L’omaggio a Salvatore Ricciardi e l’occupazione poliziesca di san Lorenzo

Il saluto che compagni e amici romani hanno voluto donare ieri a Salvatore Ricciardi è terminato con 16 automezzi della polizia e dei carabinieri, tra cui 7 blindati, intervenuti per bloccare le vie di san Lorenzo, elicotteri che volteggiavano su via dei Volsci, una trentina di persone identificate e il quartiere alle finestre. Una signora con le buste della spesa in mano indignata per l’occupazione poliziesca se n’è andata esclamando: «manco le Brigate rosse». Salvatore Ricciardi si è fatto riconoscere. Immediatamente le cronache online di alcuni giornali e siti di informazione (?), ripresi stamani anche da quotidiani come Repubblica, Giornale e Messaggero, hanno diffuso una versione  dei fatti che definire fantasiosa è ancora poco, parlando di un corteo che per alcuni sarebbe partito dalla camera ardente del policlinico Umberto I, dove il corpo di Salvo è stato esposto per l’ultimo saluto di familiari ed amici, per poi dirigersi verso le strade di san Lorenzo fin sotto la sede di Radio Onda Rossa. Qui addirittura ci sarebbe stato un uso degli idranti per disperdere la folla in corteo… Nulla di tutto questo è avvenuto. Non sappiamo come si sia diffusa questa narrazione falsa della mattinata, forse si è trattato di un tentativo di giustificare ex-post l’imponente dispositivo di polizia mobilitato senza motivo sulla scia della circolare del ministero dell’Interno che ha lanciato allarmi contro possibili tensioni sociali e mobilitazioni delle «aree estremiste». Nel corso delle settimane, con un crescendo assai preoccupante, le forze dell’ordine hanno accentuato il loro margine di autonomia interpretativa delle misure restrittive previste nei decreti anticovid, accrescendo l’approccio repressivo rispetto all’iniziale atteggiamento dissuasivo, alimentando paure fantasmatiche per giustificare l’accrescimento del loro ruolo. L’azzeramento degli spazi sociali, la desertificazione urbana, la reclusione abitativa, l’annullamento della dialettica politica e sociale, hanno creato un vuoto che inevitabilmente viene occupato da altre forze. Bisognerà, appena le condizioni sanitarie lo permetteranno, tornare a riprendere le piazze, animare le strade e i marciapiedi, rioccupare la città, ridare vita ad una intensa dialettica sociale e politica.
In ogni caso, come mostrano le immagini diffuse, il saluto a Salvo si è tenuto in forma stanziale sotto la sede di Radio Onda Rossa, dove amici e compagni hanno atteso l’arrivo del feretro, rispettando i criteri sanitari richiesti in questi tempi di Covid: le persone avevano mascherine, molti i guanti, ed erano disposte a distanza di sicurezza tra loro con una densità di certo inferiore alle file che si sono viste in questi ultimi giorni davanti ai supermercati, assaltati per gli acquisti di Pasqua. Il saluto, emotivamente intenso, si è protratto per un quarto d’ora scarso e poi il feretro si è avviato girando per via degli Equi (nella foto qui sotto si intravede sulla sinistra). Un gruppo si è poi diretto verso le mura Aureliane (visibili sul fondo della foto) per realizzare la scritta “Ciao Salvo” (che potete vedere più in basso). Ed è a questo punto, quando la scritta era quasi terminata, che sono arrivati i mezzi di polizia a sirene spiegate bloccando tutte le vie di uscita, mentre personale di polizia e carabinieri in assetto antisommossa sono scesi accerchiando i presenti che assistevano alla trascrizione, così producendo il primo assembramento della giornata (Foto in basso). Anziché lasciare aperto un corridoio per permettere  alle persone di defluire e consentire loro di mantenere la distanza, le hanno strette pretendendo di identificarle, situazione che ha sucitato accese discussioni. Alla fine tutto si è concluso con l’identificazione di chi era rimasto nella rete mentre il quartiere è stato occupato per diverse ore dalle forze di polizia senza alcun motivo.
Siamo sicuri che Salvo si sarà divertito molto!

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“Salvo è vivo, i morti siete voi!”. Un commento a proposito del dispiegamento di polizia dopo il saluto a Salvatore Ricciardi

di Lai Yiu-fai

92817505_2637853416324757_1894055997438164992_oL’ottusità del potere è assai spesso fonte di tragedie. La frase “sarà una risata che vi seppellirà” del celebre manifesto con la foto di un ridente anarcosindacalista tratto in arresto è ahinoi una illusoria consolazione a fronte delle tante lacrime versate e dei patimenti subiti a seguito delle angherie repressive. Ci sono però occasioni in cui la stoltezza di chi ci governa si traduce in effetti ridicoli che riescono a strappare un sorriso. Non è molto, non li seppellirà, ma quantomeno può aiutarci ad affrontare momenti difficili e dolorosi. Così è stato per lo schieramento di forze di polizia che nella mattinata dell’11 aprile 2020 ha provato a impedire l’ultimo saluto a Salvatore Ricciardi nelle strade del quartiere di san Lorenzo a Roma: agenti in tenuta anti-sommossa, volanti, blindati e, come se non bastasse, elicotteri volteggianti in cielo. Qualcuno dei partecipanti alla adunata “sediziosa” è stato identificato – e questo non fa affatto ridere – ma l’ingente spiegamento di forze dell’ordine ha avuto nel suo complesso l’effetto opposto di quello ricercato dai suoi ideatori. Così facendo hanno mostrato quanto l’idea di libertà e insubordinazione al potere che Salvatore Ricciardi ha incarnato e promosso in vita continui a far paura anche da morto. Non c’era miglior omaggio che si potesse fargli, al punto da concedere spazio alla retorica con cui concludere: “Salvo è vivo, i morti siete voi!”

