Strage di Bologna, i palestinesi non c’entrano

Rettificato il grave errore presente nel libro, «Storia nera»

Andrea Colombo
il manifesto
16 luglio 2009

Mi è stato solo di recente segnalata la presenza di un errore piuttosto serio nel mio libro sulla strage di Bologna, Storia nera, uscito ormai due anni fa per Cairo editore. Essendo l’errore in questione foriero di gravi equivoci, ho chiesto ospitalità al manifesto per porvi un sia pur tardivo rimedio.
Nel libro avevo scritto che Abu Saleh, il militante palestinese in carcere dal ’79 in seguito all’individuazione di un lanciamissili trasportato, per conto dei palestinesi, da tre militanti romani del Collettivo di via dei Volsci, era stato scarcerato a metà dell’agosto 1980. L’informazione è certamente errata. Secondo la commissione Mitrokhin, Saleh fu scarcerato sì a metà del mese di agosto, ma del 1981. Le carte processuali parlano invece del 1982. Interpellati, i commissari della Mitrokhin spiegano che in effetti Saleh rimase tecnicamente in carcere fino all’82, ma sostengono che già dall’anno precedente il palestinese si trovava agli arresti domiciliari. I suoi coimputati italiani smentiscono e affermano che Saleh è rimasto in carcere sino al momento della definitiva liberazione.
In ogni caso è certo che Saleh non fu liberato il 14 agosto 1980, cioè meno di due settimane dopo la strage alla stazione di Bologna. Può sembrare un particolare: non lo è. L’ipotesi secondo cui l’arresto di Abu Saleh sarebbe legato alla strage di Bologna parte infatti dal patto segreto stretto tra le organizzazioni palestinesi e Aldo Moro, per il tramite del colonnello dei servizi segreti Stefano Giovannone, in base al quale i palestinesi potevano trasportare liberamente materiale bellico sul territorio italiano purché non lo adoperassero in Italia. L’arresto di Abu Saleh (e il sequestro del lanciamissili) costituivano una violazione di quel patto, e infatti il leader dell’Fplp George Habbash protestò vigorosamente, quasi minacciosamente, con il governo italiano invocando il rispetto degli accordi e reclamando sia la restituzione del lanciamissili che la liberazione di Abu Saleh. È ovvio che, in questo quadro, la liberazione del palestinese solo pochi giorni dopo la strage avrebbe costituito, pur senza alcun valore probatorio, un elemento a sostegno della cosiddetta pista palestinese. Di qui, anche a distanza di due anni, la necessità di correggere pubblicamente l’errore.
Approfitto però dell’occasione per fornire un chiarimento che mi pare necessario. «Storia nera», così come i molti articoli «innocentisti» scritti da me e da altri sul «manifesto» nel corso di circa quindici anni, non si proponeva di individuare i colpevoli della strage, ma solo di indicare chi colpevole non è, pur essendo per quella strage stato condannato. Mi sono pertanto limitato a elencare, nell’ultimo capitolo del libro, tutte le ipotesi che in questi decenni sono state avanzate, inclusa la «pista Saleh», senza minimamente prendere posizione a favore dell’una o dell’altra. In questo contesto, non parlare della succitata ipotesi sarebbe stato impossibile. O gravemente reticente.

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Abu Saleh e i lanciamissili di Ortona
da http://www.arabmonitor.info

