morte di Vassallo era diventata un’ottima passerella per quel tipo di politica che flirta con il populismo. L’incontro venne poi rinviato a pochi giorni dall’appuntamento per un malanno che avrebbe colpito Saviano, ospite di punta dell’iniziativa. Una provvidenziale polmonite in pieno settembre. Convegno, a quanto se ne sa, mai più riconvocato.
In effetti che non fosse un delitto classico di camorra, lo si poteva sospettare subito. A mettere in dubbio questa versione era la dinamica dell’agguato, lontana dalle modalità operative dei gruppi di fuoco camorristi. E poi i primi risultati dell’autopsia smentirono che a sparare fossero state più pistole. L’esame autoptico disegnò un’altro scenario: a fare fuoco era stata una sola arma, nove colpi, tutti andati a segno con particolare ferocia. Prova di un accanimento, quasi di un fatto personale. Non solo, ma i colpi erano stati esplosi a pochissima distanza, non più di 50 centimetri. Vassallo aveva abbassato il finestrino della sua automobile dopo aver tirato il freno a mano. Circostanza che lascia supporre la mancata percezione del rischio da parte sua, forse perché conosceva il suo assassino oppure perché credette che la persona che gli si parò davanti, lungo la strada buia, stesse chiedendo soltanto soccorso.
La svolta nell’inchiesta è arrivata nei giorni scorsi quando la Dda di Salerno, titolare delle indagini, ha emesso cinque ordinanze di custodia cautelare per reati legati al traffico di stupefacenti. Martedì i carabinieri hanno eseguito tre arresti nei confronti di Lorenzo Conforti di San Giorgio a Cremano, Gerardo Radano di Montecorice e Bernardo La Greca di Acciaroli. Alla cattura sono sfuggiti invece il Brasiliano Bruno Humberto Damiani e Gabriele Pisani, titolare di un negozio di oggetti etnici sul corso principale di Acciaroli. Entrambi sarebbero riparati, secondo indiscrezioni, in Brasile. La pista del traffico di stupefacenti era stata subito evocata dal fratello del sindaco, Claudio, che aveva raccontato di problemi con la droga accaduti ad Acciaroli nel corso dell’estate, per poi aggiungere sibillino: «Mio fratello, prima di essere ammazzato, mi aveva detto che personaggi delle forze dell’ordine erano in combutta con personaggi poco raccomandabili».
Una frase che solo oggi, dopo gli ultimi sviluppi, acquista un significato più chiaro. Originario di Acciaroli è infatti anche il generale dei carabinieri, oggi in pensione, Domenico Pisani. Già capo di stato maggiore e fondatore dei Ros, ritenuto personaggio influente nel Cilento, entrato anch’egli in contrasto con Vassallo per l’opposizione del sindaco nei confronti di un suo progetto edilizio sul lido di Pollica, messo in piedi con una famiglia, gli Esposito, molto chiacchierata nella zona.
L’ex generale è citato anche in una relazione redatta da un alto ufficiale dei carabinieri immediatamente dopo il delitto: «Ad Acciaroli – scriveva l’ufficiale – vi è anche un nipote del generale Pisani, tale Pisani Gabriele, titolare del negozio Algo Mais che è dedito allo spaccio di stupefacenti da oltre dieci anni». Gabriele Pisani risulta anche molto legato a sua cugina, Sonia Pisani, figlia dell’ex generale e convivente con un personaggio ritenuto esponente di un clan catanese radicato nel basso Lazio. La donna è finita nei guai lo scorso giugno per il possesso di un’arma utilizzata nell’esecuzione di due pregiudicati, avvenuta a Cecchina, nella zona sud di Roma, per un dissidio tra gruppi rivali legato alla consegna di una partita di droga.
L’attività di spaccio, cocaina e haschish, sostenuta addirittura con iniziative promozionali come la «degustazione gratuita» per fidelizzare i clienti, che il nipote del generale dei carabnieri in pensione gestiva – secondo le accuse – ad Acciaroli dava molto fastidio ad Angelo Vassallo, noto anche per la sua interpretazione poco “ortodossa” del mandato elettivo: una vocazione decisionista e interventista che gli aveva fatto guadagnare l’appellativo di «sindaco sceriffo», di «padre-padrone», come avvenne per il Tso adottato, senza nemmeno titolo perché fuori competenza territoriale, nei confronti del maestro di scuola Francesco Mastrogiovanni, morto legato sul letto di contenzione dopo un’agonia atroce.
Sembra accertato che Vassallo poche sere prima della sua morte affrontò alcuni pusher con i vigili del comune in un locale di Acciaroli.
Gli inquirenti per il momento restano prudenti: a nessuno dei destinatari dei provvedimenti restrittivi è stato contestato il concorso nell’uccisione di Vassallo, ma è evidente che le indagini cercano gli assassini del sindaco all’interno di questo contesto “anomalo”, frutto di una strana commistione di ambienti legali e illegali.