 

Sal

Il feretro parte. Il fotografo Tano D’Amico al lavoroTANO CIAO

Un piccolo gruppo assiste alla realizzazione della scritta «Ciao Salvo». Sullo sfondo di Porta Labicana un blindato manovra per chiudere la via
MURA AURELIANE

Plotoni di polizotti e carabinieri in assetto antisommossa si avvicinano da via dei Volsci
CARAMBA

Un altro mezzo blocca via Porta Labicana sull’altro lato
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Un elicottero delle Forze di polizia sorvola la zona
ELICOTTERO

Poliziotti in borghese vengono avanti
Digos

La scritta è finitaCiao Salvo

Il quartiere viene occupato dalla polizia
OCCUPAZIONE

Gli apparati e l’arma politica dello stupro negli anni 70

Si avvicina il 16 marzo. Fabbricato ormai dai poteri pubblici e amplificato dai media ha preso forma un ricordo spettrale di quel periodo cadenzato da solenni rituali commemorativi, giornate della memoria e cerimonie istituzionali. Marc Bloch invitava a capovolgere l’idea di un presente in lotta perenne per divincolarsi dalle eredità dei tempi andati. È il passato ad essere il più delle volte ostaggio di ciò che viene dopo. Se c’è oggi un’epoca prigioniera del presente, questa riguarda in particolare gli anni 70. Per contrastare questa memoria in bianco e nero che evoca immagini sbiadite di violenza politica e cancella i colori vivi della storia, proveremo a proporvi un modo diverso di guardare a quei fatti e quegli anni attraverso una serie di articoli editi e inediti /Seconda puntata

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo
nelle aule di giustizia e non negli stadi»
Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, 1982

 

Avanti 9marzo 1976La sera del 22 febbraio 1976 Angela Rossi, sorella di Mario Rossi, da poco condannato all’ergastolo per la sua appartenenza al gruppo “XXII ottobre”, la prima formazione formazione armata di sinistra che fu attiva a Genova tra il 1969 e il 1971, al suo rientro dal colloquio in carcere con il fratello, rinchiuso in isolamento nella prigione di Alghero, venne rapita per alcune ore, seviziata e violentata da quattro uomini all’interno di un furgone. Angela Rossi dopo un momento di esitazione con grande coraggio denunciò il fatto in questura e l’8 marzo successivo tenne una conferenza stampa. Le indagini non ebbero sviluppi. Con le stesse identiche modalità tre anni prima, il 9 marzo del 1973, era stata stuprata a Milano Franca Rame. Prelevata con la forza in via Nirone venne rinchiusa in un furgone, seviziata e violentata a turno per ore da cinque uomini. L’episodio venne inserito dall’attrice in un suo spettacolo, Tutta casa, letto e chiesa.
Nella seconda metà degli anni 80, il giudice Salvini raccolse la testimonianza di un militante di estrema destra, Biagio Pitaresi. A stuprare l’attrice, all’epoca impegnata nel “Soccorso rosso”, una struttura militante che forniva sostegno ai detenuti politici di sinistra, sarebbero stati – scriveva il magistrato – «Angelo Angeli e, con lui, “un certo Muller” e “un certo Patrizio”. Neofascisti coinvolti in traffici d’armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s’incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ha detto Pitarresi: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell’Arma”». A supportare la testimonianza dei due pentiti, un appunto dell’ex dirigente dei Servizi Gianadelio Maletti che raccontava di un violento alterco tra il generale Giovanni Battista Palumbo e Vito Miceli, futuro capo del servizio segreto: «Il primo, si leggeva nella nota di Maletti, durante la lite aveva rinfacciato al secondo “l’azione contro Franca Rame”».

Qui sotto un riepilogo della conferenza stampa tenuta da Angela Rossi l’8 marzo 1976, trovato tra le carte della Direzione Affari riservati, archivio Russomanno (b. 399)