Amman, marzo 2009 – Abu Saleh, cittadino giordano, ora imprenditore, nel 1979 viveva in Italia e studiava all’Università di Bologna. Il 7 novembre di trent’anni fa era ad Ortona: doveva imbarcare per il Libano due lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica destinati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, di cui faceva parte.
Abu Saleh si fece aiutare da Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, i quali, all’oscuro della natura del carico, si prestarono a portare ad Ortona la cassa contenente i lanciamissili. Vennero tutti arrestati e condannati. Da qualche tempo quell’episodio viene periodicamente rievocato in Italia per tentare di collegarlo all’attentato di Bologna del 2 agosto 1980 e cercare di capire che tipo di legami esistessero all’epoca tra gli apparati dei servizi di sicurezza italiani e la resistenza palestinese. Arabmonitor ne ha parlato con lo stesso Abu Saleh.
Si dice che negli anni Settanta-Ottanta ci fosse un’intesa tra le autorità italiane e le organizzazioni palestinesi, perché l’Italia venisse risparmiata da operazioni palestinesi in cambio del libero transito di armi via Italia destinate appunto ai palestinesi.
“Io posso dire che c’era effettivamente un accordo ed era tra l’Italia e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Fu raggiunto tramite il Sismi, di cui il colonnello Stefano Giovannone, a Beirut, era il garante. Non era un accordo scritto, ma un’intesa sulla parola. Lui ci aveva dato la sua parola d’onore, come dite voi, e noi gli abbiamo assicurato che non avremmo compiuto nessuna azione militare in Italia, perché l’Italia non rivestiva alcun interesse militare per il Fronte, e anche perché il popolo italiano era noto come amico dei palestinesi. In cambio Giovannone ci riconobbe, diciamo, delle facilitazioni in base alle quali si concedeva al Fronte la possibilità di trasportare materiale militare attraverso Italia. L’accordo fu fatto nei primi anni Settanta tra Giovannone e un esponente di primissimo piano del Fronte, il quale è tuttora presente sulla scena pubblica e non voglio nominarlo. Tutte le volte che c’era un trasporto, Giovannone veniva avvisato in anticipo. Non ci dava mai una risposta subito, ma dopo un paio di giorni. Penso che prima consultasse i vertici del Sismi (prima Sid) a Roma”.

Quando ha conosciuto Stefano Giovannone ?
Nel 1974 a Beirut. L’Ambasciata italiana di Beirut non mi aveva dato il visto ed è intervenuto lui. Io ero già in Italia dal 1970. Ero iscritto all’Università di Bologna a scienze politiche. Il primo visto mi fu concesso dall’Ambasciata italiana ad Amman. A Beirut dissero che non era possibile rinnovarlo, perché ero cittadino giordano e dovevo farne richiesta ad Amman, ma noi del Fronte abbandonammo la Giordania dopo il 1970. Quindi non potevo tornare. Allora il Fronte popolare si rivolse a Giovannone, il quale risolse il problema velocemente.

Che tipo di persona era ?
Mi disse subito al primo incontro “Qualsiasi cosa ti possa servire, anche dei soldi, chiamami. Mi diede anche il suo numero riservato a Roma, perché si alternava tra Beirut e Roma. Quando lo chiamavo a Roma, e non c’era, dovevo lasciar detto: “Ha chiamato Gianni”. Mi richiamava da lì a poco. Nel 1975 alla Questura di Bologna mi comunicarono che non potevano rinnovarmi il foglio di soggiorno, perché il mio passaporto giordano era scaduto. Allora lo chiamai. Sistemò tutto in poche ore. Era sempre molto cordiale, disponibile. Ricordo che in quel periodo, grazie a lui, ricevemmo due borse di studio presso Università italiane per i ragazzi del Fronte popolare. Penso che lui non avesse mai rinunciato in quegli anni all’idea di reclutarmi per i servizi segreti italiani. Non mi spiego altrimenti la frequenza con cui usava ripetermi a non esitare a chiamarlo se mi fossi trovato in difficoltà economiche. Questo, comunque, non avvenne mai. Non mi dimenticherò che per tutto il periodo che sono stato in carcere ha continuato a ripetere ai compagni del Fronte: ‘State tranquilli. Verrà rilasciato. Abbiate fiducia in me. Datemi solo un po’ di tempo’.

Lei fu contattato da Giovannone durante il rapimento Moro?
Giovannone mi chiamò a Bologna già all’indomani del sequestro. ‘Puoi venire a Roma?’, mi fece. Gli risposi: ‘Prendo il treno domani’. ‘No, vieni in aereo, oggi’. Mi aspettava già in aeroporto, e ricordo bene il suo discorso. ‘Ti ho chiamato nella speranza che tu possa aiutarmi. Io faccio questo personalmente, perché sono molto amico di Moro. Tu sai quanto Moro abbia a cuore i palestinesi. Ti chiedo di contattare i responsabili del Fronte popolare e domandare se hanno qualche notizia sul rapimento?’. Gli dissi subito che noi non abbiamo nessun legame con le Brigate Rosse e io personalmente non conosco proprio nessuno delle BR, ma che avrei subito contattato Beirut. Da Beirut mi fecero sapere: come Fronte non abbiamo il benché minimo collegamento con le Brigate Rosse.

