Messaggio per Minchionne: Fiat di Pomigliano e Ilva di Taranto, da qui può ripartire il ribellismo operaio

Minchionne

Pomigliano d’Arco (Napoli), 8 Ottobre 2012. Foto Cesare Abbate

Adesso arriva la rottamazione operaia per tutti voi, cari Marchionne, Della Valle, Montezemolo, Renzi, Grillo, Di Pietro, ex figicciotti traghettati per mille sigle, democristiani annidati ovunque, postfacisti con la camicia nera, berlusconiani bolliti e leghisti arraffoni

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Oreste Scalzone contro la catastrofe dell’ideologia lavorista
Ilva è veleno! Via dalle officine a salario pieno!
Pomigliano, presidio permanente dei cassintegrati in tenda davanti ai cancelli Fiat con il megafono di Oreste Scalzone e il sax di Daniele Sepe
Ilva, a Taranto finisce la classe operaia del sud
Cronache operaie

Quando il privilegio indossa la toga: la casta dei giudici in rivolta

L’Associazione nazionale magistrati in agitazione: «non toccate i nostri stipendi», ma tra i togati emergono dissensi: «scorretto verso chi guadagna poco»

Paolo Persichetti
Liberazione 5 giugno 2010

Crea sconcerto l’intenzione di scioperare annunciata dall’associazione nazionale magistrati (la data verrà decisa oggi durante la riunione dell’esecutivo), non già contro l’insieme dei tagli draconiani messi in campo dal ministro Tremonti, che ha chiamato soprattutto le fasce più deboli del Paese a pagare il prezzo della speculazione finanziaria, ma contro la sola riduzione degli stipendi ai giudici. Per Angelino Alfano si tratta di «uno sciopero politico». Il governo, ha affermato il Guardasigilli, «chiede ai magistrati un sacrificio così come lo chiede alle altre componenti del Paese, però mi batterò e mi impegnerò a fianco dei giovani magistrati perchè su questo aspetto si chiede un costo individuale troppo alto». Luca Palamara, attuale reggente dell’Anm, replica insoddisfatto che i magistrati «non vogliono essere considerati un costo per lo Stato». Posizione che ha trovato immediato sostegno nei versanti della politica che da decenni si mostrano i più proni di fronte a qualunque desiderata della magistratura. Il Pd, per voce del suo responsabile Giustizia, Orlando, si è subito schierato con le toghe. Di Pietro ha parlato di «vendetta del governo». Lisciando il pelo dei suoi ex colleghi, il leader dell’Idv spera di riuscire a cavarsi fuori dalle ultime inchieste che lo vedono coinvolto nella vicenda degli appartamenti messi a disposizione dalla “Cricca”  Anemone-Balducci. Tuttavia la posizione dell’Anm non ha creato l’unanimità all’interno della categoria. In una intervista, la pm Maria Cordova, si è detta contraria, «lo sciopero – ha spiegato al Corriere della sera – non è corretto nei confronti di chi guadagna una miseria. Ci sono cittadini colpiti che percepiscono stipendi molto più bassi dei nostri. C’è chi vive con 600-700 euro, chi ha perso il lavoro. Di fronte a un operaio mi sento di dire: “questo sciopero non lo farò”». Una secca risposta gli è venuta dal procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli: «Mi riconosco completamente nelle posizioni espresse dai rappresentanti dell’Anm». Atteggiamento senza dubbio coerente, fu lui infatti a condurre una spietata caccia contro gli operai, accusati di simpatie brigatiste, che lavoravano in Fiat. Questa chiusura ultracorporativa delle toghe appare alquanto indecente. I magistrati vivono un’agiata condizione di casta, rappresentano una categoria privilegiata e super remunerata da cui è molto difficile essere licenziati. Esaminati da una commissione disciplinare costituita da colleghi, nella stragrande maggioranza dei casi le sanzioni finiscono con un trasferimento in altra sede. Quando va male in un’amputazione dello stipendio. I vantaggi sono enormi: oltre 50 giorni di ferie l’anno, cioè più di 10 settimane. Per non contare congedi, festività soppresse, malattia, sabbatici, permessi per convegni, formazione e studi. Una vera pacchia. Come cantava De André, «dopo aver vegliato al lume del rancore per preparare gli esami da procuratore, una volta imboccata la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male», un semplice uditore giudiziario intasca 1700 euro, che sei mesi dopo con le indennità oltrepassano i 2100 euro. Siamo ancora alle briciole: un magistrato di tribunale con 5 anni di anzianità arriva a 8600 euro lordi mensili, in corte d’appello il malloppo sale a 11350 lordi, in corte di Cassazione arriva a 15760, sempre lordi. Ma il super bottino viene intascato dai procuratori generali, 26820 euro lordi al mese, e dal primo presidente di corte di Cassazione con 29570 euro lordi, ogni 30 giorni. Attenti al goriiilla!!!!