Genova 8 marzo 1976 – Angela Rossi, la sorella trentottenne di Mario Rossi, il capo della banda “XXII ottobre” è stata sequestrata e violentata per tre ore in un furgoncino. Quattro sconosciuti l’hanno aggredita e chiusa nell’automezzo e l’hanno poi picchiata e ferita, colpendola forse con un chiodo su tutto il corpo. Alla fine la donna, sanguinante, è stata scaricata davanti alla stazione di Brignole, dove è stata soccorsa.
Il fatto è successo la sera di domenica 22 febbraio, ma è stato denunciato soltanto sabato scorso e lo si è appreso oggi.
«Ho avuto paura a parlare e raccontare tutto subito perché mi hanno minacciata», ha detto oggi Angela Rossi, durante una conferenza stampa.
Sabato mattina la donna è andata in questura a raccontare al dirigente dell’Ufficio politico Giovanni Finazzo quello che era successo. Domenica 22 febbraio era andata ad Alghero per far visita al fratello, rinchiuso in isolamento nel carcere della città sarda.
Mario Rossi, come noto, è stato condannato all’ergastolo per avere ucciso durante una rapina il fattorino Alessandro Floris e per aver guidato la “XXII” ottobre, negli anni intorno al 1970. Partita alle sette del mattino in aereo, la donna è giunta davanti al penitenziario di Alghero poco prima delle nove: «Nonostante il permesso della procura di Genova mi hanno fatto delle difficoltà per entrare – ha precisato – poi alla fine ho avuto un colloquio con Mario di tre ore».
Alle 15 è tornata all’aeroporto di Fertilia e ha atteso l’aereo che alle ventidue l’ha riportata a Genova. «Nessuno credo – ha precisato oggi – mi stava seguendo».
Atterrata nel capoluogo ligure, Angela Rossi si è recata con un pullman alla stazione di Principe, nel centro città. Ha cercato un taxi per andare a casa, ma non l’ha trovato. Si è, quindi, avviata a piedi verso la fermata degli autobus. Ha aspettato qualche minuto – mancava poco alle 23,30 – ma nessun mezzo pubblico è arrivato. A quel punto ha deciso di tornare alla stazione. Sulla strada era posteggiato un furgoncino, intorno al quale due persone stavano lavorando: «Sembrava – ha detto Angela Rossi – che stessero scaricando dei pacchi». «Giunta vicino al furgone – ha poi raccontato la donna – uno sconosciuto si è avvicinato e mi ha chiesto l’ora». Sollevata di peso la donna è stata gettata all’interno nel furgoncino. «C’erano in tutto quattro uomini – ha precisato – e uno era alla guida».
Gli altri – secondo la denuncia fatta in questura – le sono saltati addosso, l’hanno spogliata, e a turno l’hanno picchiata e ferita più volte, forse con un chiodo appuntito. Alla fine – secondo quanto ha potuto accertare il dottor Luigi Fenga, il medico che la sta curando – l’hanno violentata ripetutamente. Dei suoi aggressori Angela Rossi ricorda alcuni particolari: «Tre di loro potrei sicuramente riconoscerli». Una sola frase è stata da loro più volte ripetuta: «Così impari ad andare ad applaudire ai dibattiti al teatro “AMGA”». Angela Rossi è stata al teatro AMGA (Azienda municipalizzata gas e acqua) nella metà del mese scorso. Ha partecipato a un dibattito, organizzato da alcuni gruppi di estrema sinistra, per chiedere la libertà di Vincenza Siccardi ed Emilio Quadrelli, due giovani arrestati alla fine di gennaio.
Dopo le tre ore di tortura – erano circa le due e trenta di lunedì – Angela Rossi rivestita alla meglio, è stata gettata sull’asfalto davanti ala stazione Brignole. Tre giovani dopo qualche minuto l’hanno soccorsa e l’hanno fatta salire su un taxi che l’ha portata a casa dove più tardi il medico l’ha visitata.
«Solo sabato scorso – ha concluso – mi sono fatta coraggio e sono andata a raccontare tutto alla polizia».
Il dottor Finazzo, raccolta la denuncia, ha fatto rapporto alla magistratura e ha cominciato l’indagine.
«Tentiamo – ha dichiarato – il dirigente dell’Ufficio politico – di ricostruire in tutti i particolari gli spostamenti compiuti da Angela Rossi domenica 22 febbraio: cercheremo anche di rintracciare i ragazzi che l’hanno soccorsa, per chieder loro se hanno notato qualche particolare importante».

Le puntate precedenti
Il “patto di omertà”? Un falso come il protocollo dei saggi di Sion

Per saperne di più
Diario del sequestro Moro

“Nei secoli fedele”, il docu-film sulla morte di Giuseppe Uva

Nel film “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” (di Adriano Chiarelli, regia di Francesco Menghini. Produzione Soulcrime), si racconta la morte violenta di Giuseppe Uva, un quarantaduenne di Varese deceduto in seguito a un brutale arresto. Dopo aver trascorso tre ore in una caserma dell’Arma, in balia di otto tra poliziotti e carabinieri, Giuseppe Uva viene trasportato in ospedale in condizioni critiche.
Nel volgere della notte l’uomo troverà la morte, le cui cause tuttavia restano tutte da chiarire. L’unico processo celebrato finora ha riguardato l’ipotesi di decesso per colpe mediche, ma è stato dimostrato – con sentenza di primo grado – che i medici che hanno tenuto in cura Uva dopo l’arresto non hanno alcuna colpa.
Dopo un supplemento di perizia, sempre disposto dal giudice, è stato scientificamente provato che le cause del decesso coincidono con un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni. Chi lo ha ridotto così?
Allo stato attuale nessun nuovo processo è in corso, ma il giudice estensore della sentenza ha disposto ulteriori indagini sull’arco di tempo che la vittima ha trascorso in caserma e sulle reali cause di morte.
In quelle ore è racchiusa la verità.

Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù che si rovescia nel suo esatto contrario.

