«Un contadino nella metropoli», esce una nuova edizione del libro di memorie di Prospero Gallinari

Anticipazione – Pubblichiamo la nuova introduzione al libro di memorie scritto da Prospero Gallinari, pubblicato dalle edizioni PGreco. Alla fine del volume sono presenti anche due documenti politici di bilancio storico scritti negli anni 90 che portano la sua firma insieme a quella di altri ex appartennenti alle Brigate rosse con cui Gallinari aveva condiviso impegno e discussione politica dentro le Br e poi negli anni che hanno seguito la chiusura di quella esperienza


Dieci anni fa, il 14 gennaio 2013, Prospero Gallinari moriva a Reggio Emilia. Colpito dall’ultimo e definitivo malore cardiaco, venne trovato nei pressi della sua abitazione, riverso al volante dell’automobile. Era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Come ogni giorno, si apprestava a recarsi nella ditta dove aveva il permesso di lavorare svolgendo mansioni di operaio.
Ai suoi funerali presenziarono molte persone. Vecchi militanti delle Brigate Rosse, anziani esponenti del movimento rivoluzionario italiano, tanti emiliani che lo avevano conosciuto da giovane, e tanti giovani che avevano imparato a rispettarlo ascoltando le sue interviste, e leggendo il suo libro di ricordi intitolato Un contadino nella metropoli.
Sembrò e fu veramente un funerale di altri tempi. Una testimonianza di unione, e una occasione per legare insieme passato, presente e futuro, nel ricordo di un uomo la cui integrità era assolutamente incontestabile. La circostanza disturbò parecchio. Piovvero dichiarazioni di condanna e fioccarono persino denunce. Come si era potuto pensare di seppellire quel morto in quel modo? Ci sono cose, nel nostro paese, che non si devono fare. Scoperchiare l’infernale pentola della storia, come la chiamava Marx, può essere pericoloso.
Infatti la storia è un campo di battaglia. E lo è nel duplice senso di mostrarsi come terreno di lotta fra le classi tanto nel suo svolgimento, quanto nella sua ricostruzione postuma. Questo assunto, o se si vuole questa cruda verità, emerge nel modo più chiaro quando si parla degli anni Settanta italiani. A distanza di parecchi decenni, risulta evidente l’importanza politica e la vastità sociale del conflitto che vi si produsse fra il proletariato e la borghesia. Ma non per caso, dopo tutto questo tempo, le polemiche infuriano ancora senza esclusione di colpi, inscenando sempre lo stesso copione: il rifiuto, da parte della classe dominante, di ammettere che il proprio potere venne messo in discussione da una nuova generazione di comunisti, radicata nella società e intenzionata a dare senso concreto alla parola rivoluzione.
È senz’altro una coazione a ripetere. Una ossessione che talora (come nel caso della cosiddetta dietrologia) raggiunge i limiti del grottesco. Ma non dobbiamo stupirci. Corrisponde a un bisogno profondo della borghesia, concepire se stessa come classe universale e come ultima parola della storia. La miseria, le guerre e i fascismi che il suo sistema sociale ha prodotto e produce, non contano. La borghesia espone orgogliosa le sue costituzioni, indifferente alle palesi contraddizioni fra le parole e i fatti. Naturalmente, il gioco salta quando gli oppressi prendono coscienza della loro effettiva condizione, mettendo in discussione in modo razionale e organizzato il capitalismo. È successo molte volte e succederà ancora. Per questo è utile leggere Un contadino nella metropoli. Perché è la storia di un uomo che ha vissuto fino in fondo dentro la sua classe. Perché è un capitolo di storia di una classe che, sapendo annodare i propri fili, ha lanciato e sostenuto sfide temerarie, disposta a ricominciare sempre daccapo.