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Ispra, prima vittoria per i precari. Tutti i contratti saranno rinnovati

Intesa al ministero dopo 57 giorni sul tetto della sede. «Ora la stabilizzazione»

Paolo Persichetti
Liberazione 22 gennaio 2010

Dopo 57 giorni passati sul tetto, i precari dell’Ispra, l’ente per la protezione e la ricerca ambientale, hanno siglato un accordo con il ministero dell’Ambiente. Dopo un primo incontro interlocutorio svoltosi l’11 gennaio, seguito da alcuni tavoli tecnici, mercoledì scorso si è aperta la seduta decisiva. Iniziata alle 15, la trattativa è terminata a mezzanotte. «All’inizio le posizioni erano molto distanti», racconta Emma Persia dell’Usi-Rdb. Alla fine nove sono stati i punti su cui si è trovato un compromesso, tra cui il «rinnovo di tutti i contratti a tempo determinato» e nuovi bandi. Nella mattinata di ieri si è tenuta l’assemblea dei lavoratori per discutere i contenuti dell’accordo, al temine della quale gli occupanti hanno deciso di scendere dal tetto. «Sono stati giorni carichi di emozioni intense», spiegava una di loro. Iniziata in sordina a fine di novembre, la protesta ha lentamente guadagnato terreno e visibilità mediatica, soprattutto sotto le feste di fine anno quando il commissario prefettizio messo alla testa dell’ente ha deciso la serrata dei cancelli chiudendo gli occupanti all’interno. Una delegazione di deputati giunti in visita ha dovuto quasi scavalcare i cancelli per entrare. Allora la popolazione del quartiere è venuta incontro ai precari in lotta portando cibo, panettoni, spumante e solidarietà. Pochi giorni dopo, malgrado le intemperie, un incontro pubblico si è tenuto sulla piazza di Casalotti dove ha sede l’Ispra. «L’assemblea – ha riferito Michela Mannozzi, portavoce degli occupanti – ha dato un giudizio positivo sull’intesa con cui abbiamo fatto un passo importante per bloccare il processo di smantellamento dell’ente che passava attraverso il licenziamento dei lavoratori precari». L’accordo stipulato prevede il mantenimento dei livelli occupazionali (i 230 contratti in scadenza fra il 31 dicembre il 31 marzo saranno tutti rinnovati), l’impegno a riassorbire i lavoratori mandati via a giugno e la conversione successiva a forme contrattuali a tempo indeterminato. Tra due mesi sarà eseguita una prima verifica. Incontri periodici sono stati previsti per controllare le modalità di applicazione degli accordi. La ministra Prestigiacomo si è portata garante del protocollo d’intesa. Scesi dal tetto, i precari avviano ora la seconda fase della loro lotta mantenendo lo stato di agitazione. Oltre a vigilare sull’intesa, i ricercatori puntano sul rilancio dell’attività dell’Ispra a partire innanzitutto dall’interruzione del regime commissariale dell’istituto e la nomina di nuovi vertici con competenze scientifiche e una cultura del controllo e della ricerca ambientale. All’interno di questo percorso l’obiettivo è il varo di un nuovo statuto che sfoci anche in un piano triennale di assunzioni. Tra le varie questioni ancora non risolte vi è il mantenimento della sede di Casalotti, che i commissari prefettizi sollevando pretestuosi problemi di sicurezza mai certificati hanno messo sul mercato. Il progetto di smantellamento dell’Ispra prevedeva, infatti, oltre alla dismissione dell’immobile, la cessione del parco della Cellulosa di proprietà dell’ente e unico spazio verde del quartiere. Una cessione che, accompagnata da un cambio di destinazione d’uso, fa gola alla speculazione edilizia molto attiva nella zona, un tempo terreno del piccolo abusivismo edilizio tirato su a “pane e cipolla”, tipico delle borgate della periferia romana, e oggi oggetto delle mire della grande speculazione. Il parco della Cellulosa si trova a ridosso del comprensorio del monte Aurelio, dove è stata proposta la costruzione del nuovo stadio calcistico dell’As Roma, accompagnato da importanti cubature di cemento residenziale e commerciale e opere di urbanizzazione come il prolungamento della metropolitana. Alle 12 di oggi gli ex occupanti del tetto terranno una conferenza stampa presso la sede nazionale delle RdB nella quale annunceranno le prossime tappe della battaglia in difesa della ricerca pubblica.