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I jeans di Giuseppe Uva zuppi di sangue mischiato a dna non suo

Le prime indiscrezioni sugli esami compiuti dai periti dopo la riesumazione del corpo rafforzano i sospetti di violenze commesse contro Uva quando era trattenuto nella caserma dei carabinieri

Checchino Antonini
Liberazione 28  dicembre 2011

I jeans erano zuppi di sangue. E’ ancora Lucia, la sorella di Pino Uva, a fornire le prime indiscrezioni sulle analisi genetiche che il tribunale ha ordinato sui vestiti che aveva indosso Giuseppe la notte del giugno di tre anni fa in cui fu scovato da un paio di carabinieri mentre spostava delle transenne in una strada di Varese. Ne seguì un sanguinoso e misterioso “controllo” di polizia, di quelli che non lasciano scampo. E un transito in ospedale dove, il giorno appresso, sarebbe morto. La versione ufficiale parlò, e parla tuttora, di intossicazine da farmaci. Lucia Uva non c’ha mai creduto. Il 14 giugno del 2008 toccò a lei, in obitorio, scoprire il naso ammaccato di suo fratello e la costola sollevata e il pannolone che lo imbracava. Toccò a lei porsi i primi terrificanti dubbi incredula sulle spiegazioni di autolesionismo o di troppo di vigore nella rianimazione. «Me lo sono toccato tutto, avevo la macchinetta fotografica perché ero partita per le vacanze e ho ripreso tutto: i bernoccoli sulla nuca, un ginocchio fuori posto, il collo del piede gonfio. Gli slip erano spariti», dirà a Liberazione.
Ora ha rivelato ai giornalisti una sintesi di quanto appurato dal perito Adriano Tagliabracci dopo la riesumazione della salma, avvenuta dopo un’aspra battaglia che, nel luglio scorso, ha avuto l’esito della disposizione di una superperizia. Ad assistere Lucia e i suoi c’è Fabio Anselmo, lo stesso legale dei casi Aldrovandi, Cucchi e Ferrulli. Dunque, nei pantaloni dell’uomo c’era molto sangue, e apparteneva a Giuseppe. Vi sarebbero poi delle cellule pavimentose, materiale genetico della zona anale o dalle basse vie urinarie. E c’è anche materiale biologico che il perito avrebbe attributo ad altri soggetti, e che è in alcuni casi frammisto al sangue di Pino Uva.
Per Lucia è la prova che la famiglia ha fatto bene, in questi anni, a chiedere di indagare in tutte le direzioni anche scavando nelle ore in cui Uva fu trattenuto in caserma. I risultati nella loro completezza saranno noti nei prossimi giorni. A questi vanno poi aggiunti i risultati della tac sui resti di Giuseppe. L’unico processo in corso, però, è quello contro due medici, quello del pronto soccorso e lo psichiatra del reparto. Il gup ha rinviato a giudizio prima lo psichiatra ma dicendo che la perizia è troppo generica e indicando la responsabilità dell’altro medico per il quale s’è aperto un secondo processo il 14 luglio. Anche il procuratore generale, opponendosi all’assoluzione, ammette che ci voleva maggiore attenzione. La parte civile, i familiari di Uva credono che la causa di morte sia il politraumatismo di quella notte non la sinergia tra sedativi. Il pm, dall’inizio di questa storia, appare particolarmente ostile alla famiglia di Uva. Ha perfino insinuato che Lucia avesse manomesso il cadavere. E, tra i misteri di quella notte, restano le dichiarazioni degli amici di Pino che aveva raccontato loro di avere avuto una relazione con la moglie di un carabiniere. A diradare la nebbia potrebbero essere le parole di Alberto Biggioggero, l’amico che era con Uva quella notte di giugno. C’era la partita, quella sera. Quando finì andarono al bar di Via Dandolo e, tornando a casa,  videro le transenne che sarebbero servite per la Festa delle Ciliegie. Decisero di chiudere la strada in anticipo per fare una goliardata innocua. Erano quasi le tre. Un carabiniere di pattuglia lo riconosce, lo chiama per nome e cognome, iniziano a discutere. Arriverannno i rinforzi: due pattuglie di polizia che portano i due dai carabinieri in Via Saffi. Un’ora dopo Alberto sente gridare Pino. Invano chiede il perché poi chiama il 118, suo padre e l’avvocato. Per questo s’è salvato. «Pino lo portiamo a casa noi», gli dissero i carabinieri che ”tranquillizzano” il 118: «Sono solo due ubriachi» salvo richiamare l’ambulanza alle 5.30. Il pm non ha mai sentito Alberto.

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Caso Giuseppe Uva, dopo tre anni finalmente la superperizia

Parla la sorella di Giuseppe Uva: «Ho visto il corpo di mio fratello, aveva le costole rotte, perdeva sangue dal retto, gli avevano messo un pannolone, aveva ematomi ovunque.

Checchino Antonini

Liberazione 7 luglio 2011
Si chiama superperizia il colpo di scena nel caso Uva, tre anni dopo la morte del gruista di 43 anni per cause da chiarire dopo essere transitato in una caserma varesina per approdare al pronto soccorso cittadino. La versione ufficiale, di una morte per allergia ai farmaci, non ha mai persuaso sua sorella Lucia che si batte da allora per riesumare il cadavere e capire, finalmente, cosa accadde quella notte. A seguirla c’è Fabio Anselmo, lo stesso legale delle famiglie di Aldrovandi, Cucchi, Bianzino. E l’altroieri, a Varese, hanno giurato i tre periti a cui «finalmente», spiega Anselmo a Liberazione, è stata data la possibilità di compiere ogni esame ritengano opportuno. Dunque quella riesumazione chiesta decine di volte e finora sempre ignorata da Lucia Uva e pure le analisi sulle macchie ematiche sul cavallo dei calzoni.

