Guido Crainz, già esponente di Lotta continua negli anni 70 ed oggi docente di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo, saggista e articolista di Repubblica, corre in soccorso del procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli dopo l’appello lanciato agli intellettuali perché si schierassero in difesa delle inchieste dalla procura torinese e dell’accusa di terrorismo lanciata contro i No tav. Lo fa mistificando la storia del sabotaggio, contapponendola ad altre pratiche di lotta, come se fosse separata e non parallela ad altri repertori d’azione. Nulla dice delle accuse esorbitanti mosse dalla procura che individuano condotte terroristiche nella semplice difesa di un territorio. Gli risponde Erri De Luca chiamato in causa nella parte finale dell’articolo. Un non detto soggiace all’intera polemica: la ruggine tra due pezzi della storia di Lotta continua, tra due modi di averla elaborata che si sono contrapposti duramente durante gli anni dell’inchiesta e del processo Calabresi
Sabotaggio, quando la memoria aiuta
di Erri de Luca
il manifesto, 15 settembre 2013
Una pratica diffusa che negli anni ’70 produsse bonifiche di ambienti malsani e contratti favorevoli. Uno storico ufficiale, stipendiato per trasmettere storia, che trascura i fatti a beneficio di una sua tesi, commette omissione in atti di suo ufficio. Stabilito questo, non sono uno fabbricastorico ma ho il vantaggio di avere buona memoria. Negli anni ’70 ho fatto parte di una organizzazione rivoluzionaria di nome Lotta Continua che interveniva attivamente nelle lotte di fabbrica, sotto la guida di intellettuali e di operai. Nacque e si ramificò negli impianti industriali del nord. Un paio di strofe di canzoni politiche di allora: «Sabotar la produzione, non c’è altra soluzione» (Canzoniere del Potere Operaio di Pisa). «Pensa un po’, pensa un po’: avvitare due bulloni e il terzo no». Nelle officine di quegli anni si cominciarono a praticare forme di sabotaggio della produzione che rafforzarono enormemente il potere contrattuale degli operai: il salto della scocca, gli scioperi a gatto selvaggio. Il salto della scocca era un’operazione di montaggio non effettuata del singolo pezzo in transito sulla postazione di lavoro. Faceva impazzire i reparti di lavorazione a valle. Sciopero a gatto selvaggio: senza preavviso interrompeva brevemente e a casaccio le lavorazioni di piccole unità, imballando tutta la linea di produzione a monte e a valle. Erano forme di lotta che costavano poco agli operai e molto al padronato. Sono stato operaio in quei capannoni, ho visto, ho praticato. Da quelle interruzioni partivano i cortei interni dentro la fabbrica che andavano a bloccare anche i reparti che continuavano a lavorare. Il chiasso delle officine veniva sovrastato dal frastuono di un corteo di operai che s’ingrossava a torrente finendo in un’assemblea spontanea. Gli operai prendevano così la parola e non la restituivano. I grandi impianti a catena di montaggio erano efficienti ma fragili di fronte a queste nuove forme di lotta. Questa pratica diffusa era un dichiarato sabotaggio della produzione e procurò la grande ondata di lotte operaie degli anni ’70 , vincenti e di massa. Successe così in Italia il più forte decennio di riscatto della manodopera industriale di tutto l’occidente. Quelle lotte massicce per quantità e compattezza produssero contratti di lavoro favorevoli, imponendo aumenti in paga base uguali per tutti, bonifiche di ambienti lavorativi malsani come i reparti di verniciatura. Di recente scioperi a gatto selvaggio sono stati indetti e praticati dai sindacati metalmeccanici degli stabilimenti Indesit di Melano e Albacina. Basta un po’ di memoria di testimone per mettere la parola sabotaggio dentro la più certa tradizione di lotta operaia. Uno storico che si permette di ignorarla è un rinnegato della sua professione.
Sabotaggio, le forme illegali di opposizione. Quando le proteste diventano violenza
Guido Crainz
la Repubblica, 12 Settembre 2013
Forse, davanti alle polemiche di questi giorni sulle proteste contro la Tav, occorre superare il fastidio per il riemergere di retoriche e stilemi che credevamo sepolti con gli anni Settanta. Forse occorre ritornare ancora su discrimini fondanti: su ciò che divide la battaglia quotidiana per consolidare i diritti e la democrazia dalle derive che possono indebolirla o insidiarla. A un primo sguardo è certo facile tracciare il confine fra le forme illegali e violente di lotta e quelle pacifiche e lecite: anche quelle più “estreme”, come gli scioperi della fame portati quasi oltre il limite o quelle forme di dissenso in climi ostili che espongono a ritorsioni – esse sì – violente (come avvenne nelle lotte per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti e in molti altri casi). Sarebbe salutare, anche, che fossero molto più diffuse le ricerche sulle potenzialità di forme non violente di lotta anche di fronte a dittature feroci: ha iniziato a farlo molti anni fa Jacques Sémelin per l’Europa occupata dalla Germania nazista (Senz’armi di fronte a Hitler), da noi lo ha fatto anche di recente Anna Bravo muovendosi fra Italia e Tibet, India e Kossovo (La conta dei salvati): e sottolineando la forza dissacratrice dell’ironia, la sua capacità di accendere la potenzialità realmente eversive della fantasia, non dei roghi.
