Romiti: «A Marchionne dico: Operai e azienda? La contrapposizione di interessi ci sarà sempre»

L’intervista – L’ex amministratore delegato: bisogna imparare dal passato. L’Italia ha visto situazioni tragiche ed è riuscita a superarl. I sindacati? Li puoi battere, non dividere. Durante le vertenze anche le tensioni vanno governate

Il partito invisibile di Mirafiori interviene in Fiat

Aldo Cazzullo
Corriere della sera
28 agosto 2010

«Sa qual è la prima cosa che mi è venuta in mente, ascoltando l’intervento di Sergio Marchionne al Meeting di Rimini?». No, dottor Romiti. Ce la dica. «Ho pensato a quando, due mesi fa, vidi Raffaele Bonanni in tv, intervistato a “In mezz’ora”, su RaiTre. Lucia Annunziata gli chiese: “Scusi, lei preferisce Romiti o Marchionne?”. Lui, un po’ imbarazzato, rispose: Marchionne. Il giorno dopo gli telefonai. Bonanni, decisamente imbarazzato, pensava volessi lamentarmi. Invece gli dissi: “Non si preoccupi, ci mancherebbe altro che uno non possa esprimere le sue opinioni. Vorrei solo capire le ragioni per cui ha risposto in quella maniera”. Bonanni, sempre più imbarazzato, disse che non si aspettava la domanda della giornalista. Chiusi la conversazione ricordandogli che i giudizi vanno dati nel lungo termine, in base ai risultati…».

Dottor Romiti, da quando nel ’98 lasciò la Fiat lei non ha mai parlato dei suoi successori né dell’azienda. Che cosa non le è piaciuto dell’intervento di Marchionne?
«Marchionne ha fatto bene a parlare del presente e del futuro. Ma le cose di oggi esistono perché c’è stato il passato. Del passato non s’è parlato. O, meglio, si è parlato delle presenze internazionali della Fiat come di realizzazioni nuove, anche là dove si tratta di fatti acquisiti».

A cosa si riferisce?
«Al Brasile. Agli Stati Uniti, per quanto riguarda le macchine movimento terra e i trattori. Alla Cina. Quando arrivai, nel ’74, il Brasile era sguarnito: vi si era insediata la Volkswagen. La Fiat, con Peccei, aveva puntato sull’Argentina: una tragedia. Smobilitai l’Argentina e riorganizzai ex novo la nostra presenza in Brasile, dove nacque uno dei principali stabilimenti Fiat, da cui sono sempre venuti forti utili».

Ci sono altri temi su cui Marchionne non la convince?
«Sì. Quando tratteggia un futuro in cui non esiste la lotta di classe. Ora, guai se mancasse non dico la lotta, ma la contrapposizione degli interessi. Sarebbe un guaio che non finisce mai. Un conto è trovare la formula per ricomporre la contrapposizione, come in Germania, con la partecipazione dei lavoratori ai risultati dell’impresa. Ma la contrapposizione degli interessi ci sarà sempre, ed è un bene che ci sia».

Marchionne chiede un nuovo patto sociale.
«Ecco il punto principale. Vede, la situazione che affrontammo noi nel 1980 era un po’ più complicata di quella di oggi. Oggi per fortuna non scorre il sangue. Allora scorreva il sangue. Ci ammazzarono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno, e il responsabile della pianificazione, Carlo Ghiglieno. Le Br ci azzoppavano un caposquadra ogni settimana. Di fronte avevamo leader sindacali che si chiamavano Lama, Carniti, Benvenuto, Bertinotti; non voglio fare paragoni con quelli di oggi, ma diciamo che erano leader di un certo calibro. Eppure noi non ci siamo mai sognati di dividere il sindacato, o anche solo di provarci. Il sindacato lo puoi battere, non dividere. Dividere il sindacato è un errore grave, perché il sindacato escluso ti tormenterà nelle fabbriche; a maggior ragione se è il sindacato più grande. Ed è proprio quel che sta accadendo».

Guardi che la Fiat ha tentato a lungo di raggiungere un accordo con la Cgil e la Fiom.
«Il rapporto tra azienda e sindacato è un rapporto dialettico. È sbagliato rinunciare a parlarsi, cercare accordi separati, lasciar fuori qualcuno».

Marchionne dice di essere disposto a incontrare Epifani.
«Ma intanto elogia gli altri due leader sindacali, chiamandoli pure per nome, tra gli applausi. Mi pare un crinale pericoloso. Nel momento in cui sarebbe meglio placare le divisioni, le si alimenta. Mi auguro sinceramente che tutto si risolva bene per la Fiat, ma la situazione è delicata. Anche perché ogni sindacato è da sempre legato a un partito, o comunque a posizioni politiche, pro o contro il governo. Anche per questo dividere il sindacato porta sempre svantaggi».

Marchionne ha ricordato di aver trovato nel 2004 una Fiat sull’orlo del fallimento. Non è forse così?
«La storia della Fiat è legata a grandi cicli e a brevi periodi di gravi difficoltà. Dopo il grande ciclo di Valletta, ci furono cinque o sei anni neri. Poi c’è stato il ciclo tra il 1974 e il 1998, in cui sconfiggemmo il sindacato, battemmo le Brigate rosse, riportammo l’ordine in fabbrica. Nel ’98 lasciai la Fiat in condizioni ottime. Sono seguiti sei anni di interregno, in cui morirono prima l’Avvocato e poi Umberto Agnelli, mentre si susseguivano amministratori delegati che non davano buoni frutti. Ora mi auguro davvero che si apra un nuovo ciclo virtuoso. Dico solo che la teoria della pacificazione generale e la divisione del sindacato non mi sembrano le premesse giuste. Anzi, sono le premesse che hanno creato il caso Melfi».

Che idea si è fatto della vicenda dei tre operai?
«Quella notte a Melfi è accaduto quel che accade da sempre in caso di sciopero. L’ostruzionismo c’è stato. Il licenziamento dei tre può anche essere legittimo, per quanto due di loro siano sindacalisti. Ma io non avrei acuito la tensione. Se il tribunale decide per il reintegro, si prepara l’appello, e intanto si rispetta la sentenza. Lo scontro va rabbonito, non eccitato».

Lei andò allo scontro con i sessantuno licenziamenti del 1979.
«Come si fa a paragonare la Mirafiori del 1979 con la Melfi del 2010? A Torino avevamo decine di migliaia di operai, un partito comunista fortissimo, il terrorismo nelle fabbriche. Melfi è sempre stata una fabbrica tranquilla, ideale. Le sono particolarmente affezionato perché l’ho voluta io. E ricordo ancora la gioia con cui, quando gli telefonai, reagì il sindaco, al pensiero dei concittadini che avrebbero avuto un’opportunità di lavoro. Gente particolarmente adatta: seria, affidabile. Noi decidemmo di licenziare i sessantuno dopo che le nuove cabine della verniciatura, fatte secondo le norme, vennero subito sabotate. E non tenemmo all’oscuro il sindacato, anzi, avvertii Lama, Carniti e Benvenuto. Dissi: “Vi comunico che faremo questi licenziamenti. Non chiedo il vostro assenso. Vi chiedo però di non fare causa, perché lo facciamo anche nel vostro interesse, visto che questi sono violenti: terroristi o contigui al terrorismo”. Fecero causa lo stesso, e venne fuori che una buona parte dei sessantuno erano legati all’eversione armata. Altro che i tre di Melfi».