Autolesionismo incredibile
Suo fratello è morto il 14 giugno 2008, a Varese, dopo essere stato fermato da una pattuglia dei carabinieri per «ubriachezza molesta». Che però è un reato per il quale non è previsto il fermo e per il quale anche il Tso, che giustifica il suo ricovero, appare incomprensibile a chi racconta questa storia che, invece, comincia con una notte in caserma che termina con una versione ufficiale che narra di traumi da autolesionismo. «Perché carabinieri e poliziotti non lo hanno saputo proteggere da se stesso?». Sono tre anni che Lucia Uva formula dove può questa e altre domande. Malapolizia e malasanità, a volte, si mescolano come la carne e la metaldeide nelle polpette avvelenate: impossibile separare la verità dalla menzogna.
Tre anni dopo la storia di Giuseppe sembrava almeno capace di bucare lo schermo dopo un cenno sul recente rapporto di Amnesty International. Doveva andare in onda sulle Iene ma all’ultimo minuto, tre settimane fa, il servizio – «troppo forte» – è saltato. Chi vive alle prese con storie del genere vive appeso alla possibilità che si accenda un riflettore, che qualcuno ne scriva. E che tutto ciò produca una svolta nella battaglia per verità e giustizia. Perché è questo che Lucia vuole e in questo non solo è sorella di Ilaria Cucchi, Patrizia Aldrovandi e Maria Ciuffi, la madre di Stefano Lonzi, una storia archiviata con ostinazione. Ma è sorella e compagna di chi vive sull’Isola dei cassintegrati, di chi aveva occupato l’Eutelia, di chiunque si arrampichi su un tetto.

Il carabiniere lo conosceva
Lucia è un’artigiana tessile. Lavora spesso all’estero. Pino spostava le gru. Anche l’ultima sera. Stacca alle sei si fa la doccia e va a cena a casa dei genitori di Alberto. Alberto, Pino e la ragazza di Alberto vivevano insieme. C’era la partita, quando finisce vanno al bar di Via Dandolo. Tornando a casa si imbattono nelle transenne che sarebbero servite per la Festa delle Ciliegie. Così decidono di chiudere la strada in anticipo per fare una goliardata innocua. Erano quasi le tre. Arriva una pattuglia di carabinieri che girava in zona, un militare lo riconosce, lo chiama per nome e cognome, iniziano a discutere. Poi intervengono in rinforzo due pattuglie di polizia che portano i due dai carabinieri in Via Saffi. «Un’ora dopo Alberto sente gridare Pino. Chiede invano il perché poi chiama il 118, suo padre e l’avvocato. Per questo s’è salvato. «Pino lo portiamo a casa noi», gli dissero i carabinieri che “tranquillizzano” il 118: «Sono solo due ubriachi», salvo richiamare l’ambulanza alle 5.30. Mezz’ora dopo è al pronto soccorso con il Tso arrivando con un corteo di pantere e gazzelle.
Pino conosce il vigilante: «Diglielo tu che sono allergico alle punture. Da 13 anni si curava un’allergia ai pollini, era cliente fisso dell’ospedale. E’ per quello che mi incazzo ancora di più – continua Lucia – ci andava una volta al mese, bastava schiacciare un bottone…».
Invece lo riempiono di calmanti bucandolo almeno quattro-cinque volte. Pino si assopisce, i carabinieri si alternano al capezzale. «Dalle 7.30 alle 9.30 non sappiamo dov’è stato parcheggiato. Le sorelle lo trovano che russa in reparto. Viene detto loro che alle tre gli potranno parlare. Un medico del pronto soccorso chiama per chiedere se facesse uso di stupefacenti, un carabiniere insinua al fratello di Pino che era uno spacciatore e che era “fatto”. Nelle analisi ci sarà traccia solo dei narcotici che gli erano stati iniettati. Alle 10.10 le sorelle erano nello studio del medico che viene chiamato per un’emergenza. Alle 11 torna e comunica la morte di Pino.
Lucia, appena partita per le vacanze, rientra di corsa: alle 15.30 è nell’obitorio di Varese. Il naso, fuori dal lenzuolo, presenta una botta visibile. «Autolesionismo», si sente dire, «sbatteva sul tavolo, per terra, era furioso. Ma perché ha il pannolone?». Lucia fa uscire tutti, glielo toglie, scopre la costola sollevata, le dicono che è successo per rianimarlo ma lei pensa che gli si siano buttati addosso, vede segni anche sotto le piante dei piedi, ha la forza di guardare e vede che perde sangue dal retto. «Me lo sono toccato tutto, avevo la macchinetta fotografica perché ero partita per le vacanze e ho ripreso tutto: i bernoccoli sulla nuca, un ginocchio fuori posto, il collo del piede gonfio». Gli slip sono spariti. Si sente dire: «Si sa che in questi momenti si lasciano andare». L’autopsia è piena di sviste e di errori, perfino nei dati biografici. Il 30 settembre 2008, dopo un lungo esposto di Lucia Uva, si apre un fascicolo sulla notte in caserma ma da allora è ancora senza indagati.

Alberto mai sentito dal pm
L’unico processo, per lungo tempo, sarà contro due medici, quello del pronto soccorso e lo psichiatra del reparto. Il gup rinvia a giudizio solo lo psichiatra ma dice che la perizia è troppo generica e indica la responsabilità di un altro medico per il quale si aprirà un secondo processo il 14 luglio. Anche il procuratore generale, opponendosi all’assoluzione, ammette che ci voleva maggiore attenzione. La parte civile però crede che la causa di morte sia il politraumatismo di quella notte non la sinergia tra sedativi. Il pm, che non ha mai sentito Alberto, dall’inizio di questa storia, appare particolarmente ostile alla famiglia di Uva, cacciata dall’aula prima ancora che il giudice entrasse. Ha perfino insinuato che Lucia avesse manomesso il cadavere. E, tra i misteri di quella notte, restano le dichiarazioni degli amici di Pino che aveva raccontato loro di avere avuto una relazione con la moglie di un carabiniere.