Qui ha senso dire qualcosa su Prospero Gallinari. Con lui, la natura era stata generosa. Gli aveva dato coraggio, pazienza, saggezza e volontà. In cambio, dopo i trent’anni, si era presa un po’ di salute. Ma gli infarti e le ischemie non avevano piegato l’emiliano della bassa. Conservava senza sforzo il suo istintivo buonumore. E la coerenza, in lui, mostrava qualcosa di semplice e concluso. Non era testarda ostinazione. Non era arrogante protervia. In Prospero Gallinari, la costanza dei modi e delle idee traeva il suo senso da una scelta fatta per sempre. Senza rimpianti. Senza leggerezze. Con il respiro lungo del contadino. E con la responsabilità asciutta del comunista.
Sono caratteristiche esemplari. Oggi è lecito sottolinearlo, davanti all’arco di una vita che si presenta incastonata nel largo mattonato della lotta di classe. Gallinari era nato in una famiglia povera e aveva iniziato molto presto a lavorare. Era stato educato alla fatica e alla soddisfazione del pane guadagnato con le proprie mani. Ma in questa casa, e nella sua Reggio degli anni Cinquanta, aveva anche appreso un orgoglio superiore. Quello del proletariato cosciente. Quello di una classe potenzialmente dirigente che, nel sistema togliattiano dell’Emilia Rossa, vedeva i primi frutti della battaglia anti-fascista, forgiando l’edificio della via italiana al socialismo.
Toccò in sorte a Gallinari, e a molti altri come lui, di dover ridiscutere tutto. Ci furono strappi, fratture, accuse e delusioni. Il Partito Comunista Italiano appariva attardato e titubante davanti alla rottura del 1968. Un intero mondo batteva alle porte del neocapitalismo europeo, chiedendo assai più dell’equità, chiedendo semplicemente la rivoluzione.
Fu davvero un taglio netto. Ed esso restò, insieme al bagaglio precedente, un patrimonio personale di Prospero, evidentissimo nel suo modo di essere. Si può detestare il burocrate senza predicare l’indisciplina. Si può contrastare l’ipocrisia senza cedere all’individualismo. La scuola del comunismo emiliano, con i suoi termometri ampi, non fu mai rinnegata da Gallo, che rifuggiva spontaneamente dai settarismi e dalle manie estremistiche della piccola borghesia. Ma la necessità delle rotture, del saper camminare anche in pochi, di andare controcorrente, rimase sempre vigile in lui, nutrendo una idea di avanguardia che aveva il gusto del destino accettato e compreso.
Non a caso, Prospero Gallinari portò tutta la sua determinazione nelle Brigate Rosse. In questa organizzazione riversò l’insieme delle sue convinzioni: il senso del partito, la mentalità guerrigliera, l’etica di una generazione che pensava in modo internazionale e non aveva paura di tagliare i ponti dietro sé. Le Brigate Rosse erano senz’altro, per lui, il duro strumento di una battaglia radicale. Ma costituivano anche una comunità di uomini e donne uniti da una scelta di vita, dove mettersi alla prova ogni giorno di nuovo. Cambiare la targa di una automobile rubata, partecipare al sequestro di Aldo Moro, stilare un documento politico, o pulire la cella di un carcere speciale, erano compiti che assolveva con la stessa anti-retorica, e spesso ironica, dedizione. Era in grado di imparare, e di ammetterlo senza alcuna difficoltà, dal compagno più inesperto di lui. Era in grado di aiutarlo con brusca delicatezza, indovinando il lato umano del problema.
Non stiamo esagerando. A Gallinari le esagerazioni non piacevano. Stiamo solo parlando dell’uomo, del militante, del brigatista. Alle Brigate Rosse egli diede interamente se stesso, con la naturalezza dei doveri elementari. Ne seguì per intero la parabola. Ricusò ogni compromesso. Scansò ogni facile presa di distanza.
Perché a lui, come a tanti altri rivoluzionari prima di lui, venne incontro la sconfitta. E proprio nella sconfitta Prospero ebbe virtù particolari, un atteggiamento che merita di essere ricordato. Non coltivò sdegnosi personalismi. Non si negò alla discussione con chi ignorava il particolare contesto degli anni Settanta. Il suo cruccio era la trasmissione autentica di un patrimonio di esperienze alle nuove generazioni. Per questo, alieno come risultava da ogni vittimismo, sollecitò fra i movimenti una battaglia a favore della liberazione dei prigionieri politici. E per questo, lontano come era da ogni protagonismo, spiegò ovunque gli fu possibile il senso di una vicenda che veniva calunniata a colpi di dietrologie, di deformazioni interessate, di chiassosi o più sottili schematismi.
Sì, Prospero Gallinari era un comunista che, volendo usare parole grosse, sapeva rispettare la superiorità immanente della storia. Ma sapeva anche che questo orizzonte non comporta un lieto fine assicurato, e tutta la sua vita si è spesa al servizio di una scommessa da impegnare ogni volta di nuovo, negli esperimenti sempre diversi dell’azione collettiva.