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Perché a Romiti non piace il capitalismo di Marchionne

Quando Marchionne criticava l’arida ricerca del profitto del capitalismo anglosassone…

Ferruccio de Bortoli
Il Sole 24 ore 25 settembre 2007

Gli anni della grande paura borghese

Cesare Romiti non ama i pullover. «Continuo a portare la cravatta, quella non me la tolgo di sicuro». L’ex amministratore delegato e presidente della Fiat, 84 anni, si toglie invece qualche sassolino dalla scarpa dopo aver letto, domenica sul Corriere della Sera, l’intervento del suo successore alla guida della Fiat, pronunciato al convegno pugliese della rivista prodiana “L’Industria”. Un discorso molto applaudito, soprattutto a sinistra. «Una società liberale che vuole durare nel tempo – sostiene Sergio Marchionne, 55 anni – deve difendere chi è colpito dal cambiamento».
L’artefice della rinascita del gruppo torinese critica l’arida ricerca del profitto del capitalismo anglosassone, rivaluta le virtù del welfare europeo, rilancia il dialogo con i sindacati, ma non manca di sottolineare l’importanza del mercato, la centralità del merito, dell’efficienza e della competitività. Piero Fassino intravede nel manifesto di Marchionne una forte impronta riformista e socialdemocratica, quasi un nuovo modello capitalista. «Sono pronto ad allearmi con lui».
Nella sua casa milanese, Romiti scuote il capo e premette di avere una grande stima di Marchionne, ma di non aver digerito affatto alcuni passaggi di quell’intervento, in particolare quando, parafrasando Dickens, si dice che la Fiat «sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia fatto, sta andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai stata». Come se chi fosse venuto prima di Marchionne possa essere paragonato al perfido Fagin o al triste Sower di Oliver Twist.
No, argomenta con calma Romiti: la storia della Fiat, ma di qualsiasi altra grande impresa, va giudicata tenendo conto del contesto politico e sociale del tempo. Se questo, forse, è un capitalismo più avanzato, quello di prima non era né reazionario né insensibile ai temi sociali. Non c’è un modello buono e uno cattivo.
«Non dimentichiamoci che cos’era l’Italia della fine degli anni 70: scioperi, conflittualità e la minaccia del terrorismo». Marchionne cita, nel suo intervento, Mel Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini, gli uomini seguono il coraggio». E quanto coraggio, dice Romiti, bisognava avere negli anni in cui cadevano Ghiglieno e Casalegno? Quando vivevamo sotto scorta e ogni giorno qualcuno veniva gambizzato? Era quello un capitalismo cattivo e pavido? Che cosa sarebbe oggi la Fiat, ma anche il Paese, se non vi fosse stata la marcia dei quarantamila e, prima, il licenziamento di quei 61 dipendenti, fra i quali vi erano molti sospetti collusi con la lotta armata?
I ricordi si moltiplicano, anzi si affollano. «Gli anni del terrore furono anni terribili, durante i quali fare impresa, andare in ufficio o in fabbrica ogni giorno equivaleva a compiere un atto di coraggio civile che metteva a repentaglio la vita propria e dei propri collaboratori». Romiti parla di Ghidella, Callieri, Mattioli, Annibaldi. «E Guido Rossa? Io stesso fui oggetto di un tentativo di sequestro. Ma lasciamo perdere».
Gli anni passano, dottor Romiti, e qualche errore lo fece anche lei, lo ammetta. «Sì, ma la crisi della Fiat è stata il risultato di una serie di decisioni sbagliate, e di persone sbagliate. Soprattutto dopo il ’98, da quando lasciai la presidenza. Marchionne è stato bravo, lo riconosco. Ma il dialogo con il sindacato lo avevamo anche noi, aprivamo asili, colonie per i figli dei dipendenti, case, servizi». Insomma, Romiti non lo dice, ma trova molto ingeneroso il silenzio di Marchionne sugli anni difficili della Fiat. «Gli scioperi dopo la marcia dei quarantamila nell’80 finirono. Non se lo ricorda più nessuno. Ora non ci sono più? Sono contento, anche se mi sembra che a Termini Imerese qualche sciopero ci sia stato ancora, recentemente». La Fiat di Romiti diversificò le proprie attività, con successo. La Fiat di Marchionne si concentra sull’auto. Con successo.«Bene, ma allora perché non cede la partecipazione in Rcs, visto che è cambiato il modello di capitalismo?».
Ma il successo è innegabile o no? Romiti, alla fine, a mezza voce esprime qualche dubbio persino sul fatto che la ripresa di Torino sia così forte e stabile come appare e come testimonia la quotazione in Borsa. E poi ci sono le stock option, che proprio non gli vanno giù. Qualcuno ha fatto il calcolo, sostiene, di quanti secoli deve lavorare un dipendente Fiat per mettere insieme l’ammontare degli emolumenti del proprio amministratore delegato? «Una volta il rapporto fra quanto guadagnava un top manager e un dipendente era molto inferiore». Sì, ma la sua liquidazione, dottor Romiti, fu di diverse decine di miliardi. «Così si stabilì con l’Avvocato, ma le stock option condizionano giornalmente le scelte del manager. Non sempre quello che va bene per lui va bene per l’azienda». La conversazione termina ancora sul pullover. «Ho letto che poi se lo è messo anche Prodi…». Il cronista traduce non autorizzato: stia attento Marchionne, straniero in Patria, a non indossare, senza volerlo, oltre un pullover, una casacca.

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Maggiordomi Fiat, quando Piero Fassino si dichiarava alleato di Marchionne

Era il 2007 e l’entrata di Marchionne in Fiat affascinava la sinistra. Addirittura il solito Piero Fassino riconoscendo in lui la stoffa di un vero «socialdemocratico», si dichiarava: pronto ad allearsi con Marchionne»…