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Le sevizie contro Giuseppe Uva: parla il legale Fabio Anselmo

Cucchi, il pestaggio provocò conseguenze mortali

I periti della famiglia: “La morte fu causata dai traumi alle vertebre”

11 aprile 2010

Senza i traumi subiti nelle ore precedenti al suo ingresso in carcere, Stefano Cucchi non sarebbe morto. Non lasciano dubbi le conclusioni a cui sono arrivati i periti della famiglia che parlano di decesso «addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto da insufficienza cardiaca in soggetto con bradicardia giunzionale intimamente correlata all’evento traumatico occorso ed alla immobilizzazione susseguente al trauma». I consulenti di parte civile smentiscono nettamente i risultati a cui sono giunti nei giorni scorsi gli esperti nominati dal pm che conduce le indagini. Per i periti della pubblica accusa, la morte di Cucchi sarebbe imputabile unicamente alle negligenze dei medici del Pertini. Per i professori Vittorio Fineschi, Giuseppe Guglielmi e Cristoforo Pomara, al contrario se è vero che «Cucchi era un ragazzo gracile e andava seguito, tuttavia senza traumi non sarebbe morto». Secondo i periti della famiglia del giovane deceduto il 22 ottobre del 2008 all’interno dell’ospedale Pertini, vi sarebbe un evidente nesso causale tra i traumi inferti sul suo corpo nelle ore dell’arresto e l’agonia mortale in ospedale. Lo dimostrerebbero le recentissime fratture a livello lombare e nel tratto sacro-coccigeo emerse dalle immagini radiologiche. Sulla frattura del corpo della terza vertebra lombare – hanno spiegato i consulenti – «non c’è traccia di formazione di callo osseo, cosa che dimostra che la frattura è di recente insorgenza». La tesi delle lesioni pregresse non trova quindi conferma. Non solo, ma l’analisi degli esami clinici ai quali il giovane venne sottoposto nei due ingressi al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli, il 16 e 17 ottobre 2009 – hanno sostenuto i periti – conferma la presenza di un «grave quadro di traumi contusivi al volto, al torace, all’addome, nella zona pelvica e sacrale, lì dove appare la frattura dell terza vertebra lombare (con cedimento e avvallamento dell’emisoma sinistro) e la frattura del corpo della prima vertebra sacrale con vasta area di infiltrato emorragico in corrispondenza dei muscoli lombari, del pavimento pelvico e della parete addominale a dimostrazione della violenza degli effetti lesivi». I Periti fanno capire che il pestaggio subito da Cucchi fu devastante, al punto che nelle ore successive al ricovero si scatenarono diverse emorragie interne che compromisero il funzionamento della vescica e poi l’arresto cardiaco. Il 17 ottobre 2009, a 24 ore dal trauma – sottolineano sempre i periti – «Cucchi presenta una vescica neurologica con necessità da parte del sanitario dell’ospedale Fatebenefratelli di posizionare un catetere (per il presunto danno alla radici nervose tipico delle evoluzioni di questi soggetti con frattura di L3 e prima coccigea)». Le conclusioni raggiunte dagli esperti della parte civile indicano in modo chiaro che l’inchiesta deve tornare a fare luce sui momenti iniziali del fermo e dell’arresto di Cucchi, quando su di lui vennero commesse brutali violenze da parte del personale che lo aveva in custodia.

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Morte di Giuseppe Uva, una telefonata accusa i carabinieri

I due militari: “Lo puoi tenere bene, è debole”

http://www.youtube.com/watch?v=KB-RtWXV3Pg


Una registrazione smentisce nettamente la versione dei carabinieri su quanto accaduto nella caserma di Varese la notte fra il 13 e il 14 giugno 2008, quando iniziò il calvario di Giuseppe Uva che poi lo portò alla morte. I militari hanno sempre parlato di “atti di autolesionismo” del quarantenne che, portato in caserma, avrebbe iniziato a “buttarsi dalla sedia, divincolarsi, resistere, dare calci contro armadio e scrivania, procurandosi lesioni lievi ed escoriazioni agli arti inferiori”, che la sorella avrebbe poi fotografato la mattina dopo sul corpo senza vita di Giuseppe. In realtà, leggendo le registrazioni, la realtà sembrerebbe un’altra: i due carabinieri parlano di Giuseppe come di “un ragazzo debole, che si può tenere”, a differenza dell’altro fermato, l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, che dalla caserma aveva chiamato il 118.
 Nella telefonata, Bigioggero dice di vedere “il via vai di carabinieri e poliziotti, di sentire le urla di Giuseppe che echeggiano per la caserma e i colpi dal rumore sordo” e dice all’operatore che “stanno massacrando un ragazzo”. A quel punto il 118 chiama in caserma per sapere se serve un’ambulanza, ma i militari rispondono che non serve perche “sono due ubriachi e ora gli togliamo i cellulari”. Bigioggero racconterà di aver sentito le urla di Uva per un’altra ora e mezzo dopo la telefonata.

Ecco il testo della telefonata. Sono le 7 e 54 minuti. Giuseppe è in ospedale. Per un minuto e mezzo, i militari del Radiomobile ridono, si scambiano battute, poi parlano di due ragazzi fermati.


Carabiniere 1
: “Paolo era impegnato con Uva Giuseppe, stanotte”.

Carabiniere 2: “Si, si..”.