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Ispra, prima vittoria per i precari tutti i contratti saranno rinnovati
Ispra, la Prestigiacomo si impegna a riassumere i precari
Cronache operaie

Ispra, la Prestigiacomo si impegna a riassumere i precari

Lunedì prossimo nuovo incontro. I lavoratori senza più contratto attendono la verifica concreta

Paolo Persichetti
Liberazione 5 gennaio 2010

Si è tenuto ieri presso il ministero dell’Ambiente, presente anche il capo dipartimento della Funzione pubblica, l’incontro tra la ministra Stefania Prestigiacomo e i lavoratori precari dell’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, che da 43 giorni occupano il tetto della loro sede in via di Casalotti a Roma. Inizialmente previsto per le 11, il tavolo con i precari accompagnati dal rappresentante dell’Usi-RdB si è aperto solo alle 13 ed è durato fino alle 14,30 circa. Nella mattinata la ministra aveva ricevuto i sindacati confederali, insieme all’Anpri (sindacato dei dirigenti). I lavoratori in lotta hanno preso atto della volontà politica positiva espressa dalla responsabile del dicastero dell’Ambiente che durante l’incontro ha escluso qualsiasi «volontà di abbandono» ma piuttosto «l’intenzione di valorizzare e promuovere la ricerca». In una nota diffusa nel primo pomeriggio, la Prestigiacomo ha fatto sapere che per ripianare la situazione di «forte anomalia» presente tra i lavoratori dell’Ispra, in una condizione di precariato cronico che raggiunge il 38% dell’intero personale, con contratti atipici che spaziano lungo l’intero arco dei modelli di flessibilità congeniati, dal tempo determinato (nella migliore delle ipotesi) ai Co.co.co., agli assegni di ricerca, alle borse di studio, sarebbe pronto «un piano di assunzioni volto a portare nel prossimo triennio alla stabilizzazione a tempo indeterminato per quasi 400 unità e a ridurre l’area del precariato a una percentuale fisiologica». Pur apprezzando queste dichiarazioni, i lavoratori hanno comunque rilevato alcune incongruenze importanti, costatando con un certo sconcerto che la struttura commissariale ai vertici dell’Ente di ricerca non ha fornito al ministero le cifre esatte. Nel corso della seduta, infatti, la Prestigiacomo avrebbe parlato «solo di 21 persone a rischio». Numeri immediatamente contestati dai lavoratori, come la cifra dei 534 lavoratori precari complessivi indicata sempre dal ministro al posto dei 618 reali. D’altronde dopo il mancato rinnovo dei contratti, almeno 480 lungo tutto il 2009, all’interno dell’Ispra vige il caos più assoluto tanto che i commissari hanno diramato un ridicolo ordine di servizio nel quale si trovano inclusi nomi di persone senza più contratto. L’incontro si è concluso con la decisione di aprire un tavolo tecnico dal prossimo lunedì 11 gennaio, sede nella quale i lavoratori faranno valere in modo documentato le cifre esatte della situazione e presenteranno «soluzioni tecniche ed economiche nel rispetto delle normative vigenti», tenendo anche conto degli impegni già annunciati dalla provincia di Roma e dalla regione Lazio venute incontro alle richieste dei precari. Oltre ai rinnovi contrattuali scaduti, l’obiettivo è quello della graduale stabilizzazione del personale attraverso il riconoscimento della natura «subordinata» delle prestazioni fornite. Dopo 12 anni di contratti atipici è giunta l’ora di includere stabilmente i lavoratori in azienda. Nell’attesa che il tavolo tecnico previsto la prossima settimana traduca gli impegni di principio in risultati concreti, i precari hanno deciso di rimanere sul tetto. «La mobilitazione – sottolinea un comunicato diffuso dalla coordinatrice sindacale dell’Usi-RdB – andrà avanti con nuove iniziative, oltre a proseguire con l’occupazione del tetto. In particolare, l’Usi-RdB Ricerca ha avviato le procedure per lo sciopero del comparto ricerca a sostegno della vertenza dei precari dell’Ispra e per un piano di rilancio e di investimenti a favore della ricerca pubblica nazionale». L’obiettivo è quello di arrivare per la fine della prossima settimana a un’assemblea cittadina per dibattere sul tema della ricerca e i controlli ambientali, alla quale saranno invitati rappresentanti politici, cittadini, istituzioni, associazioni, università ed esperti del settore.