Ci può raccontare quello che avvenne a Ortona il 7 novembre 1979?
C’erano due lanciamissili, giunti in Italia da fuori, che Daniele Pifano e altri nostri amici ritirarono senza sapere cosa contenesse la cassa in cui erano chiusi. A loro fu richiesto di trasportarla a Ortona. Giovannone venne avvisato a Beirut che c’era un carico in transito. Fu l’unico trasporto in cui venni coinvolto. I lanciamissili dovevano essere caricati su una nave libanese a Ortona, diretta in Libano. Sulla stessa nave volevo imbarcare un carico di vestiti, acquistati a Bologna. L’appuntamento con Pifano e gli altri era ad Ortona. Non ci siamo, però, incontrati per una serie di incredibili sfortunate coincidenze. Io ho fatto caricare la mia merce e la nave è partita. Non ho visto arrivare nessuno. Non ho potuto chiamare nessuno. I cellulari allora non esistevano. Sono quindi rientrato a Bologna tranquillo e all’oscuro di quello che fosse successo. Non ho visto nessun motivo per scappare nemmeno dopo aver appreso del loro arresto. Le circostanze le venni a conoscere solo più tardi, in carcere. Loro, arrivando a Ortona, vennero notati in centro da alcuni metronotte, i quali, allarmati, chiamarono i carabinieri, perché proprio quel giorno in città ci fu una rapina in banca e c’era parecchia tensione in giro. Dissero ai carabinieri che erano diretti al mare, volevano prendere un traghetto. Vennero identificati, ma siccome il collegamento con la centrale di Roma era fuori servizio, non riuscirono a capire subito chi fossero. Allora ordinarono a loro di seguirli alla locale stazione e attendere. Dopo alcune ore il collegamento venne ripristinato. I carabinieri scoprirono che avevano a che fare con esponenti dell’Autonomia romana. Il furgone, già controllato in precedenza, venne nuovamente perquisito. Saltò fuori la cassa. Loro dissero che si trattava di cannocchiali che volevano usare durante la gita in mare.

Lei fu arrestato quando?
I carabinieri trovarono su uno di loro un foglietto con il mio numero di telefono a Bologna. Se ricordo bene, sei giorni dopo ero in giro per Bologna con degli ospiti sauditi, venuti per acquistare dei mobili. All’uscita da un’agenzia di viaggi, dove abbiamo prenotato il loro volo di ritorno, degli agenti in borghese ci circondarono, chiedendoci i documenti. Dopo il controllo, mi dissero ‘Tu vieni con noi’. I sauditi vennero lasciati subito. Perquisirono la mia abitazione in Via delle Tovaglie 33 e mi dissero ‘Trovati subito un avvocato’. Sotto di me c’era uno studio legale, andai a chiamare uno di loro. Ricordo che i carabinieri presero solo l’agenda telefonica. Al termine, mi caricarono in macchina e venni portato a Chieti al comando dei carabinieri. Mi chiusero in una stanza. Qualche ora dopo si presentò un alto ufficiale. Non mi disse il suo nome, ma penso che fosse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La mia è un’ipotesi. Vedendo la sua foto sui giornali successivamente, ho pensato che fosse stato proprio lui. Gli assomigliava molto. Mi interrogò e dopo mi disse ‘Ti faccio uscire subito da qui attraverso la porta sul retro se mi dici che i lanciamissili sono per gli autonomi. Tu sei straniero. Da te non voglio nulla. Ti diamo quello che vuoi, cittadinanza, soldi, ma devi dire che le armi sono per loro’. Gli risposi che non sapevo nulla di cui stesse parlando. Replicò secco: ‘Pensaci’, e se ne andò. Per tre giorni sono stato picchiato praticamente di continuo. Mi hanno sempre tenuto nudo, abbandonandomi su una tavola di legno, su cui mi lasciavano dormire un po’. Ricordo che mi è venuta una febbre molto alta. Allora mi hanno portato al carcere di Chieti, dove ho ricevuto le prime cure mediche.