Carabiniere 1: “E poi io gli ho portato qua anche il F. B. Gliel’ho detto a Mario, non so chi è tra i due.. chi è il migliore. Non lo so, Uva..”.

Carabiniere 2: “No, no.. Uva fisicamente lo puoi tenere, tanto è debole”.

Carabiniere 1: “Ah..”

Carabiniere 2: “Il B. era intenibile”.

A quell’ora Uva era arrivato all’ospedale, ma solo da poco (circa alle 6 di mattina). Qui prende i farmaci che alle 11.10 lo portano alla morte – secondo la procura, che ha indagato per omicidio colposo due medici – perché incompatibili con l’alcol in corpo. 
«La telefonata tra i militari – dice l’avvocato degli Uva Fabio Anselmo – mina alla base la versione data dalle forze dell’ordine, che sostengono che Uva si sia procurato le ferite da solo». Anche lo stato fisico di Uva è uno dei tanti enigmi: il tasso alcolico di 1,6 registrato dall’autopsia è compatibile con l’autolesionismo o provoca – come dice la letteratura medica – “sonnolenza molto intensa?”. Per questo, da tempo, la difesa chiede una nuova autopsia: la mancanza di esami radiologici ha impedito di individuare fratture. Una verifica che oggi può essere fatta solo con la riesumazione del corpo.

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Perché Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto?

Nuovi sconcertanti particolari emergono sul decesso del ragazzo di Varese fermato dai carabinieri

Liberazione 28 marzo 2010
Luca Bresci

Giuseppe Uva fu denunciato dai carabinieri quando era già morto. Dopo la presunta storia della relazione sentimentale con la moglie di uno dei militari che lo avevano fermato, insieme con un suo amico, la sera del 13 giugno nelle strade di Varese, vengono a galla nuovi sconcertanti particolari sulla vicenda del suo decesso. Il 15 giugno proprio l’amico di Uva, Alberto Biggiogero, consegna una denuncia per lesioni, ingiurie e minacce alla procura della repubblica. Nell’esposto si descrive uno scenario da incubo: l’atteggiamento aggressivo dei militi, in particolare di uno di loro che subito apostrofa Uva gridandogli: «cercavo proprio te»; e poi «un’ora e mezzo di pestaggio» nella caserma di via Saffi, la chiamata al 118, l’intervento dell’ambulanza bloccato dal personale della caserma, il sequestro del telefonino. Quello stesso 15 giugno sia Uva che Biggiogero furono a loro volta denunciati per «disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone», come riporta il processo verbale redatto dai due militari dell’Arma che avevano bloccato i due amici in piazza Madonnina del Prato. Sarà interessante conoscere l’ora esatta in cui furono depositate le due denuncie, per sapere quale venne presentata prima, e se quella dei carabinieri fu solo una risposta all’esposto di Bigioggero per tentare di giustificare il fermo a posteriori. Tuttavia qualunque sia la risposta a questa domanda, nulla ormai potrà cambiare il fatto che a quella data Uva era già cadavere da almeno ventiquattro ore.
Perché i carabinieri hanno aspettato tanto? L’anomalia, se così vogliamo chiamarla, portata alla luce da alcuni quotidiani locali, è davvero gigantesca e si aggiunge alle tante ombre e domande, ancora senza risposta, che circondano l’intera vicenda. L’artigiano di 43 anni venne fatto ricoverare in un reparto psichiatrico dai carabinieri che chiesero per lui un Tso presso l’ospedale di Circolo. Uno stratagemma per farlo sembrare pazzo e depotenziare preventivamente una sua eventuale denuncia per il trattamento subìto. Chi avrebbe dato retta ad uno “squilibrato” certificato con un trattamento sanitario obbligatorio? Ad Uva venne somministrata una terapia sedativa incompatibile con l’alcool assunto nella serata precedente. Poche ore dopo, alle 10.30 del 14 giugno, spirò per insufficienza respiratoria ed edema polmonare. Ovviamente la versione ufficiale del decesso, stilata dopo una sommaria autopsia che stranamente non contemplò esami radiologici per verificare l’esistenza di eventuali fratture ossee, nonostante l’evidente presenza sul corpo di ematomi, traumi e tracce di sangue, non ha mai persuaso i familiari. L’inquietante dinamica dei fatti, la procedura illegale del fermo, le tracce di percosse sul corpo, sollevano troppi dubbi. Di punti oscuri la vicenda ne ha fin troppi: come le dichiarazioni, ignorate, del comandante del posto di polizia presso l’ospedale che nel suo rapporto escludeva la natura «non traumatica» della morte e rilevava «una vistosa ecchimosi rosso-bluastra» sul naso, e che «le ecchimosi proseguono su tutta la parete dorsale». Il poliziotto registrava anche l’assenza di slip e la presenza sui pantaloni, «tra il cavallo e la zona anale di una macchia di liquido rossastro», mentre la sorella ricorda di aver visto «tracce di sangue dall’ano». A proposito degli slip, in un’informativa inviata quindici giorni dopo la morte, i carabinieri sostengono di non essere in grado di dire se l’uomo indossasse o meno gli slip, perché «al momento dell’intervento dei militari non venne perquisito». Affermazione che secondo l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, è in palese contrasto con le relazioni presentate dall’Arma dopo i fatti. In quei rapporti, sostiene sempre il legale, «i militari mostravano di sapere di ferite sulle gambe di Giuseppe, che però aveva i jeans». I suoi slip non sono mai stati rinvenuti, al loro posto la sorella, giunta all’obitorio, ha trovato un pannolone. Circostanza che solleva inquietanti sospetti, ad oggi ancora mai fugati, sulla possibilità che siano stati fatti sparire perché intrisi di sangue, e possibile prova di sevizie praticate nella parte posteriore del corpo. Le domande senza risposta non finiscono certo qui. A detta sempre di Lucia Uva, il carabiniere più giovane, presente al momento dell’arresto, sarebbe stato trasferito quindici giorni dopo la morte di suo fratello. Nessuno dei carabinieri coinvolti nella vicenda o degli agenti della polizia di Stato, stranamente accorsi in forze nel Comando dei carabinieri la sera del pestaggio, è mai stato ascoltato fino ad oggi dai magistrati che indagano.
E’ di ieri la notizia che due cronisti della stampa locale, uno della Prealpina e l’altro della Provincia di Varese, sono stati sentiti in procura per «sommarie informazioni testimoniali». La convocazione, secondo un’interpretazione apparsa su alcuni quotidiani, sarebbe dovuta a degli articoli poco apprezzati in procura. Intanto l’eco mediatica raggiunta dalla vicenda ha sbloccato l’iter giudiziario: il gip ha fissato per il 9 giugno prossimo l’udienza preliminare nei confronti dei due medici che hanno accettato il Tso e somministrato i farmaci, accusati di omicidio colposo, sempre che la riapertura delle indagini sulla verifica del movente della gelosia e la nuova autopsia richiesta dalla famiglia non dimostri che Uva subì traumi tali da indebolire il suo fisico di 69 chili, al punto da non sopportare il Tso. In questo caso sarebbero i carabinieri a dover rispondere di omicidio preterintenzionale.