Parliamo infine del libro. Il lettore di Un contadino nella metropoli ha davanti a sé una successione ragionata di ricordi. Sono ricordi essenzialmente politici. Eppure non manca l’at- tenzione alle cose della vita, ai tanti significati dell’esistenza quotidiana. Non si tratta del semplice rimpianto del militante o del prigioniero per la privazione degli affetti privati, e dei colori e dei suoni del mondo. Si tratta del rapporto con la terra e con l’aria, della relazione con il susseguirsi delle stagioni, della misura ereditata dalla manualità collettiva del lavoro contadino. In Gallinari tutto questo era radicato nell’animo, e non si era affatto smarrito nel suo viaggio dentro la metropoli. Ne derivava una speciale schiettezza. Una schiettezza niente affatto ingenua che il lettore del libro incontrerà fra le pagine, dove l’uomo, il militante e il dirigente politico riescono a parlare senza orpelli e narcisismi, con una lingua netta e sincera, che rende il ricordo prezioso, consegnandolo alla storia.
Si parla infatti molto spesso, e anche con ragione, dei limiti e dei pericoli della memorialistica. Per le Brigate Rosse ce n’è stata tanta, forse troppa, anche perché l’interdetto scagliato dalla classe dominante sul dibattito storico-politico ha consegnato al racconto, al referto individuale, alla narrazione più o meno veritiera delle esperienze vissute, una funzione di supplenza non sempre positiva. Solo ora alcuni storici cominciano a mettersi in moto con le dosi minime di competenza. E in ogni caso si avverte la mancanza di uno sguardo generale, di uno sguardo complessivo capace di collocare la vicenda della lotta armata dentro l’ampio spazio delle lotte di classe italiane e europee degli anni Settanta, nonché dentro la vicenda più generale del comunismo storico, di cui le Brigate Rosse fanno parte a pieno titolo.
Ecco, forse questo è il contributo più importante che Un contadino nella metropoli fornisce sia al lettore curioso, sia a quello militante, sia infine allo studioso al lavoro sul materiale della storia. Le Brigate Rosse sono state una organizzazione rivoluzionaria e comunista. Sono nate nella classe operaia, con l’esplicito obiettivo di trovare una strada per la conquista del potere politico nelle nuove condizioni create dal capitalismo e dalla situazione mondiale del secondo dopoguerra. Hanno incontrato e provato a risolvere i problemi classici del marxismo rivoluzionario. Hanno dovuto inventare, ma lo hanno fatto dentro un solco più lungo e più ampio della loro esperienza. Hanno scritto e teorizzato, ma il loro pensiero si riallacciava a un dibattito internazionale che andava ben oltre i confini italiani, puntando a riattivare i temi del leninismo nel paese del Biennio rosso, della Resistenza antifascista, del Sessantotto studentesco e del Sessantanove operaio.
Non era un compito facile, e il libro di Prospero Gallinari offre molti spunti per comprendere sia i meriti sia i limiti delle Brigate Rosse. In ogni caso, il suo autore non cerca sconti. Non gioca a fare il duro. Nemmeno scarica colpe sull’epoca, sulle ideologie, sulla tenaglia del Novecento irretito dai doveri totalizzanti. Semplicemente, Gallinari restituisce l’orgoglio della forza e dell’unità, il dispiacere per le divisioni e le scissioni, le domande che una storia collettiva ha posto a se stessa, lasciandole in eredità alle generazioni successive.
Dopodiché non è lecito illudersi. Sentiremo ancora dire che Prospero è stato solamente un assassino, e non avremo risposte facili, perché certamente egli ha usato la violenza contro chi considerava nemico della sua gente. Leggeremo fino alla nausea che ha incarnato il prototipo del militante fanatico, e non potremo svicolare, perché senza dubbio egli aveva rinunciato alla comoda perfezione degli animi imparziali.
La verità è che in questo mondo fatto di oppressione e di dolore, Prospero Gallinari aveva preso in parola il comunismo fin da ragazzo, e ha lasciato almeno il morso dei suoi denti sulla mano che ci percuote da millenni. È un vanto del proletariato saper produrre individui simili, perché è su questi indispensabili, come li chiamava Brecht, che riposa la possibilità di oltrepassare un giorno i confini della società borghese.