Lei in quegli anni era il responsabile del Fronte popolare in Italia?
Assolutamente no. Ero uno dei membri del Fronte presenti in Italia.

Al processo fu condannato per il trasporto di armi.
Mi condannarono a sette anni, come tutti gli altri. Il processo fu celebrato per direttissima, dopo 40 giorni, nel gennaio 1980. Mio fratello, che stava in Italia, venne a trovarmi in carcere e mi disse che sarei stato rilasciato prima del processo, perché il Fronte ha ricevuto assicurazioni in tal senso, penso da Giovannone. Mi raccontò di un avvocato che da Beirut si era recato a Roma, verso la fine di dicembre, per degli incontri con alcuni rappresentanti italiani, forse lo stesso Giovannone. Comunque, io restai in carcere e al processo venni condannato.

Lei fu tuttavia l’unico a ottenere la libertà anticipata, già nel 1981.
Penso che sia stato Giovannone a intervenire per ottenere la mia scarcerazione per scadenza dei termini. Era in corso il processo di secondo grado all’Aquila e il mio avvocato non aderì alla richiesta di rinvio del dibattimento (giugno 1981) come fecero gli altri. Così il 14 agosto 1981 scattò la scadenza dei termini. Ricordo molto bene quel giorno, perché stavamo organizzando una festa per il mio compleanno, che è il 15, chiedendo del vino e dei dolci. Verso le undici di mattina mi convocano in direzione e mi comunicano che c’è il mandato di scarcerazione. Ricordo che chiesi di poter restare un altro giorno per festeggiare il compleanno coi compagni, ma rifiutarono. Uscito da Rebibbia, restai a Roma per qualche giorno con l’obbligo della firma e quindi tornai a Bologna.

Durante la detenzione non è mai stato interrogato in relazione a qualche altro fatto avvenuto in quegli anni?

Sì, ricordo un episodio curioso. E’ venuto Domenico Sica a interrogarmi. Ero appena stato trasferito da Trani a Regina Coeli. Mi chiese se conoscessi Ali Agca? Quando gli feci ‘E’ una nuova accusa?’, mi rispose ‘Non pensarci nemmeno, è solo per capire.Vedi che non scrivo nulla’.

Ha, poi, completato gli studi a Bologna?
Sì, nel luglio 1983. Lo stesso mese ho lasciato l’Italia, partendo da Fiumicino per il Medio Oriente. Nemer Hammad (allora ambasciatore palestinese a Roma) mi disse già poco dopo la mia scarcerazione ‘Ti consiglio di partire il più presto che puoi. Quando vuoi andare, le autorità italiane chiuderanno un occhio”. Così è stato. Non sono più tornato.

Ci sono persone in Italia che mettono in relazione il suo caso con la bomba alla stazione di Bologna, sostenendo che il suo mancato rilascio, tra la fine del 1979 e la prima metà del 1980, spinse i palestinesi, cioè il Fronte popolare, a organizzare l’attentato.
Io seppi dell’attentato in carcere e posso dirle che ero più dispiaciuto degli stessi italiani. Ho vissuto molti anni a Bologna e ho conosciuto personalmente delle gente meravigliosa. Noi come palestinesi abbiamo ricevuto molta solidarietà e il Fronte popolare ha avuto molti aiuti dal popolo italiano. Mi meraviglio che si voglia ignorare la verità soprattutto quando a sostenere queste falsità sono delle personalità che avevano accesso a numerose informazioni, anche riservate. Smentisco nel modo più assoluto che prima dell’attentato ci fossero delle tensioni tra l’Italia e il Fronte popolare per via del mio caso. Giovannone era rimasto per tutto il tempo in contatto con i nostri responsabili a Beirut, tranquillizzandoli e ripetendo ‘Bisogna ridurre l’intensità della fiamma per poter spegnere il fuoco’. Cercare di accreditare la tesi che la mia detenzione abbia spinto il Fronte popolare a una rappresaglia, è una menzogna colossale. Si tratta di un tentativo di riscrivere la storia.