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Morte di Giuseppe Uva, una telefonata accusa i carabinieri

I due militari: “Lo puoi tenere bene, è debole”

http://www.youtube.com/watch?v=KB-RtWXV3Pg


Una registrazione smentisce nettamente la versione dei carabinieri su quanto accaduto nella caserma di Varese la notte fra il 13 e il 14 giugno 2008, quando iniziò il calvario di Giuseppe Uva che poi lo portò alla morte. I militari hanno sempre parlato di “atti di autolesionismo” del quarantenne che, portato in caserma, avrebbe iniziato a “buttarsi dalla sedia, divincolarsi, resistere, dare calci contro armadio e scrivania, procurandosi lesioni lievi ed escoriazioni agli arti inferiori”, che la sorella avrebbe poi fotografato la mattina dopo sul corpo senza vita di Giuseppe. In realtà, leggendo le registrazioni, la realtà sembrerebbe un’altra: i due carabinieri parlano di Giuseppe come di “un ragazzo debole, che si può tenere”, a differenza dell’altro fermato, l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, che dalla caserma aveva chiamato il 118.
 Nella telefonata, Bigioggero dice di vedere “il via vai di carabinieri e poliziotti, di sentire le urla di Giuseppe che echeggiano per la caserma e i colpi dal rumore sordo” e dice all’operatore che “stanno massacrando un ragazzo”. A quel punto il 118 chiama in caserma per sapere se serve un’ambulanza, ma i militari rispondono che non serve perche “sono due ubriachi e ora gli togliamo i cellulari”. Bigioggero racconterà di aver sentito le urla di Uva per un’altra ora e mezzo dopo la telefonata.

Ecco il testo della telefonata. Sono le 7 e 54 minuti. Giuseppe è in ospedale. Per un minuto e mezzo, i militari del Radiomobile ridono, si scambiano battute, poi parlano di due ragazzi fermati.


Carabiniere 1
: “Paolo era impegnato con Uva Giuseppe, stanotte”.

Carabiniere 2: “Si, si..”.

Carabiniere 1: “E poi io gli ho portato qua anche il F. B. Gliel’ho detto a Mario, non so chi è tra i due.. chi è il migliore. Non lo so, Uva..”.

Carabiniere 2: “No, no.. Uva fisicamente lo puoi tenere, tanto è debole”.

Carabiniere 1: “Ah..”

Carabiniere 2: “Il B. era intenibile”.

A quell’ora Uva era arrivato all’ospedale, ma solo da poco (circa alle 6 di mattina). Qui prende i farmaci che alle 11.10 lo portano alla morte – secondo la procura, che ha indagato per omicidio colposo due medici – perché incompatibili con l’alcol in corpo. 
«La telefonata tra i militari – dice l’avvocato degli Uva Fabio Anselmo – mina alla base la versione data dalle forze dell’ordine, che sostengono che Uva si sia procurato le ferite da solo». Anche lo stato fisico di Uva è uno dei tanti enigmi: il tasso alcolico di 1,6 registrato dall’autopsia è compatibile con l’autolesionismo o provoca – come dice la letteratura medica – “sonnolenza molto intensa?”. Per questo, da tempo, la difesa chiede una nuova autopsia: la mancanza di esami radiologici ha impedito di individuare fratture. Una verifica che oggi può essere fatta solo con la riesumazione del corpo.