Gennaio 2023

Le compagne e i compagni di Prospero

Ai funerali di Prospero

di Marco Clementi dal blog www.primadellapioggia.blogspot.it
21 gennaio 2013

Un contadino nella metropoliA casa di Prospero ho trascorso il Primo Maggio del 2005. Stavo insieme a Francesco Piccioni e su incarico della Casa Editrice “Odradek” si doveva parlare del libro “Un contadino nella metropoli”, uscito l’anno dopo con Bompiani.
Devo dire che quel titolo non mi convinceva. Come un contadino? I contadini sono sempre stati dalla parte della reazione, alla fine. Sono i piccolo borghesi doc, quelli che dalla terra ricavano più redditi con un solo lavoro, che quando ottengono la terra – rivoluzione ti saluto.
Ma nella metropoli si proletarizza, rispondeva Prospero, e acquista coscienza di classe. Sul titolo nulla, un muro. Non mi convinceva neanche il resto, però. Non perché l’avrei buttato via. Ma mi sembravano necessari alcuni passaggi politici che erano stati omessi. Perché? Perché, gli dicevo, sei stato uno dei massimi dirigenti delle Br. Discutemmo per ore. Registrai pure qualcosa, che avrò messo chissà dove, ma alla fine non si spostò di una riga. Non ci fu verso (e Piccioni era dalla mia parte allora) di convincerlo a spostare nulla. A malincuore “Odradek” decise di non pubblicare il libro. Quando poi uscì, l’anno seguente, inseguito da stroncature su tutti i maggiori quotidiani, il titolare della casa editrice romana alzò le sopracciglia. Come a dire: non mi ero sbagliato.
Nel frattempo sentivo Prospero, ma solo per telefono. Era malato, Prospero, molto malato. Già allora, già da decenni.
Reggio Emilia fa impressione. Te la ricordi una delle città della provincia italiana più ricca, e invece la crisi miete anche qui. La stazione e le strade intorno sono una piccola “Termini” dei tempi peggiori. Solo le centinaia di biciclette ammassate su un lato sono un segno. Si prende il 4 e si va verso Coviolo, la frazione dove abitava Prospero. Attraversi il centro mentre continuano a salire adolescenti che escono dalle superiori e vanno a casa. Tutti a Coviolo, fermata più, fermata meno. L’autobus è pieno. La neve intorno copre tutto.
Scendiamo di fronte al cimitero. Un breve tratto a piedi e sei dal fioraio. Prendiamo quattro garofani rossi, che metteremo sopra la bara di Prospero, già avvolta in quella bandiera con falce e martello e stella a cinque punte. Pare ci sia la Digos, ma neanche la vedo. Sto attento ai volti dei compagni e delle compagne, abbraccio Giava, stringo la mano a Piccioni, poi arriva Salvo, Baruda, vedo Tinino, Giorgione di Bologna, e Sante, che ha preso in mano l’organizzazione. Dentro la camera mortuaria, mentre depongo i garofani, un giornalista mi chiede se può scattare una foto, così, dice, non ci sono solo vecchi. Premuroso. Qualche ragazzino, in realtà, c’è. Magari è intimorito e non entra. Ci si sposta dentro la sala per le commemorazioni, ma ci stiamo solo in minima parte. Sante propone di fare la commemorazione fuori, sotto la neve, ma almeno le mille persone intervenute possono partecipare.
Comincia Seghetti, che ricorda i nomi degli assenti. Poi la parola passa Tonino Paroli, che difende la storia delle Br e come Cossiga, sottolinea che non fu terrorismo. Sante legge sue poesie, quindi prende la parola Oreste per un’omelia sentita ed emozionante. Aveva già fischiettato l’internazionale nella camera ardente. Ora la riprende, poi la canta, in italiano e francese. Pugni chiusi. Lunghi applausi. Prospero è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai.
Chi ha qualcosa da dire lo faccia, insiste Giava. Prendono la parola due giovani, viene letta una pagina del libro di Prospero.
Ancora un applauso, quindi Sante e Tonino portano del vino. C’è anche Renato. Brindiamo intorno al feretro.
Le persone muoiono. Il funerale successivo, fortunatamente programmato molto dopo quello di Prospero, dovrebbe iniziare. Si sta avvicinando un piccolo corteo di gente, che si vedrebbe venire intorno quello che i giornali hanno definito “lo stato maggiore delle Br”. Se solo lo riconoscessero.