In un’intervista concessa tempo fa a un autorevole quotidiano italiano, Bassam Abu Sharif sostiene che il Fronte popolare di tanto in tanto forniva aiuto a piccoli militanti, “non gente importante”, delle Brigate Rosse che stavano scappando, e racconta che il colonnello Giovannone veniva a protestare da lui per questo.
Vede, Bassam Abu Sharif negli anni Settanta era semplicemente uno dei responsabili del settore dell’informazione al Fronte popolare. Non aveva nessun potere decisionale, né responsabilità operative. Non poteva avere rapporti con i servizi segreti italiani. Sfido Abu Sharif a dimostrare di aver incontrato il colonnello Giovannone per un colloquio anche una volta sola o di aver fornito documenti a gente delle Br in fuga dall’Italia. Sarà l’effetto dei lunghi anni trascorsi. La memoria che inganna o il desiderio di apparire più di quello che si era.

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Strage di Bologna, l’ultimo depistaggio

Parla Thomas Kram, indagato in Germania per le “Cellule rivoluzionarie”, sospettato dalla commissione Mitrokhin perché era Bologna il 2 agosto 1980: “Ecco perché non posso aver messo io la bomba”

Guido Ambrosino
il manifesto 1 agosto 2007

Berlino – “Devo deludere i segugi della commissione Mitrokhin, che mi sospettano di aver messo, per conto dei palestinesi, la bomba alla stazione. Ero a Bologna, ma questo è tutto. Quando mi diressi verso la stazione per prendere un treno per Firenze, il piazzale era già invaso dai mezzi di soccorso. Ricordo lo sgomento della gente, l’urlo delle sirene”. È Thomas Kram a parlare, per la prima volta con un giornalista da quando, nel dicembre 2006, si è consegnato alla magistratura tedesca.
Si era sottratto all’arresto per 19 anni. Lo cercavano dal 1987 per partecipazione alle Revolutionäre Zellen (Rz), che praticarono negli anni ’70 e ’80 una guerriglia fatta di sabotaggi e danneggiamenti incruenti, con tre sciagurate eccezioni: tre uomini colpiti alle gambe. Uno di loro, Karry, ministro dell’economia in Assia, morì dissanguato. Prescritto il primo mandato di cattura, nel 2000 ne arrivò un secondo, per un ruolo “dirigente” nelle Rz, senza addebiti specifici.
Kram è a Berlino, in libertà provvisoria. A luglio la procura federale ha chiesto il rinvio a giudizio. Un “testimone della corona”, che ammette di non conoscerlo, ne avrebbe sentito parlare come autore di documenti politici delle Rz. Kram, in attesa del processo, non si pronuncia sulla sua appartenenza alle Cellule rivoluzionarie. Vuole però dire la sua su Bologna.

Il polverone Mitrokhin
“Ho scoperto su internet che la bomba potrei averla messa io. Un’assurdità, sostenuta addirittura da una commissione d’inchiesta del parlamento italiano, o meglio dalla sua maggioranza di centrodestra, nel dicembre 2004. Deputati di An, e altri critici delle sentenze che hanno condannato per quella strage i neofascisti Fioravanti e Mambro, rimproverano agli inquirenti di non aver indagato sulla mia presenza a Bologna”. Per Kram è una polemica pretestuosa: “Non sono io il mistero da svelare. Non lo credono nemmeno i commissari di minoranza della Mitrokhin. Viaggiavo con documenti autentici. La polizia italiana mi controllava. Sapeva in che albergo avevo dormito a Bologna. Il giorno prima mi aveva fermato a Chiasso. Come corriere per una bomba non ero proprio adatto”.
La commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin, si occupò nella scorsa legislatura delle attività del Kgb in Italia, e di varie mitologie sul terrorismo. Nelle conclusioni di maggioranza c’è un capitolo su “Thomas Kram e la strage alla stazione di Bologna”.
Vi si ipotizza una “ritorsione” per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), in seguito al sequestro a Ortona di due missili terra-aria diretti in Libano. La rappresaglia sarebbe stata appaltata a Carlos. Possibili esecutori Thomas Kram e Christa Fröhlich.
Senonché Kram non è mai stato sospettato dalla magistratura tedesca di appartenere al gruppo Carlos. Fröhlich, indagata ma mai condannata per aver fatto parte di quel gruppo, a Bologna proprio non c’era. “Delle due l’una – obietta Kram: se mi si accusa di aver fatto parte delle Cellule rivoluzionarie, che hanno rifiutato il terrorismo indiscriminato, non mi si può sospettare di avere ucciso 85 persone a Bologna. Quella strage, quali ne siano gli autori, resta per me ‘fascista’, per il disprezzo della vita che esprime. Quella di cinque settimane dopo all’Oktoberfest di Monaco porta la stessa firma”.