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Perché Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto?

Nuovi sconcertanti particolari emergono sul decesso del ragazzo di Varese fermato dai carabinieri

Liberazione 28 marzo 2010
Luca Bresci

Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto. Dopo la presunta storia della relazione sentimentale con la moglie di uno dei militari che lo avevano fermato, insieme con un suo amico, la sera del 13 giugno nelle strade di Varese, vengono a galla nuovi sconcertanti particolari sulla vicenda del suo decesso. Il 15 giugno proprio l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, consegna una denuncia per lesioni, ingiurie e minacce alla procura della repubblica. Nell’esposto si descrive uno scenario da incubo: l’atteggiamento aggressivo dei militi, in particolare di uno di loro che subito apostrofa Uva gridandogli: «cercavo proprio te»; e poi «un’ora e mezzo di pestaggio» nella caserma di via Saffi, la chiamata al 118, l’intervento dell’ambulanza bloccato dal personale della caserma, il sequestro del telefonino. Quello stesso 15 giugno sia Uva che Biggiogero furono a loro volta denunciati per «disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone», come riporta il processo verbale redatto dai due militari dell’Arma che avevano bloccato i due amici in piazza Madonnina del Prato. Sarà interessante conoscere l’ora esatta in cui furono depositate le due denuncie, per sapere quale venne presentata prima, e se quella dei carabinieri fu solo una risposta all’esposto di Bigioggero per tentare di giustificare il fermo a posteriori. Tuttavia qualunque sia la risposta a questa domanda, nulla ormai potrà cambiare il fatto che a quella data Uva era già cadavere da almeno ventiquattro ore.
Perché i carabinieri hanno aspettato tanto? L’anomalia, se così vogliamo chiamarla, portata alla luce da alcuni quotidiani locali, è davvero gigantesca e si aggiunge alle tante ombre e domande, ancora senza risposta, che circondano l’intera vicenda. L’artigiano di 43 anni venne fatto ricoverare in un reparto psichiatrico dai carabinieri che chiesero per lui un Tso presso l’ospedale di Circolo. Uno stratagemma per farlo sembrare pazzo e depotenziare preventivamente una sua eventuale denuncia per il trattamento subìto. Chi avrebbe dato retta ad uno “squilibrato” certificato con un trattamento sanitario obbligatorio? Ad Uva venne somministrata una terapia sedativa incompatibile con l’alcool assunto nella serata precedente. Poche ore dopo, alle 10.30 del 14 giugno, spirò per insufficienza respiratoria ed edema polmonare. Ovviamente la versione ufficiale del decesso, stilata dopo una sommaria autopsia che stranamente non contemplò esami radiologici per verificare l’esistenza di eventuali fratture ossee, nonostante l’evidente presenza sul corpo di ematomi, traumi e tracce di sangue, non ha mai persuaso i familiari. L’inquietante dinamica dei fatti, la procedura illegale del fermo, le tracce di percosse sul corpo, sollevano troppi dubbi. Di punti oscuri la vicenda ne ha fin troppi: come le dichiarazioni, ignorate, del comandante del posto di polizia presso l’ospedale che nel suo rapporto escludeva la natura «non traumatica» della morte e rilevava «una vistosa ecchimosi rosso-bluastra» sul naso, e che «le ecchimosi proseguono su tutta la parete dorsale». Il poliziotto registrava anche l’assenza di slip e la presenza sui pantaloni, «tra il cavallo e la zona anale di una macchia di liquido rossastro», mentre la sorella ricorda di aver visto «tracce di sangue dall’ano». A proposito degli slip, in un’informativa inviata quindici giorni dopo la morte, i carabinieri sostengono di non essere in grado di dire se l’uomo indossasse o meno gli slip, perché «al momento dell’intervento dei militari non venne perquisito». Affermazione che secondo l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, è in palese contrasto con le relazioni presentate dall’Arma dopo i fatti. In quei rapporti, sostiene sempre il legale, «i militari mostravano di sapere di ferite sulle gambe di Giuseppe, che però aveva i jeans». I suoi slip non sono mai stati rinvenuti, al loro posto la sorella, giunta all’obitorio, ha trovato un pannolone. Circostanza che solleva inquietanti sospetti, ad oggi ancora mai fugati, sulla possibilità che siano stati fatti sparire perché intrisi di sangue, e possibile prova di sevizie praticate nella parte posteriore del corpo. Le domande senza risposta non finiscono certo qui. A detta sempre di Lucia Uva, il carabiniere più giovane, presente al momento dell’arresto, sarebbe stato trasferito quindici giorni dopo la morte di suo fratello. Nessuno dei carabinieri coinvolti nella vicenda o degli agenti della polizia di Stato, stranamente accorsi in forze nel Comando dei carabinieri la sera del pestaggio, è mai stato ascoltato fino ad oggi dai magistrati che indagano.
E’ di ieri la notizia che due cronisti della stampa locale, uno della Prealpina e l’altro della Provincia di Varese, sono stati sentiti in procura per «sommarie informazioni testimoniali». La convocazione, secondo un’interpretazione apparsa su alcuni quotidiani, sarebbe dovuta a degli articoli poco apprezzati in procura. Intanto l’eco mediatica raggiunta dalla vicenda ha sbloccato l’iter giudiziario: il gip ha fissato per il 9 giugno prossimo l’udienza preliminare nei confronti dei due medici che hanno accettato il Tso e somministrato i farmaci, accusati di omicidio colposo, sempre che la riapertura delle indagini sulla verifica del movente della gelosia e la nuova autopsia richiesta dalla famiglia non dimostri che Uva subì traumi tali da indebolire il suo fisico di 69 chili, al punto da non sopportare il Tso. In questo caso sarebbero i carabinieri a dover rispondere di omicidio preterintenzionale.