Ma perché un morto a uno stato maggiore che non è mai esistito nella realtà allora, figuriamoci oggi che sono tutti ultrasessantenni ma segnati da decenni di carcere, perché tutto ciò fa ancora tanta paura in questo paese? Perché un gruppo consistente di persone che sono venute sotto  la neve da tutta Italia non può accompagnare un proprio morto con un pugno chiuso sollevato verso il cielo? Perché deve essere etichettato, segnato, violato come allora (si parlava di rivendicazioni deliranti) come “nostalgici”? E mica stiamo a Predappio. Mica si vuole restaurare un regime. Mica vogliamo Curcio presidente del Consiglio. Volevamo soltanto salutare un compagno che ha dato tanto, ha dato la vita a vederla bene, per la causa della rivoluzione proletaria. Per i più deboli, gli emarginati, quelli senza casa e senza lavoro. E basta così. Non c’è bisogno di retorica.
Ma sono quelle, proprio quelle le idee che fanno paura. Non siamo noi. Se volessero in cinque minuti ci sbattono dentro e ci lasciano marcire per un po’ in carcere.  Le idee. Quanto è strano. Davvero quelle non le ingabbi. E se lo fai, le alimenti. Loro, che lo sanno bene, se la prendono allora con le persone, fanno scoppiare una ridicola querelle addirittura dentro Rifondazione, che appoggia una lista di giustizialisti. E di quelle idee non vogliono parlare. Uguaglianza, dignità, rispetto, lavoro, casa.
Sono più di 150 anni che il conflitto di classe si basa su queste. Eppure Prospero, in questa Italia ormai post-belusconiana, fa ancora paura. Un uomo. Un contadino. Una coscienza di classe. Un morto. Di Reggio Emilia.

Prospero Gallinari, quando la Brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni

Estratto da Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Bompiani 2006, pp. 221-225

Un contadino nella metropoliSi è spenta la luce
[…] il 24 settembre abbiamo appuntamento con una parte del nucleo a pranzo, in una tratoria, per discutere le ultime cose. Informo i compagni che la sera prima Mario mi ha chiamato da un porto italiano e sta risalendo l’Adriatico verso Venezia. Dovremo poi organizzarci per andare a recuperare le armi che ha portato. Ma intanto pensiamo al lavoro che dobbiamo fare domani.[…]
Cambiare le targhe è un lavoro banale, basta trovare un buco dove non ti vedono. Ma la zona non è buona. C’è un bar nelle vicinanze del luogo in cui abbiamo parcheggiato le macchine e c’è della gente fuori. Ci spostiamo di duecento metri e dopo Porta Metronia troviamo uno spazio nel quale riusciamo a infilarci. Io dovrei fare la copertura da una certa distanza agli altri incaricati della sistemazione delle targhe, ma subentrano complicazioni con le viti che non vogliono staccarsi… Decido di mettermi a svitarle io.
Quando sento la sirena, la macchina della polizia ce l’ho già addosso. In quelle occasioni la reazione è spontanea, correre in sè non servirebbe a niente. Cercando di restare coperto dall’automobile sulla cui targa stavo lavorando, estraggo la pistola e comincio a sparare. Intanto mi guardo attorno e cerco di ragionare. La volante della polizia ce l’ho di fronte e mi ostruisce l’accesso a una strada secondaria che vorrei guadagnare per la fuga, perché mi sembra stretta e contorta.
Sparo così contro la macchina per costringerla a spostarsi e lasciarmi la via libera. Termino un caricatore e cerco di estrarre il secondo dalla cintura dei pantaloni. E lì si spegne la luce.