Carte segrete
Già la premessa del teorema è illogica. Il Fplp, tanto più dopo l'”incidente” di Ortona, non aveva alcun interesse a una guerra aperta con l’Italia.
Né regge il “legame” tra Carlos e Kram. I mitrokhisti si appoggiano a un rapporto della Stasi, conosciuto tramite un resoconto della polizia francese, che descriverebbe Kram come membro del gruppo Carlos. E i servizi ungheresi segnalano un incontro a Budapest, il 27 ottobre 1980, tra Carlos, “Laszlo” (forse Kram) e “Heidi” (forse Fröhlich). Ma per gli ungheresi Kram non apparteneva al gruppo Carlos, a differenza di quanto invece affermano per Johannes Weinrich, Magdalena Kopp e Christa Fröhlich.
La Stasi può sbagliare. Sappiamo – da documenti delle Rz, resoconti di militanti, carte processuali – che all’inizio le Rz ebbero contatti con il Fplp e Carlos. Sappiamo però anche che dopo Entebbe, dove nel 1976 morirono tra i dirottatori di un aereo due militanti delle Rz, quei contatti si interruppero. Ne seguì nel 1977 una scissione. Gli “internazionalisti” attorno a Weinrich abbandonarono le Rz, per unirsi a Carlos.
Non si può escludere che ci siano stati ancora incontri, come quello di Budapest, registrato dagli ungheresi. È un peccato che non se ne trovi la trascrizione, perché ci si può incontrare anche per litigare.

Un viaggio in Italia

Agosto, tempo di vacanze. Kram voleva rivedere amici conosciuti a Perugia, dove aveva frequentato due corsi d’italiano, dal settembre al dicembre 1979, e dal gennaio al marzo 1980. “A Milano mi aveva invitato un’austriaca, che lì insegnava tedesco. Avrei pernottato da lei e il giorno dopo avrei proseguito per Firenze”.
“Arrivato a Chiasso il primo agosto ‘alle ore 12,08 legali’, come apprendo dalle note della polizia riportate dalla relazione di minoranza della Mitrokhin, mi fecero scendere dal treno. Dovevano avere avuto una segnalazione dalla Germania”. Sin dal novembre 1979, quando soggiornava a Perugia, Kram era sorvegliato in Italia su richiesta del Bundeskriminalamt, che lo sospettava di favoreggiamento delle Cellule rivoluzionarie.
“Mi trattenero per ore. Mi sequestrarono una lettera dell’amica, che spiega il motivo del viaggio. L’appuntamento con lei a Milano saltò. Non riusciì a rintracciarla. Ripresi il treno per Firenze, ma lì sarei arrivato troppo tardi per trovare un albergo. Decisi di fermarmi a Bologna”.
All’albergo Centrale, in via della Zecca 2, è registrato l’arrivo. Su una piantina di Bologna, Kram ricostruisce il percorso del giorno dopo: “Mi svegliai tardi, feci colazione in qualche caffè vicino Piazza Maggiore. Poi mi incamminai verso la stazione su una grande strada, forse via dell’Indipendenza. Le sirene tranciavano l’aria. Da lontano vidi sul piazzale della stazione il lampeggiare di ambulanze e mezzi dei pompieri. Si capiva che era successo qualcosa di grave”.
“Non mi avvicinai. Dopo l’esperienza del giorno prima a Chiasso non volevo incappare in nuovi controlli di polizia. Un taxi mi portò alla stazione delle autocorriere. A Firenze arrivai in pullman. Rimasi forse quattro, cinque giorni. Poi tornai in Germania”.