Franco Debenedetti
Sole 24ore, 25 settembre 2007

Dato che si impara anche dai successi, la storia dello spettacolare turn around della Fiat di Sergio Marchionne, oltre che oggetto di compiacimento, ammirazione e soddisfazione, diventerà oggetto di studio. È giusto che egli ci ricordi quanto giochi, in ogni storia industriale di successo, la componente schumpeteriana, le culture di origine o di elezione, Machiavelli o Dickens. Un imprenditore deve tener conto del “terreno culturale” in cui opera, quello che Marchionne chiama, con qualche generosità, di “forte responsabilità sociale”. Non piccola parte del suo successo è dovuta all’aver riconosciuto che, tra i tanti problemi che ha trovato in Fiat, i temi “sensibili” – emblematicamente Termini Imerese e Mirafiori – non erano prioritari: e potevano essere diversamente risolti.
Proprio perché ogni storia di rilancio è anche una “storia di trasformazione personale” di chi la realizza, nessuna caratteristica individuale, nessun tipo di capitalismo sono dati a priori come vincenti. E invece i resoconti della giornata e i commenti del giorno dopo testimoniano dell’incapacità del mondo politico di leggere correttamente la lezione del manager Fiat, e di resistere alla tentazione di generalizzare e di appropriarsi di una quota del merito che solo è suo.
La spesa sociale pubblica, ha detto Marchionne, in Europa è del 27%, in Usa è del 16. Tanto è bastato perché il “mondo accademico filo cattolico” radunato a Mattinata esprimesse consenso a quella che parve fosse una critica al modello americano (così Roberto Bagnoli sul Corriere della Sera). Ma era proprio una critica? Egli sa bene che questo divario si ha anche perché l’onere previdenziale sta nei bilanci delle aziende americane, nel caso della General Motors facendola vacillare più della concorrenza giapponese. Lo crediamo quando dice che a lui è stato più facile trattare sui livelli occupazionali con i sindacati italiani di quanto lo sarebbe per General Motors con Uaw: ma in Usa è possibile avere contratti aziendali che escludono la presenza di sindacati, anzi così succede in molte aziende del Gruppo Fiat in America. Invece in Italia vige l’erga omnes e si rincorre sempre l’obbiettivo di differenziare e di fare della contrattazione aziendale il luogo dove si misura la produttività e si riconosce il merito. Per la flessibilità in uscita, le grandi aziende, e la Fiat in particolare, sanno di poter contare su strumenti di mobilità anche generosi. Per le piccole e medie aziende invece, e non solo per i commentatori anglosassoni, la nostra struttura del lavoro è poco flessibile. Anche per loro i problemi si chiamano una burocrazia che “non fa che alimentare se stessa”, la carenza “di una rete di infrastrutture efficiente e moderna”, “la riduzione della pressione fiscale”, “il costo dell’energia”.
Anche Piero Fassino, commentando il giorno dopo il discorso di Marchionne, ne apprezza la sensibilità sociale. Così insignitolo della medaglia di “vero socialdemocratico”, facendo l’analogia tra il cambiamento che il manager ha realizzato in Fiat («quando tutti dicevano che doveva essere solo venduta») e l’ambizione di cambiare la politica italiana dando vita al Partito democratico, può prenderlo come supertestimonial dell’evento. Ormai il parallelo tra industria e politica è diventato comune anche a sinistra. Fassino va oltre, e non esita a individuare nei sindacati e nella stessa coalizione di Governo il luogo dove si annidano le resistenze conservatrici al cambiamento. Per batterle, egli si dichiara «pronto ad allearsi con Marchionne». L’affermazione lascia perplessi: perché non vi è dubbio alcuno che, per superare gli ostacoli che sono disseminati sulla strada di aziende grandi e piccole, e delle piccole più ancora delle grandi, il Pd dovrà sapere stringere alleanze diverse, probabilmente assai meno facili. Penso alle tante aziende che non hanno bisogno che gli venga ricordato di «fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato»; e che quanto ad «abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro» possono dare lezioni. Perfino in America la frase che rese famoso Charles B. Wilson, ministro della Difesa di Eisenhower, («Ciò che è bene per la General Motors è bene per l’America ») è ricordata come l’epitaffio di un mondo che fu: figurarsi in Italia dove di grandi aziende ne abbiamo avute sempre poche.

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Nuove relazioni industriali: la lotta di classe è legittima solo se la fa il padrone

Elisabetta Della Corte


Da Taylor in poi l’organizzazione della produzione e del lavoro nelle grandi imprese ha volutamente eroso gli spazi di decisione degli operai con la standardizzazione delle operazioni e i tempi dettati dalla catena di montaggio. Comando e controllo ne uscivano amplificati, così come l’obbedienza degli operai. Eppure, proprio come ricorda Tatiana Pipan in un articolo, rintracciabile on line, dal titolo “La disobbedienza come categoria interpretativa”, nello stabilimento di Wattertown gli operai, sfruttati, si ribellarono a Taylor scioperando, e disobbedendo alle richieste manageriali. Fino a qui niente di nuovo, la storia del lavoro coatto, quello eterodiretto, accettato per necessità, è punteggiata da atti di insubordinazione e resistenza, così come ci ricordano gli storici del  lavoro. Di nuovo c’è il fatto che, in Italia, dagli anni ’90 del secolo scorso, dopo il fallimento del progetto di automazione totale a Cassino, la Fiat importa dal Giappone il nuovo modello organizzativo basato sulla qualità totale e il coinvolgimento degli operai nei team di lavoro. Si cerca in questo modo di mettere a frutto i vantaggi della cooperazione tra gli individui ricomponendo, almeno in parte, il lavoro frammentato della fase fordista, camuffando con l’autoattivazione nuove responsabilità per i lavoratori. Questo tipo di riorganizzazione è accompagnato da un certo ordine del discorso che si è andato via via costruendo dalla fine degli anni ’70 in poi. Anni decisivi per comprendere lo stato attuale delle relazioni industriali in Italia. Sono gli anni in cui l’acuirsi della conflittualità operaia apre la strada a nuove rivendicazioni e diritti, rinforzando il sindacato, almeno nella prima fase. Poi, però, alla fine degli anni ’70, dopo la crisi petrolifera del ’73, quando in fabbrica iniziano a circolare i volantini delle Brigate Rosse e alcuni operai finiscono nelle patrie galere, non solo il cavallo di troia del terrorismo venne utilizzato per criminalizzare l’intero movimento operaio che aveva fatto tremare la gestione autoritaria del management Fiat di stampo vallettiano, ma si deviò significativamente il percorso delle relazioni tra padronato e forza lavoro, il cui atto finale può essere individuato nella marcia dei quarantamila, per lo più impiegati,  ideata da Romiti all’inizio degli anni ’80. Da lì in poi la strada del sindacato e quella delle rivendicazioni operaie è tutta in discesa. Da quel momento, così come non si deve parlare di corda in casa dell’impiccato, alla Fiat ogni atto di ribellione, anche quelli eticamente orientati verso la riduzione dell’intensificazione del lavoro così come le proteste per gli accordi contrattuali non mantenuti sono stati bollati come atti estremi, su cui aleggiava il fantasma dell’estremismo. L’uso strumentale degli anni di piombo, quindi, è servito tanto a destra quanto a sinistra per riportare all’obbedienza gli operai e imporre il nuovo regime di fabbrica. Quando non si faceva uso di questo espediente retorico, il divide et impera veniva agito con altre categorie. In tempi recenti si usa dividere i bravi lavoratori contro i fannulloni che, come a Pomigliano, nel periodo elettorale sceglievano di stare ai seggi, preferendo la vita activa a quella lavorativa. Come si sa, infatti, la classe operaia deve produrre lasciando ai politici di professione l’onere delle questioni pubbliche.
Questo forse aiuta a capire in che direzione tira il vento che soffia da Pomigliano a Melfi fino a Mirafiori, dove chi invia un volantino dalla mail aziendale è un potenziale sovversivo così come chi a Melfi per protestare contro l’aumento disumano dei ritmi di lavoro è da licenziare. Questa è  gestione delle risorse umane ha molto di dis-umano, ma forse anche questo non avviene a caso. Il mercato dell’auto in questo periodo non tira e gli scioperi e i blocchi potrebbero tornare utili alla Fiat, che con una sola mossa – le sospensioni e i licenziamenti – può tentare di ammansire i “ribelli” della Fiom e ridurre i costi di una produzione che non tira. Certo più che di relazioni industriali si dovrebbe parlare dei comportamenti di incalliti pokeristi abituati a bluffare e a lasciare il tavolo dopo ricche vincite. Non sappiamo se Marchionne gioca a poker, e non ci importa saperlo, ma ci si chiede: non saranno mica queste le nuove relazioni industriali in tempo di crisi?