Il San Giovanni
Quando si riaccende vedo un’infermiera e dietro di lei diversi carabinieri. E’ chiaro che mi trovo in ospedale e sono stato arrestato.
Mi sento intontito e soprattutto ho un fortissimo dolore alla testa. Rivolgo la parola all’infermiera chiedendole se può chiamare un medico perché il dolore è lancinante.
La vedo meravigliata della domanda, ma molto cortesemente dice che tornerà subito. Il medico stesso arriva abbastanza confuso.
Inizia a farmi domande: cosa sento, come mi chiamo, cosa ricordo di me e di quello che è successo.
L’unica cosa che non riesco a valutare è il tempo trascorso in ospedale prima del risveglio; per il resto, pur con uno stato di confusione abbastanza marcato, rispondo con una certa logicità alle sue domande.
Dopo alcuni minuti di questo dialogo abbastanza bizzarro il medico mi rivolge una domanda secca: “lei è mancino?”
Gli rispondo di sì. Benchè infatti sia stato educato fin dall’infanzia a usare la mano destra per scrivere o tenere le posate, per tutto il resto sono mancino e la sinistra è anche la parte dei miei arti più forte e reattiva.
“Adesso capisco”, mi risponde.
“Lei è stato colpito alla testa e ha subito un focolaio lacerocontusivo ed emorragico di grossa portata, abbiamo dovuto estrarle parecchia materia… davamo per scontato che la quantità fosse tale da ritenere lesionata senza possibilità di recupero tutta la qualità cognitiva e del ragionamento… essendo mancino lei ha le parti del cervello invertite…”
Non so come rispondere… ma prendo atto che è pure sempre andata meglio del previsto.
Intanto il programma immediato è cercare di capire se il dolore si può attutire. E’ così intenso alla testa, che solo in un secondo momento mi rendo conto di avere una gamba appesa in trazione a un baldacchino montato sul letto.
E’ stata anch’essa raggiunta dalla raffica che mi ha colpito, e (verrò a saperlo in seguito) un proiettile è entrato nella caviglia rompendola, per uscire poi dal tallone.

Sono in una stanza isolata dal resto delle corsie e non riesco neanche a capire in quale ospedale mi trovo. Intorno a me, il movimento di agenti è molto intenso, si sente che ce ne sono diversi anche fuori, ma questo comunque non impedisce al personale medico di prestarmi le cure e le pulizie del caso.
Da quello che sento dire, capisco che sono rimasto in coma due giorni, e nel fondo del mio pensiero c’è una frase che viaggia come se l’avessi colta in quei momenti: “ha mangiato bene”.
Probabilmente è stato quando mi hanno fatto la lavanda gastrica; devo aver avuto un attimo di presenza mentre qualcuno l’ha pronunciata. Tra l’altro collima… a pranzo avevo mangiato un risotto al nero di seppie, un risotto anche buono.
Stanno mettendo a posto il letto e mi hanno portato delle gocce di Valium per il dolore. Un’infermiera mi allunga il bicchiere e mi stringe forte la mano. La guardo in faccia, mi fa capire con gli occhi di guardare più in giù.
Osservo il collo, ha una camicetta aperta sul davanti e porta una bella collana. Uno dei gioielli di Laura.
Una collana che gli aveva costruito e regalato Bruno, quando fra le sue varie attività si era dedicato anche a quella di apprendista gioielliere. Ho difficoltà a capire se sono impazzito o se è l’effetto di qualche allucinogeno.
Uno dei poliziotti si fa vicino, ma lei gli fa intendere che deve sistemare il letto e lo fa allontanare di un metro.
Tra le labbra mi dice: “fatti tenere qui qualche giorno”.
Il cervello, anche spappolato, viaggia a velocità supersonica. So che c’è una grossa presenza di compagni negli ospedali, ma tutto mi aspettavo meno di trovarmi l’organizzazione al risveglio.
Che idee avranno? Sono impazziti?
Nelle condizioni in cui mi trovo sarei solo un peso!
Ma dai compagni che conosco posso aspettarmi questo ed altro”
Chiudo gli occhi e mi metto a piangere.
Passano due giorni, il dolore persiste, e sembra di capire che dovrò abituarmici per parecchio tempo, ma quanto al resto la mia condizione sembra stabilizzata. La visita medica è passata, e quella sera monta un dottore per un turno di notte.
Lo guardo in faccia e lo riconosco. L’avevo incontrato con Bruno mesi prima per dargli indicazioni su dove piazzarsi in occasione di un’azione. Avrebbe fatto da copertura medica, una pratica che usiamo dove c’è la disponibilità di compagni medici o infermieri, in grado di offrire supporto nel caso in cui ci siano feriti non gravi da soccorrere sul posto.
Mi ripete che devo cercare di rimanere. Ha visto Bruno e i compagni credono davvero di poter intervenire. Ma io gli faccio capire che probabilmente mi trasferiranno molto presto in carcere. Poi ci ragiono: sarebbe assurdo portare fuori un catorcio che, oltre alla gamba rotta, non si sa neanche quanto cervello abbia ancora a disposizione.

Il giorno dopo mi trovo in isolamento a Regina Coeli.

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