Sette mesi a Perugia
Nato a Berlino il 18 luglio 1948, Kram ha 59 anni. Alto, magro, capelli grigi e occhiali, potrebbe sembrare un insegnante. Non ha mai potuto esserlo. “Ho studiato pedagogia a Berlino, ma sono incappato nel Berufsverbot. Willy Brandt nel 1972 escluse dal pubblico impiego chi non desse garanzie di lealtà alla costituzione. Nel mio caso bastò un corteo ‘sedizioso’ contro la guerra in Vietnam, e il danneggiamento di un cartello stradale: avevo ribattezzato la Wittenbergplatz in ‘Sentiero Ho Chi Minh’. In Nordreno-Vestfalia mi accettarono per il tirocinio. Ma nemmeno lì fui assunto. Nel 1974 subentrai a Johannes Weinrich nella gestione della ‘Libreria politica’ a Bochum”. La colleganza libraria con Weinrich, che qualche anno dopo si unì a Carlos, alimentò poi i sospetti nei confronti di Kram.
Nel ’76 Kram fu incarcerato per una settimana per la diffusione di scritti che “incitavano alla violenza”. La libreria nel ’78 non poteva più pagargli uno stipendio. L’ufficio del lavoro gli finanziò un impiego in un centro della Gioventù cattolica, come educatore. Ma Kram continuava a sentirsi controllato dalla polizia e aveva voglia di cambiare aria. Disdisse la casa di Bochum, vendette l’auto, e con quei soldi si iscrisse al corso d’italiano a Perugia.
“Anche la polizia italiana mi teneva d’occhio. Perquisirono l’appartamento che dividevo con altri studenti. Mi ammonirono perché non avevo chiesto il permesso di soggiorno. Me lo concessero solo fino al marzo 1980, al termine dei corsi”. In primavera Kram torna in Germania, da amici a Duisburg. Da lì riparte per il breve viaggio che lo porterà anche a Bologna.

I fantasmi di Carlos
Su internet Kram si è imbattuto in due interviste rilasciate da Carlos. La prima, del 2000 a Il Messaggero, accenna a “un compagno” che, braccato dalla polizia, salta giù dal treno a Bologna pochi minuti prima che scoppiasse la bomba: “Ci chiedemmo se non fosse lui che doveva morire in quell’esplosione”.
Sull’argomento Carlos tornò nel 2005 sul Corriere della sera, che lo interpella sulla “pista” scovata dalla Mitrokhin. Si rifà a un “rapporto scritto”, ricevuto dopo la strage: “Il rapporto dice che un compagno tedesco era uscito dalla stazione pochi istanti prima dell’esplosione. Ho ricordato il suo nome leggendo il Corriere: Thomas Kram, era un insegnante comunista di Bochum, rifugiato a Perugia. Il giorno prima della strage era a Roma, pedinato da agenti segreti che lo seguirono anche sul treno per Bologna. Kram aveva solo un sacchetto di plastica con oggetti personali, ma se fosse morto nell’attentato sarebbe stato facile attribuirgli ogni colpa”. L’intervistatore insiste: “Kram era un suo uomo?”. Risposta: “Kram non è mai stato membro della nostra organizzazione”.
“L’unica cosa giusta che dice Carlos – commenta Kram – è che non ho mai fatto parte del suo gruppo, altrimenti non avrebbe avuto bisogno di resoconti di terza mano. Ricorda il mio nome leggendo i giornali. Non arrivai a Bologna ‘pochi minuti prima dell’esplosione’. Venivo da Milano e non avevo motivo di saltare dal treno in corsa. Avevo non so più se una borsa o una valigia, perquisita a Chiasso. Né potevo essere una vittima ‘predestinata’: nemmeno io sapevo, fino alla sera del primo agosto, che mi sarei fermato a Bologna, e non a Milano”.