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«Il problema è nella Cgil, non nella Fiom»

Intervista a Giorgio Cremaschi, neo presidente del comitato centrale della Fiom

Paolo Persichetti
Liberazione 21 luglio 2010


Ci sarà una poltrona vuota nella nuova Segreteria nazionale della Fiom eletta ieri dal Comitato centrale del sindacato metalmeccanico. Fausto Durante, esponente della minoranza che fa capo alla mozione del segretario confederale Guglielmo Epifani, ha scelto di non occupare il posto che gli era stato riservato. I componenti sono scesi così da cinque a quattro. La scelta di non sostituirlo va interpretata come un segnale di apertura da parte della maggioranza guidata dal nuovo segretario Maurizio Landini. Abbiamo chiesto a Giorgio Cremaschi, appena eletto presidente del Comitato centrale, come interpreta questa situazione.

Cremaschi, siamo di fronte ad un colpo di coda della vicenda congressuale, alla reazione a distanza per una sconfitta ancora non ben digerita? Oppure c’è dell’altro?
Ci troviamo di fronte all’accelerazione di una discussione politica tra la maggioranza della Fiom e la Cgil. La scelta di Durante, come lui stesso ha detto, non nasce da motivi di dissenso interni alla Fiom. Per intenderci: non ha contestato la linea tenuta su Pomigliano e ha votato lui stesso per la manifestazione nazionale che abbiamo lanciato per il 13 ottobre a Roma e nella quale contiamo di portare tutta la rabbia del lavoro. Tutte decisioni prese all’unanimità. Ha criticato invece la scelta del segretario Landini di aderire all’area programmatica che all’interno della Cgil si trova in posizione di minoranza. Decisione che, a suo avviso, rappresenterebbe l’adesione ad una “opposizione d’intento”. Un atteggiamento che renderebbe impossibile la sua permanenza in segreteria. E’ evidente che dietro questa decisione vi è una tendenza negativa, un piano inclinato verso la riduzione degli spazi di democrazia la cui responsabilità ricade integralmente sulla segreteria della Cgil.

Cosa vuoi dire che dietro questa decisione c’è lo zampino di Epifani?
Io rispetto la scelta di Durante. Penso soltanto che stia portando avanti una battaglia politica. Il problema è Epifani che mostra di non voler discutere con la Fiom. E’ venuto solo al congresso, poi ogni tanto si lamenta sui giornali di non essere invitato. C’è un chiarissimo logoramento dello quadro democratico nella Cgil. Epifani son si sa mai cosa pensi: se è d’accordo oppure no. Quando interviene sulle vicende Fiat parla come se fosse il ministro del Lavoro di un governo che non c’è. Capisco che con Sacconi lo spazio perché possa esserci un ministro del Lavoro molto migliore esiste e probabilmente Epifani sarebbe un ottimo ministro. Solo che ora sta facendo un altro mestiere. Un mestiere che non riesce più a fare.

Scusami se insisto ma questa domanda te la devo fare comunque: corre voce che questa decisione sia stata ispirata dallo stesso Epifani, che l’altro ieri dopo aver presieduto una riunione con esponenti Fiom aderenti alla mozione uno avrebbe chiesto a tutti di uscire dagli organismi dirigenti.
Con tutta la mozione uno non credo. In ogni caso non penso che esistano persone teleguidate. D’altronde Durante stesso non ha fatto mistero di aver incontrato Epifani. Il punto è che non siamo più nella Cgil di una volta. Oggi la Cgil viene governata a maggioranza e questa maggioranza si considera l’intero sindacato. Tanto che per la prima volta nella sua storia il congresso ha cambiato lo statuto senza coinvolgere la minoranza. Un vero atto di ottusità antidemocratica. L’errore di Durante è quello di accettare questo modello, l’idea che la maggioranza debba governare da sola. Ormai ci sono difficoltà ad accettare la discussione, a presentare le mozioni. Purtroppo anche la Cgil non è immune dalla tendenza autoritaria che investe l’Italia.

La scelta di uscire dagli organismi dirigenti proprio nel momento in cui la Fiom è sotto attacco diretto della Fiat, che dopo Pomigliano è tornata a licenziare dando il là anche alle altre aziende, non è forse un modo per la sciare la Fiom sola, sperando di isolarla e indebolirla?
Abbiamo già fatto a meno della Cgil. La Fiom ha retto da sola a Pomigliano. La Cgil Campania aveva dato indicazione di votare a favore dell’accordo. Non penso che questa situazione aumenti i rischi più di quanto già non ve ne siano. La Fiom in questa fase assume un ruolo anche superiore alla sua funzione, non certo perché vuole occupare tutti gli spazi ma perché la Cgil li lascia vuoti.

Quando il privilegio indossa la toga: la casta dei giudici in rivolta

L’Associazione nazionale magistrati in agitazione: «non toccate i nostri stipendi», ma tra i togati emergono dissensi: «scorretto verso chi guadagna poco»