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Delitti d’onore: ucciso perché «aveva frequentato la moglie di un carabiniere»

Luca Bresci
Liberazione 23 marzo 2010

Emergono nuove circostanze che gettano una luce ancora più inquietante sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo di 43 anni morto il 14 giugno del 2008 nell’ospedale di Varese dopo un pestaggio subito nella caserma dei carabinieri. Sembra che tra lui e uno dei militi che lo avevano fermato la notte precedente ci fossero degli screzi personali legati a una donna. Alberto Biggiogero condotto in caserma insieme ad Uva, e che racconta di aver sentito le grida atroci dell’amico provenire dalla stanza dove era stato rinchiuso, tanto da chiamare il centralino del 118 per chiedere un intervento (circostanza che ha trovato piena conferma dalla registrazione della telefonata e dai successivi contatti del 118 con la caserma), ha sostenuto in un’intervista che Uva «aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere e questi, in seguito, aveva promesso di fargliela pagare». Biggiogero non sa chi fosse la donna, ma la sera del fermo per schiamazzi notturni accadde qualcosa di molto simile a quanto paventato dall’amico. Nella dettagliata denuncia presentata alla procura di Varese, Biggiogero descrive la scena: «Un carabiniere si avvicina a noi con uno sguardo stravolto urlando “Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del brutale pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia avrebbe potuto essere quello del forte risentimento personale nutrito da un esponente dell’Arma e che avrebbe coinvolto altri suoi colleghi. La presenza in passato di uno screzio con i carabinieri, sempre per questioni di donne (Uva era incensurato), viene confermato anche dalla sorella dell’uomo, Lucia. D’altronde la descrizione del suo corpo martoriato, in particolare le tracce di sangue sul retro dei pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e alla zona anale, lasciano supporre il ricorso a sevizie di natura sessuale compatibili col movente indicato. L’avvocato Anselmo, legale della famiglia, è più prudente e preferisce procedere con metodo: «Basterebbe poter consultare il traffico delle chiamate in uscita e in entrata sull’utenza del cellulare di Uva per accertare la verità». Per questo nei prossimi giorni depositerà una memoria avanzando diverse richieste per la riapertura delle indagini, tra cui la riesumazione della salma affinché venga realizzata una nuova autopsia finalizzata a nuovi accertamenti medico-legali sulla natura delle ecchimosi e dei lividi raffigurati nelle foto e la presenza di eventuali fratture e altri traumi. Nel frattempo il procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, ha rivendicato «il corretto operato dei colleghi titolari del procedimento». In un comunicato ha reso noto che «il 30 settembre 2009 la dottoressa Sara Arduini ha aperto un nuovo procedimento proprio per verificare le nuove accuse della famiglia e le dichiarazioni rese da Alberto Biggiogero ed accertare ulteriori ipotesi di determinismo sull’accadimento». Non vi sarebbero per il momento persone iscritte nel fascicolo degli indagati, ma a detta del procuratore «sono state espletate ulteriori attività istruttorie e altre ne verranno svolte, nel caso con la possibile partecipazione dei difensori». Per quanto riguarda, invece, il procedimento per omicidio colposo nei confronti dei due medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese che diedero assistenza a Uva durante il ricovero, il procuratore ha sottolineato che «si è in attesa della fissazione della prima udienza preliminare».