Storie nere
La “nuova ipotesi” tedesco-palestinese viene riproposta nel libro di Andrea Colombo, Storia nera. Bologna, la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Scrive Colombo, per molti anni redattore de il manifesto: “È necessario esaminarla in tutti i suoi dettagli non solo perché è la più recente tra le ‘piste alternative’, ma anche per il fatto che è forse l’unica che possa ancora essere approfondita”.
L’approfondimento di Colombo si riduce a un paio di forzature. Di Kram si dice che “la sua attività di terrorista” era stata segnalata sin dall’agosto 1977. Ribatte Kram: “Le segnalazioni si riferivano a sospetti di favoreggiamento. Il primo mandato di cattura per le Rz è del dicembre 1987”.
Scrive ancora Colombo: “Dopo 27 anni di latitanza Kram si è costituito nel dicembre 2006”. Replica Kram: “Se la latitanza fosse durata tanto, sarebbe iniziata nel dicembre 1979, quando ero a Perugia. Chi scrive nel 2007 vuole suggerire una mia fuga a ridosso della bomba di Bologna. Mi sono reso irreperibile sette anni dopo. È un errore che Colombo dovrebbe rettificare”.
Tra l’80 e l’87 Thomas Kram è stato sempre reperibile. A Duisburg ha lavorato dal febbraio 1981 al febbraio 1982 in uno studio legale. Poi, a Essen, ha frequentato un corso di informatica dal gennaio 1984 al giugno 1985. Nel 1986 gli fu offerto un lavoro in quel settore a Amburgo, e vi si traferì.

Christa Fröhlich
I detektiv della Mitrokhin sembrano credere che a Bologna ci fosse anche Christa Fröhlich. Fu fermata a Fiumicino il 18 giugno 1982, con 3,5 chili di esplosivo nella valigia. La stampa pubblicò la sua foto. Un cameriere dell’hotel Jolly vi ravvisò una “certa somiglianza” con una donna vista quasi due anni prima: parlava italiano con accento tedesco, il primo agosto si era fatta portare una valigia alla stazione, il 2 agosto telefonò per accertarsi che i suoi due figli non fossero sul treno investito dalla bomba, aveva lavorato come ballerina nei pressi di Bologna.
Christa Fröhlich ha ora 64 anni, insegna tedesco a Hannover. Confrontata con questa descrizione, non sa se ridere o piangere: “Non ero a Bologna. Non ho figli. Mai un ingaggio da ballerina. E nel 1980 non sapevo una parola di italiano”.
L’ha imparato dopo, in carcere, dove ha scontato fino al dicembre 1988 la pena per quel trasporto di esplosivo, senza rivelare a chi fosse destinato. Tornata a Hannover, sposò per procura un detenuto delle Brigate rosse. In Germania fu indagata per gli attentati in Francia del gruppo Carlos, ma l’inchiesta fu archiviata. La magistratura francese continuò a sospettarla per l’attentato del 22 aprile 1982 a Parigi, contro il settimanale Watan al Arabi. Nell’ottobre 1995 approfittò di una sua visita al marito per farla arrestare a Roma e estradare. In assenza di prove, la rilasciarono quattro anni dopo, termine massimo per la carcerazione preventiva.
I commissari di minoranza constatano che, già nell’ottobre 1982, gli accertamenti sul fantomatico avvistamento della Fröhlich a Bologna “ebbero esito negativo”. Perché riproporre quell’abbaglio come “nuova” pista?

Rogatoria internazionale
Neanche i parlamentari di An insistono più sulla ballerina-mamma-terrorista. Interpellano però il ministro della giustizia per sapere perché la procura di Bologna non ha ancora interrogato Kram. Abbiamo girato la domanda al sostituto procuratore Paolo Giovagnoli: “A febbraio, con una rogatoria internazionale, abbiamo chiesto alla procura federale di Karlsruhe di poter interrogare Thomas Kram. A fine giugno ho incontrato una collega tedesca per chiarire alcuni aspetti organizzativi. Ci sono molte carte da tradurre. Ci vorrà ancora qualche mese”. Kram non ha nulla in contrario a essere ascoltato su Bologna. Non servirà a spiegare cosa è successo alla stazione, ma forse a cestinare l’ultimo depistaggio.

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