Paolo Persichetti
Liberazione 5 giugno 2010

Crea sconcerto l’intenzione di scioperare annunciata dall’associazione nazionale magistrati (la data verrà decisa oggi durante la riunione dell’esecutivo), non già contro l’insieme dei tagli draconiani messi in campo dal ministro Tremonti, che ha chiamato soprattutto le fasce più deboli del Paese a pagare il prezzo della speculazione finanziaria, ma contro la sola riduzione degli stipendi ai giudici. Per Angelino Alfano si tratta di «uno sciopero politico». Il governo, ha affermato il Guardasigilli, «chiede ai magistrati un sacrificio così come lo chiede alle altre componenti del Paese, però mi batterò e mi impegnerò a fianco dei giovani magistrati perchè su questo aspetto si chiede un costo individuale troppo alto». Luca Palamara, attuale reggente dell’Anm, replica insoddisfatto che i magistrati «non vogliono essere considerati un costo per lo Stato». Posizione che ha trovato immediato sostegno nei versanti della politica che da decenni si mostrano i più proni di fronte a qualunque desiderata della magistratura. Il Pd, per voce del suo responsabile Giustizia, Orlando, si è subito schierato con le toghe. Di Pietro ha parlato di «vendetta del governo». Lisciando il pelo dei suoi ex colleghi, il leader dell’Idv spera di riuscire a cavarsi fuori dalle ultime inchieste che lo vedono coinvolto nella vicenda degli appartamenti messi a disposizione dalla “Cricca”  Anemone-Balducci. Tuttavia la posizione dell’Anm non ha creato l’unanimità all’interno della categoria. In una intervista, la pm Maria Cordova, si è detta contraria, «lo sciopero – ha spiegato al Corriere della sera – non è corretto nei confronti di chi guadagna una miseria. Ci sono cittadini colpiti che percepiscono stipendi molto più bassi dei nostri. C’è chi vive con 600-700 euro, chi ha perso il lavoro. Di fronte a un operaio mi sento di dire: “questo sciopero non lo farò”». Una secca risposta gli è venuta dal procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli: «Mi riconosco completamente nelle posizioni espresse dai rappresentanti dell’Anm». Atteggiamento senza dubbio coerente, fu lui infatti a condurre una spietata caccia contro gli operai, accusati di simpatie brigatiste, che lavoravano in Fiat. Questa chiusura ultracorporativa delle toghe appare alquanto indecente. I magistrati vivono un’agiata condizione di casta, rappresentano una categoria privilegiata e super remunerata da cui è molto difficile essere licenziati. Esaminati da una commissione disciplinare costituita da colleghi, nella stragrande maggioranza dei casi le sanzioni finiscono con un trasferimento in altra sede. Quando va male in un’amputazione dello stipendio. I vantaggi sono enormi: oltre 50 giorni di ferie l’anno, cioè più di 10 settimane. Per non contare congedi, festività soppresse, malattia, sabbatici, permessi per convegni, formazione e studi. Una vera pacchia. Come cantava De André, «dopo aver vegliato al lume del rancore per preparare gli esami da procuratore, una volta imboccata la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male», un semplice uditore giudiziario intasca 1700 euro, che sei mesi dopo con le indennità oltrepassano i 2100 euro. Siamo ancora alle briciole: un magistrato di tribunale con 5 anni di anzianità arriva a 8600 euro lordi mensili, in corte d’appello il malloppo sale a 11350 lordi, in corte di Cassazione arriva a 15760, sempre lordi. Ma il super bottino viene intascato dai procuratori generali, 26820 euro lordi al mese, e dal primo presidente di corte di Cassazione con 29570 euro lordi, ogni 30 giorni. Attenti al goriiilla!!!!

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1970, come la Fiat schedava gli operai

Libri – Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Rosenberg & Sellier 1984