A ventuno mesi dalla morte di Giuseppe Uva cominciano a trovare conferma molti elementi che smentiscono la versione ufficiale fornita dalle autorità. Tuttavia numerose domande attendono ancora risposta, tra queste il numero dei militi dell’Arma e degli agenti della polizia di Stato presenti nella caserma la notte tra il 13 e 14 giugno e perché mai questi testi non siano mai stati ascoltati. Il velo di omertà, la catena di complicità e il muro dell’impunità di Stato cadranno?

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Caso Stefano Cucchi: «Il potere sui corpi è qualcosa di osceno»

Colloquio con Gianrico Carofiglio senatore Pd, magistrato e scrittore, autore de Il paradosso del poliziotto, edizioni nottetempo 2009: «Senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza»

Paolo Persichetti
Liberazione 1 novembre 2009

9788874521791 «Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci sono delle regole, non necessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per Sellerio ha pubblicato I casi dell’avvocato Guerrieri, Testimone inconsapevole e L’Arte del dubbio, che potremmo definire un vero manuale sulla tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano in faccia e nelle orecchie».

A Stefano Cucchi è accaduta una cosa del genere?
Questo lo dovranno appurare i titolari dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.

Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza di un fermo, possono agire d’impeto prima dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere informalmente interrogato per acquisire notizie utili all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.

Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette, gli offre una sigaretta e quello parla?
Nell’ultimo capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle altre persone è qualcosa di osceno, perché è l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche di quella più facile da violare.

Il corpo di Stefano Cucchi non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per traumi subiti nella fase dell’arresto.
Io non parlerei di una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze, c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza, entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase operativa, quando intervengono modalità movimentate di un arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si tratta di una dimensione difficilmente governabile che si colloca nella fase successiva all’arresto, all’apprensione fisica del soggetto interessato all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione – oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati – sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare con le persone – indagati e testimoni – è in realtà molto più efficace e positiva nelle prospettiva di un’indagine dagli esiti attendibili.

Ci sono analisi sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini, Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in questo modo?
Non si può generalizzare l’atteggiamento di un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore confondere l’uso della violenza che a volte si verifica all’interno dell’attività investigativa con le modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può sempre osservare che in una situazione di barbarie collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si incrementi.

Può anticipare il contenuto dell’interpellanza parlamentare che depositerà la prossima settimana?
Tra le altre cose, ho chiesto chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato. Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà essere spiegata. 

Di anomalie in questa storia ce ne sono tante. Sembra che Chucchi in caserma avesse indicato un proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato assistito, per così dire, da un legale d’ufficio.
Se la cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e la sua funzione di controllo.

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