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Delitti d’onore: ucciso perché «aveva frequentato la moglie di un carabiniere»

Luca Bresci
Liberazione 23 marzo 2010

Emergono nuove circostanze che gettano una luce ancora più inquietante sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo di 43 anni morto il 14 giugno del 2008 nell’ospedale di Varese dopo un pestaggio subito nella caserma dei carabinieri. Sembra che tra lui e uno dei militi che lo avevano fermato la notte precedente ci fossero degli screzi personali legati a una donna. Alberto Biggiogero condotto in caserma insieme ad Uva, e che racconta di aver sentito le grida atroci dell’amico provenire dalla stanza dove era stato rinchiuso, tanto da chiamare il centralino del 118 per chiedere un intervento (circostanza che ha trovato piena conferma dalla registrazione della telefonata e dai successivi contatti del 118 con la caserma), ha sostenuto in un’intervista che Uva «aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere e questi, in seguito, aveva promesso di fargliela pagare». Biggiogero non sa chi fosse la donna, ma la sera del fermo per schiamazzi notturni accadde qualcosa di molto simile a quanto paventato dall’amico. Nella dettagliata denuncia presentata alla procura di Varese, Biggiogero descrive la scena: «Un carabiniere si avvicina a noi con uno sguardo stravolto urlando “Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del brutale pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia avrebbe potuto essere quello del forte risentimento personale nutrito da un esponente dell’Arma e che avrebbe coinvolto altri suoi colleghi. La presenza in passato di uno screzio con i carabinieri, sempre per questioni di donne (Uva era incensurato), viene confermato anche dalla sorella dell’uomo, Lucia. D’altronde la descrizione del suo corpo martoriato, in particolare le tracce di sangue sul retro dei pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e alla zona anale, lasciano supporre il ricorso a sevizie di natura sessuale compatibili col movente indicato. L’avvocato Anselmo, legale della famiglia, è più prudente e preferisce procedere con metodo: «Basterebbe poter consultare il traffico delle chiamate in uscita e in entrata sull’utenza del cellulare di Uva per accertare la verità». Per questo nei prossimi giorni depositerà una memoria avanzando diverse richieste per la riapertura delle indagini, tra cui la riesumazione della salma affinché venga realizzata una nuova autopsia finalizzata a nuovi accertamenti medico-legali sulla natura delle ecchimosi e dei lividi raffigurati nelle foto e la presenza di eventuali fratture e altri traumi. Nel frattempo il procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, ha rivendicato «il corretto operato dei colleghi titolari del procedimento». In un comunicato ha reso noto che «il 30 settembre 2009 la dottoressa Sara Arduini ha aperto un nuovo procedimento proprio per verificare le nuove accuse della famiglia e le dichiarazioni rese da Alberto Biggiogero ed accertare ulteriori ipotesi di determinismo sull’accadimento». Non vi sarebbero per il momento persone iscritte nel fascicolo degli indagati, ma a detta del procuratore «sono state espletate ulteriori attività istruttorie e altre ne verranno svolte, nel caso con la possibile partecipazione dei difensori». Per quanto riguarda, invece, il procedimento per omicidio colposo nei confronti dei due medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese che diedero assistenza a Uva durante il ricovero, il procuratore ha sottolineato che «si è in attesa della fissazione della prima udienza preliminare».
A ventuno mesi dalla morte di Giuseppe Uva cominciano a trovare conferma molti elementi che smentiscono la versione ufficiale fornita dalle autorità. Tuttavia numerose domande attendono ancora risposta, tra queste il numero dei militi dell’Arma e degli agenti della polizia di Stato presenti nella caserma la notte tra il 13 e 14 giugno e perché mai questi testi non siano mai stati ascoltati. Il velo di omertà, la catena di complicità e il muro dell’impunità di Stato cadranno?

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Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù si rovescia nel suo esatto contrario.

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