G.G. Migone
L’Indice 1984, n. 1

Schedature Fiat“Understatement” è una parola inglese che, forse non a caso, non trova il suo corrispettivo nella lingua italiana. Quando un avvenimento, un giudizio, un concetto viene riferito sotto tono, senza enfasi retorica, ma addirittura in maniera riduttiva, si dà luogo ad un understatement. Paradossalmente, quando viene usato per descrivere fatti particolarmente gravi o drammatici, l’understatement può servire a dare maggiore rilievo alla cruda realtà. È questo il modo in cui Bianca Guidetti Serra (che da molti anni si distingue per il suo impegno civile e professionale nelle aule dei tribunali penali) ancora una volta ha fatto sentire la sua voce attraverso un volume intitolato “Le schedature Fiat”. Che i suoi bisbigli promettessero di risultare fastidiosi è dimostrato dal fatto che il suo libro in un primo tempo fosse stato addirittura stampato dalla casa editrice Einaudi, ma mai distribuito, e anche dal silenzio con cui è stata accolta dalla stampa l’edizione preparata dalla Rosenberg e che Stefano Rodotà non ha esitato a introdurre.
La vicenda ricostruita dalla Guidetti venne alla luce quasi casualmente. Il 24 settembre 1970 tale Caterino Ceresa intenta causa alla Fiat di fronte alla pretura del lavoro di Torino perché sostiene di aver prestato per anni la sua opera con una qualifica diversa da quella corrispondente alle sue effettive mansioni e di essere stato licenziato in tronco senza giusta causa. Mentre il Ceresa era stato assunto come fattorino, egli sostiene di aver trascorso il suo tempo a informare l’azienda con “ampie relazioni scritte, previe opportune e discrezionali indagini… in ordine alle qualità morali, ai trascorsi penali, alla rispettabilità delle persone con le quali la società stessa era o doveva entrare in relazione”.
Ceresa perde la causa, ma l’ordinanza del pretore Angelo Converso mette in moto un procedimento contro quei funzionari della Fiat che, alle dipendenze dell’ex colonnello Mario Cellerino, dirigono l’ufficio affari generali, appositamente addetto a investigare sui singoli per conto della Fiat sulla base di notizie che, secondo Converso, “non potevano pervenire se non da Organi e Uffici del Servizio di Polizia di Sicurezza e dall’ Arma dei Carabinieri “.
Poco meno di un mese più tardi, in piena estate, il pretore a cui è stato affidato il nuovo procedimento, Raffaele Guariniello, accompagnato da alcuni pubblici ufficiali particolarmente fidati, si presenta nei locali della Fiat e sequestra uno straordinario materiale, tra cui 354.077 schede personali, che documenta una ventennale attività di informazione, con l’evidente scopo di valutare gli avvenimenti politici e ideologici (oltre che la vita privata) dei suoi interlocutori, prima di deliberarne l’assunzione o la successiva destinazione.
Opportunamente, la Guidetti lascia parlare i documenti, riportando molti giudizi contenuti nelle schede. Così apprendiamo che C.A. nel 1951 veniva giudicato “prepotente e impulsivo… spesso viene notato in compagnia di elementi sospetti tanto dal lato morale quanto da quello politico”.
Se poi vi fosse qualche dubbio sulla direzione verso cui erano indirizzati quei sospetti, basta una scheda, come quella dedicata a S.A., nel 1956, a dissiparli: “È iscritto alla Fiom. Attivista propagandista, schedato come tale viene saltuariamente vigilato dai competenti organi di polizia. Politicamente pericoloso in caso di sommosse”. Le schede dedicate alle donne sono simpaticamente generose di annotazioni sulla loro vita privata, accanro a quelle di indole politica, come nel caso di C.C. (1954): “Comunista moderata. Detiene (sic) la bandiera del Pci in casa e in tutte le cerimonie, manifestazioni sia di partito che per il lutto di qualche compagno essa ha l’incarico di portarla. Pare che l’amante della C. stessa attualmente si trovi in carcere. Nella casa non di rado era notato e per di più di sera”.
Un’analisi linguistica e dei contenuti di queste schede, piene di maiuscole e di affermazioni apodittiche, potrebbe servire a un’interessante ricostruzione dei valori e della cultura di una certa gerarcilia aziendale. Forse ancora più interessante è la ricostruzione dei modi con cui venne realizzata questa operazione di spionaggio per almeno un ventennio, così come emerge dalle pagine della Guidetti e dai documenti processuali. Infatti, l’attività spionistica si imperniava sull’asservimento, da parte della Fiat, delle autorità statali preposte alla sicurezza nell’area torinese (e non solo torinese). Nella Fiat funzionavano gli uffici del colonnello Cellerino (significativamente, prima di essere assunto alla Fiat, aveva rappresentato l’aeronautica nel garantire la sicurezza della produzione militare), ma essi non potevano funzionare senza la totale disponibilità di carabinieri e pubblica sicurezza nel mettere a disposizione dell’azienda i propri strumenti di informazione (dagli schedari alle conversazioni di sottoufficiali con compiacenti portinaie, parroci, bottegai e vicini di casa). Così si apprende che, con l’autorizzazione dimostrata di direttori generali e capi del personale (gli imputati Bono, Garino e Cuttica, ad esempio), il capo del Sid di Torino, il maggiore dei carabinieri Enrico Stettermayer, anche con un occhio di riguardo alla sua situazione famigliare,”purtroppo… molto precaria”, percepiva dall’azienda un mensile di 150.000 lire che integravano il suo magro stipendio statale (siamo alla fine del 1970) . Altri funzionari di pubblica sicurezza godeva già di un trattamento analogo. Era poi capillare l’uso di regalie naralizie che con “cinica taccagneria” (sono parole tratte dalla sentenza dei giudici del tribunale di Napoli) venivano elargiti a piccoli e grandi servitori dello stato. Ecco, a titolo di esempio, come venivano gratificati alcuni alti funzionari della questura di Torino: “questore: De Nardis comm. dott. Filippo (vaso grande argento con cioccolatini). Vicequestore: Mastronardi dott. Giuliano (portasigarette Guillochè grande)”, via via all'”orologio a cipolla È 1 Kg. cioccolatini” del M.llo Cordisco Roberto e delle tre bottiglie di Bourgogne del M.llo Musetta Marcello, entrambi del nucleo Sios di Milano.
Anche se il processo è stato allontanato dalla sua sede naturale di Torino, la vicenda si conclude con una sentenza di condanna sia di corruttori che di corrotti, successivamente confermata dalla corte d’appello, anche se i termini di prescrizione salvano gli imputati dalle pene di detenzione inflitte. La Guidetti cita ampiamente le due sentenze che mettono in rilievo incostituzionalità delle discriminazioni politiche inflitte a singoli cittadini; l’uso delittuoso di pubblici funzionari; l’attività corruttrice dell’azienda, sotto la responsabilità dimostrata di alcuni dei suoi massimi dirigenti. Perché, allora, merita ancora oggi la nostra attenzione? Non si tratta, tutto sommato, di una serie di episodi che testimoniano una miserla umana da cui nessuna grande istituzione, privata o pubblica, è immune?
In realtà le pagine documentatissime della Guidetti, abituata alla precisione anche formale richiesta dalle procedure giudiziarie, sollevano grandi problemi anche di attualità. Negli ultimi rnesi gli attuali dirigenti della Fiat (e non solo della F;iat) hanno rivendicato il patrimonio storico della loro azienda, non esclusa la lunga fase della gestione vallettiana. Troppo spesso si è risposto limitandosl a mettere in luce i costi umani di quelle politiche, senza sottolineare come procedure e atti come quelli documentati dalla Guidetti, insieme con altri fatti e avvenimenti analoghi, rivelino un tipo di imprenditorialità assai diversa da quella vantata e che definirei frutto di una vera e propria falsa coscienza di troppi imprenditori e padroni italiani. Essi amano descriversi, nel passato come nel presente, come uomini d’azione disposti a rischiare in proprio; attenti ai frutti dell’innovazione tecnologica; talora duri con i propri dipendenti, ma sempre nell’interesse della produttività della propria impresa che costituisce il vero bene comune. Sopratuttto, essi rappresentano il paese “che lavora e che produce” a dispetto della rendita e, talora, della corruzione del settore pubblico.
Il libro della Guidetti aiuta invece a comprendere la peculiarità del modello imprenditoriale italiano, che è quello del rapporto con lo stato; anzi, della capacità di appropriarsi dello stato e dei suoi organi in funzione dell’interesse aziendale, nelle piccole come nelle grandi cose. Su questo piano l’opera, ad esempio, di Valletta era veramente geniale. Che si trattasse di utilizzare e contenere le passioni “maccartiste”dell’ambasciatore Luce, o di spiegare al presidente Kennedy le modalità più efficaci per finanziare il partito socialisra, all’epoca della costituzione del primo governo di centrosinistra, Valletta sapeva inserire il suo disegno aziendale all’interno di una politica estera statuale che talora egli conduceva in prima persona.
Analogamente, la polizia, i carabinieri, insomma lo stato che emerge dalle pagine della Guidetti, si lascia organizzare in funzione degli interessi aziendali. Siamo ben oltre la parola d’ordine del presidente della General Motors (“Ciò che è nell’interesse della G.M. è nell’interesse degli Stati Uniti.”), famigerata anche in uno stato di netto stampo capitalistico.
Qui lo stato viene piegato e deformato dalla Fiat; i suoi funzionari bianditi o corrotti; le sue esili strutture sostenute ma soggiogate. Persino la cancelleria degli uffici viene donata dalla Fiat, mentre ricordo come, all’inizio degli anni settanta, i sindacati scoprirono con raccapriccio che uno stuolo di impiegati della Fiat erano distaccati presso la prefettura di Torino.
In fondo non vi è da stupirsi. Il modello vallettiano si appropria di una parte dello stato esattamente come pretende di organizzare la chiesa all’interno dell’azienda (con i pellegrinaggi a Lourdes e mons. Tinivella che viene candidato dalla Fiat come arcivescovo di Torino) e di soggiogare quella parte del sindacato che esso non discrimina (dal Sida alla Uil di Viglianesi). Non solo manca il senso dello staro (liberale e capitalista), ma anche quello della legalità. Le leggi – che pure sono il frutto di rapporti di forza sociali – stanno strette anche a coloro che ne hanno determinato il contenuto. È in questo clima che si sviluppa quella criminalità economica di cui parlario i giudici del tribunale di Napoli. È anche in questo contesto che appare normale prescindere dal rispetto dei più elementari diritti democratici. Si afferma che il sindacato costituisca una garanzia per il piuralismo politico e, quindi, per la libertà all’interno della società.
E sia. Ma occorre essere marxisti per porre il problema della democrazia all’interno delle singole unità produttive? Sono passati alcuni anni, probabilmente sono mutate le forme di controllo politico all’interno della stessa Fiat, ma questo problema resta, alla Fiat come altrove.
Bianca Guidetti Serra afferma di avere scritto una semplice cronaca. Eppure, un segno distintivo di un’opera di storia si rileva nel rapporto che stabilisce con l’epoca in cui viene scri¡ta. Ad esempio i “Magnati e popolani” di Salvemini furono importanti perché scritti nei torbidi anni di fine Ottocento, così come non è possibile ignorare che il libro dedicato da Venturi alla giovinezza di Diderot fu scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale. Così, “Le schedature Fiat” di Bianca Guidetti Serra vengono pubblicate nel 1984.

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Di Pietro e il suo cenacolo, retroscena di una stagione

Le affinità elettive tra Tangentopoli e i poteri forti. Economia mista e Partecipazioni statali facevano gola al capitale internazionale

Paolo Persichetti
Liberazione 7 febbraio 2010

Non si può certo dire che la Seconda Repubblica – figlia del ciclone giudiziario passato alla storia col nome di “Mani pulite” – sia nata all’insegna della trasparenza. Complice forse il polverone provocato dal crollo del muro di Berlino, ancora oggi una spessa coltre getta un sinistro velo di opacità su molte delle vicende e dei personaggi che hanno dato vita a questa seconda era repubblicana. Due figure più di ogni altra incarnano questa oscurità: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro. Coppia speculare. Simili, talmente simili da respingersi. Anche se poi, nel lontano 1994, il pm divenuto l’emblema di Tangentopoli tentennò, fino quasi ad accettare il ministero degli Interni offertogli dal leader dell’allora Forza Italia. Proposta che rifiutò dopo che qualcuno lo avvertì dei guai giudiziari in arrivo per il magnate di Arcore.