Con altrettanta evidenza, inoltre, la parola sabotaggio evoca sconfitta, debolezza o addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo. Così fu nelle campagne italiane di fine Ottocento ai primi albori del nostro movimento sindacale (che spesso ha nelle campagne appunto la sua origine): erano segnale di debolezza o di impotenza gli incendi dei fienili o il danneggiamento notturno dei raccolti. E lo fu anche il loro isolato riemergere, sconfessato dalle organizzazioni sindacali, all’indomani delle sconfitte del secondo dopoguerra, nel clima della guerra fredda. Per molti versi inoltre il passaggio a forme violente è la negazione, non la prosecuzione della mobilitazione e della presa di coscienza. Agli inizi degli anni settanta, ad esempio, la autoriduzione collettiva del pagamento delle bollette di luce, gas o telefoni fu ampiamente organizzata da comitati di quartieri, organizzazioni sindacali, gruppi di base: alla fine del decennio la possibilità stessa di riprendere quelle forme di lotta fu stroncata dalla pratica leninista di autoriduzione violenta, spinta sino all’esproprio, praticata dai gruppi dell’ “autonomia operaia” (gli stessi che stritolarono le potenzialità dell’ala creativa del movimento del ’77).
Altre osservazioni possono riguardare poi il rozzo pedagogismo giacobino dell'”atto esemplare”: vi è al fondo la sottovalutazione se non il dispregio della capacità di azione autonoma dei cittadini e – sotto altre spoglie – il vecchio mito della avanguardia. A ciò si aggiunse negli anni settanta un altra tragica distorsione. Com’è del tutto ovvio il problema delle forme di lotta si pone in forme radicalmente diverse nelle democrazie o nei regimi totalitari (per non parlare, di nuovo, dell’Europa occupata della seconda guerra mondiale, quando la lotta armata fu integrata dalle forme più diverse di sabotaggio: un modo per estendere, non per restringere la partecipazione alla Resistenza). Il dramma degli anni di piombo iniziò proprio dalla negazione, tendenziale o drastica che fosse, di questa distinzione: in Germania come in Italia nell’ideologia e nella propaganda delle nascenti organizzazioni terroristiche fu centrale l’idea di vivere ormai in uno stato autoritario, se non totalitario, o avviato ad esserlo (intrecciata, naturalmente, al mito della rivoluzione). Da questa convinzione inizia il percorso che porta Giangiacomo Feltrinelli sino al traliccio di Segrate, e anche di questo parla un documento delle future Brigate rosse redatto all’indomani della strage di piazza Fontana.
A ciò si intrecciarono vie in qualche modo “intermedie”: all’inizio del decennio, nel clima della strategia della tensione e in presenza di una gestione rigida (e talora irresponsabile) dell’ordine pubblico, divieti ingiustificati alle manifestazioni favorirono chi tendeva ad “innalzare il livello dello scontro” trasformando i cortei in atti di guerra. Di qui una crescente “militarizzazione” dei servizi d’ordine di taluni gruppi extraparlamentari: e da qui verranno alla fine del decennio, nel declinare delle speranze di trasformazione, non pochi disperati e giovani flussi verso le organizzazioni terroristiche.
È sufficiente evocare quel clima per capire quanto ne siamo abissalmente lontani ma in questa nostra tragedia è iscritto anche l’antidoto più forte, solidamente basato su due cardini. In primo luogo la capacità di alimentare speranza, di contrapporre alle possibili derive la forza e la fiducia nel futuro delle pacifiche mobilitazioni collettive. E al tempo stesso il rispetto intransigente della democrazia, la fermezza nel denunciare ogni abuso anche minimo che possa incrinare la fiducia nello Stato democratico: quel che è successo nel 2001 al G8 di Genova nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è stato molto più devastante di mille proclami eversivi. Per il resto, a leggere alcune dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi – talora non prive dei toni dannunziani de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri (1978) – vengono solo in mente alcuni versi ironici di Jacques Prévert: «Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi…».
Per approfondire
Gli angeli e la storia, scritture e riscritture: auando Sofri celebrava l’incompatibilità di Lotta continua con la violenza politica
Emile Pouget e la storia del sabotaggio