L’accumulazione originaria di Silvio Berlusconi fa scorrere fiumi d’inchiostro. L’editore Chiarelettere e Marco Travaglio vi hanno costruito sopra una fortuna editoriale. Un tempo, quando Marx veniva ancora studiato, si sapeva che ogni accumulazione originaria è costellata di crimini atroci e illegalità. L’accumulazione originaria della Fiat, per esempio, è intrisa del sangue delle trincee della prima guerra mondiale, alla faccia del «capitale etico» evocato proprio durante tangentopoli da quel licenziatore di operai che porta il nome di Cesare Romiti, lo stesso che negoziò con il pool di Milano una via d’uscita dalle inchieste facendo rifugiare a Londra i suoi manager. L’indignazione avrebbe dovuto rivolgersi al sistema, invece Travaglio e la sua banda l’hanno antropomorfizzata su un solo individuo, confondendo la parte per il tutto.

Ma anche le origini di Antonio Di Pietro muovono da una zona grigia: alle radici contadine, ai lavori da migrante, segue una fulminea laurea in giurisprudenza. Un vero miracolo per un personaggio che con la cultura c’azzecca poco. Ma siamo ancora al piccolo peccato veniale. Arriva l’ingresso in polizia, da commissario Basettoni. Metodi spicci. Poi l’entrata in magistratura. Arranca ma ce la fa. Tipi così hanno un nome ben preciso, «intrallazzini». Hanno il pelo sullo stomaco, s’intrufolano ovunque, sono lesti a cogliere l’occasione, costruiscono relazioni con richieste di favori, scambi, segnalazioni. Un modo di fare conosciuto talmente bene da divenirne, ad un certo punto, un micidiale fustigatore. L’affossatore di quella «Milano da bere» a cui si era per lungo tempo dissetato. Arriviamo al punto. Eliminata buona parte del ceto politico messo sotto inchiesta, Tonino si toglie la toga e ne prende il posto. In un qualsiasi regime liberaldemocratico serio, dove vige la separazione dei poteri, una tale investitura avrebbe sollevato seri interrogativi e durissime resistenze. Invece tutti lo temono, la destra berlusconiana cerca di accaparrarselo. In fondo è grazie a lui se il “partito azienda” si è visto spianata la strada del potere. Sul fronte opposto D’Alema lo «costituzionalizza» facendolo eleggere nella circoscrizione blindata del Mugello, la più rossa d’Italia. Qui la vicenda s’intorbidisce al punto che sui giornali della destra più di una volta è stata evocata la pista del complotto. Una tesi cara ad alcuni settori politici rimasti vittime delle inchieste anticorruzione e tornata d’attualità in questi giorni, dopo la pubblicazione della foto nella sala mensa dei carabinieri del Ros di Roma. Si tratta di un episodio del 15 dicembre 1992, il giorno dell’avviso di garanzia a Bettino Craxi. 12 fotografie, 8 scomparse, 4 riapparse grazie all’avvocato Mario Di Domenico, un altro ex fedelissimo ora in rotta che sta terminando un libro sui retroscena del dipietrismo. In compagnia del pm un parterre di “barbe finte” di tutto rispetto: i colonnelli operanti nei servizi Gargiulo, Del Vecchio, Conforti, il generale Vitagliano, Bruno Contrada del Sisde e poi Rocco Mario Modiati. Chi è costui, definito su alcuni quotidiani l’«amico americano»? Si tratta del capo della Kroll, l’agenzia di sicurezza di Wall Street.
Il clamore destato dalla presenza di Contrada, arrestato pochi giorni dopo per complicità con la mafia, ha posto in secondo piano un aspetto molto più intrigante: che ci faceva il secret service del più forte centro affaristico del mondo?
A nostro avviso la tesi del complotto non regge. Le inchieste anticorruzione sono state solo l’innesco di un crollo che mette radici nel brusco mutamento degli equilibri internazionali dopo la fine dei blocchi e nella crisi di un sistema privo di ricambio politico, a causa della consociazione che aveva prima affossato le potenzialità di rinnovamento contenute nei movimenti conflittuali degli anni 70 e poi al welfare clientelare e corruttivo utilizzato per comprare consenso negli anni 80. Tuttavia in quelle foto è contenuta una narrazione che andrebbe indagata più a fondo. Le inchieste di mani pulite non hanno agito nel vuoto, ma nel crogiolo d’interessi e schieramenti internazionali che vedevano con favore la scomparsa dei vecchi mediatori politici della Prima Repubblica e della loro base sociale, l’economia mista, le partecipazioni statali. Quelle «sacche di socialismo reale», come le aveva definite Francesco Cossiga, facevano gola al capitale internazionale. Si apriva la grande partita delle privatizzazioni. Liberarsi poi dell’uomo di Sigonella e della politica estera mediterranea di marca democristiana faceva gola all’amministrazione Usa.
La domanda è un’altra: che ruolo ha giocato in questa partita la sinistra? A quanto sembra quello degli utili idioti.

Link
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La stampella e il Capitale: Fiat incassa gli incentivi senza garantire l’occupazione

Rottamazione, ancora un regalo al marchio torinese ma gli stabilimenti rischiano la chiusura

Paolo Persichetti
Liberazione 1 ottobre 2009

Finché si trattava di privatizzare, accaparrare a prezzi stracciati beni pubblici, l’apologia del libero mercato ha funzionato. Arrivata la crisi, la «mano invisibile» è diventata monca e subito gli imprenditori sono corsi a chiedere il provvidenziale intervento della mano pubblica, sotto forma di sostegno al consumo. La vecchia funzione anticiclica dello Stato non s’è smentita. Al Salone dell’auto di Francoforte, l’Ad della Fiat Sergio Marchionne aveva auspicato il rinnovo anche per il prossimo anno degli incentivi per l’automobile pena la caduta della domanda e soprattutto «la chiusura degli Sergio Marchionnestabilimenti». Un avvertimento che sapeva quasi di ricatto. Si sa, il governo Berlusconi non è molto amico della Fiat. Espressione di una fazione opposta della borghesia di questo Paese, che raccoglie un blocco sociale composto da ceti imprenditoriali medio-piccoli e colossi legati alla produzione di valore simbolico e alla distribuzione, attraverso il ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola aveva replicato in termini molto cauti, rinviando la decisione «a fine novembre, quando avremo i risultati finali». Ieri però, Berlusconi, è stato più esplicito. In diretta su Sky Tg24 mattina ha assicurato che sugli incentivi «il governo non si tirerà indietro». Una piccola svolta nel braccio di ferro, in corso sotto banco da tempo, fra le case automobilistiche che spingono per riavere gli incentivi alla rottamazione anche nel 2010». Soddisfatto per le dichiarazioni del premier, Marchionne ha subito precisato che il sostegno ai consumi per l’acquisto di auto è necessario per un paio d’anni ancora, anche se poi «bisogna trovare – ha aggiunto – il metodo per una uscita graduale da questi incentivi». Sempre secondo l’amministratore delegato Fiat il governo dovrebbe defiscalizzare anche l’acquisto di veicoli commerciali per sostenere «l’attività di artigiani, commercianti e autotrasportatori». Il segretario del Prc Paolo Ferrero ha censurato duramente l’annuncio di Berlusconi: «gli incentivi promessi – ha detto – nascondono la solita regalìa dei governi di tutti i colori alla Fiat. Mai una volta che i soldi elargiti sotto forma d’incentivi vengano concessi ai lavoratori», attraverso l’aumento dei salari o sotto forma di riduzioni fiscali sul lavoro dipendente e le pensioni. Questi incentivi avranno un’efficacia limitata sull’economia nazionale perché già ora un terzo della produzione Fiat si svolge in Polonia, ha ricordato Enzo Masini (Fiom auto). Non solo, Marchionne, che rifiuta di sedersi al tavolo delle trattative con la Fiom, incassa gli incentivi senza fornire garanzie sui livelli occupazionali e il mantenimento degli stabilimenti.

Politiche industriali: la Fiat vuole espandersi ma a pagare è sempre il contribuente

Il Lingotto annuncia: «Niente chiusure» di stabilimenti Opel in Germania. Ma nessuno ci crede. Mondo politico e sindacati preferiscono il gruppo austro-canadese Magna

È sempre la solita storia. Le politiche industriali dei nostri grandi capitalisti, a dispetto di quel che racconta l’ideologia liberale, funziona quasi sempre in un solo modo, privatizzando i profitti e socializzando le perdite. L’acquisto da parte della Fiat di Chrysler segue uno schema ben preciso: ottenuto il sacrificio dei sindacati statunitensi e canadesi dell’Auto, la casa torinese assorbendo il marchio aquisterà soltanto la parte sana dell’azienda di Detroit, debitamente purgata dai debiti con gli istituti di credito attraverso una operazione di “bancarotta pilotata”. Di fatto la bad company, la parte dell’azienda nella quale confluiranno i debiti, verrà lasciata in mano alle compagnie di credito, tra le più compromesse nel crack finanziario degli ultimi mesi. Queste stanno in piedi solo grazie all’affluenza di denaro proveniente dal tesoro pubblico. Insomma, una sorta di keynesismo pervertito più finanza creativa permetterà la ristrutturazione mondiale dell’industria automobilistica.
Altro che Stato minimo, il mercato non riesce a vivere senza lo Stato stampella o forse sarebbe meglio dire lo Stato mammella.

Paolo Persichetti
Liberazione 28 aprile 2009

Mentre l’accordo con la Chrysler sembra avanzare a gonfie vele, dopo che i sindacati nordamericani dell’Auto hanno rinunciato a importanti quote di retribuzione pur di favorire il matrimonio con la Fiat, sul fronte tedesco la strategia della casa torinese incontra ostacoli di tutt’altro spessore. Il progetto d’acquisizione della Opel, filiale della General motors, necessario per raggiungere quell’economia di scala di 5-6 milioni d’autovetture annue, unico volume produttivo che secondo l’amministratore delegato Sergio Marchionne permetterebbe oggi a una marca di sopravvivere nello scontro planetario tra colossi dell’automobile, suscita forti riserve. Nel sindacato innanzitutto. Armin Schild, membro del consiglio di sorveglianza dell’azienda e responsabile locale dei metalmeccanici, ha affermato in un’intervista alla France press che l’azienda italiana ha presentato un’offerta più bassa di quanto l’Opel stessa aveva chiesto ai suoi dipendenti per rifinanziare il gruppo (750 milioni di euro). Per questo l’Ig metal considera l’offerta Fiat «un’Opa ostile». Per fugare il sospetto di un’operazione finanziaria che mira al semplice assorbimento del marchio Opel senza impegni produttivi, finalizzata unicamente a smantellare un concorrente presente nello stesso segmento di mercato, la Fiat si sarebbe impegnata a non chiudere nessuno dei quattro impianti tedeschi. Precisando, inoltre, che un’eventuale fusione non porterebbe in eredità l’indebitamento pregresso, senza tuttavia garantire necessariamente gli attuali livelli produttivi. La notizia è stata pubblicata dal settimanale Der Spiegel, che ha attribuito l’indiscrezione a un non meglio identificato insider torinese. La stessa fonte ha smentito anche che nella giornata di oggi il Lingotto avrebbe firmato una lettera d’intenti per rilevare la quota di maggioranza della Opel. Notizie che hanno reso ancora più scettico Klaus Franz, responsabile del consiglio di fabbrica tedesca, che già nei giorni scorsi aveva attaccato duramente l’azienda torinese presentendo dietro l’ingresso della Fiat un massiccio piano di licenziamenti. Timore di tagli occupazionali, condiviso anche dal nostro sindacato metalmeccanico. «È ovvio che qualunque accorpamento porterà a una ristrutturazione perché c’è sovraccapacità produttiva fra le attuali case costruttrici europee. Sono comprensibili le preoccupazioni dei sindacati tedeschi, analoghe a quelle che ha il sindacato italiano», ha spiegato Giorgio Airaudo, segretario generale della Fiom torinese. Il tentativo della Fiat di recuperare non sembra aver riscontrato grande successo. Nelle ultime ore, infatti, ha guadagnato terreno l’offerta del gruppo concorrente austro-canadese Magna.In favore di questa scelta si sono schierati numerosi esponenti politici, ultimo in ordine di tempo è stato il vice cancelliere e ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd), che al Financial times deutschland ha giudicato quella della «Magna un’opzione più seria». Ma la fronda ostile alla Fiat non riguarda solo gli esponenti socialdemocratici. Lo scetticismo è presente anche tra le file del centro-destra. Prima il ministro dell’Economia Karl-Theodor zu Guttenberg (Csu) ha espresso interesse per la Magna, poi il governatore dell’Assia, Roland Koch (Cdu), si è detto contrario all’ingresso del gruppo industriale italiano perché «ha problemi simili a quelli della Opel», sottolineando che prima di un’eventuale acquisizione «la Fiat dovrebbe dissipare i dubbi che sarà solo l’Opel a pagare». Intanto dalla casa madre di Detroit, il numero uno della General motors, Fritz Henderson, ha riferito dei numerosi contatti in corso con diversi altri gruppi interessati a rilevare la filiale tedesca, tra questi anche la russa Gaz. In serata il commissario Ue all’Impresa, Guenter Verheugen, è tornato sulla vicenda dopo le polemiche dei giorni scorsi, dicendosi «neutrale» sull’operazione Fiat-Opel e auspicando «una soluzione all’interno delle regole di mercato con una prospettiva di lungo termine», mentre l’Ig metal ha fatto sapere che, al contrario dei sindacati americani, non firmerà nessun accordo per la riduzione dei costi. La Fiat è avvisata.