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Cronache operaie

Ispra, licenziati sul tetto: «Non sparate sulla ricerca»

Un mese e mezzo di protesta contro il Ministero che vuole cacciare tutti i precari dell’Istituto

Paolo Persichetti
Liberazione
2 gennaio 2010

La lotta ha bisogno di vertigine. È una vecchia legge fisica, non quella che descrive i moti celesti ma quella che si occupa dei moti sociali. Un vecchio esperto della questione, uno dei massimi teorici del problema, non a caso parlava di «assalto al cielo». Erano gli albori del Novecento, da allora l’uomo è arrivato sulla luna, ha spedito navicelle e satelliti nello spazio. Il cielo è diventato molto più vicino; il «cielo della politica» invece è miseramente precipitato in mare. Nell’epoca del disincanto, della fine delle grandi narrazioni rivoluzionarie ha ripreso vigore il «cielo mistico», quello delle religioni, che però ci racconta un al di là, un altrove diverso dalle leggi della fisica sociale. Tuttavia chi lotta non ha smesso di guardare in alto e da un po’ di tempo ha preso l’abitudine di arrampicarsi sui tetti. La vertigine aiuta il conflitto, non foss’altro perché ricorda che in questa società esiste una contraddizione decisiva che segue una linea verticale, dall’alto in basso: quella tra capitale e lavoro. I ricercatori precari dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, tutta gente che la fisica la conosce bene, l’hanno capito al volo e dal 24 novembre occupano il tetto della sede di Casalotti, una ex borgata situata nella periferia nord-ovest di Roma che ospita laboratori e uffici dell’ente. Dopo gli operai dell’Innse di Sesto san Giovanni, saliti questa estate sui carri-gru della loro azienda, sui tetti sono saliti un po’ tutti. Lo hanno fatto gli operai della Cim, ditta di materiali per l’edilizia di Marcellina, piccolo paese in provincia di Roma, che hanno puntato davvero in alto fino a scalare una torre di lavorazione alta circa 50 metri. Sono seguiti mesi di arrampicate operaie: nei cantieri navali di Pesaro, alla Lasme di Melfi che produce per la Fiat, nello stabilimento Yamaha Italia di Lesmo (Monza). La lista è davvero lunga. I tetti sono diventati la punta dell’Iceberg della crisi economica e del prezzo da pagare, che come al solito si riversa sulla forza lavoro: personale messo in mobilità, contratti a termine non rinnovati, licenziamenti secchi, smantellamenti della produzione e delocalizzazioni.

Privatizzare la tutela ambientale
Sui tetti dell’Ispra è di scena invece la forza lavoro intellettuale: biologi, geologi, chimici, tecnici, impiegati fino al mancato rinnovo dei loro contratti in settori di punta della ricerca applicata. Per intenderci sono loro che sorvegliano le nostre coste e i nostri mari (per esempio, recentemente sono stati impegnati nelle ricerche sulla nave dei veleni), controllano il territorio dai dissesti idrogeologici, dai rischi industriali e nucleari, realizzano il monitoraggio delle discariche, sono loro che forniscono le valutazioni sull’impatto ambientale e offrono agli enti locali le mappe necessarie per poter pensare qualsiasi tipo di sviluppo urbanistico, industriale, turistico e paesaggistico nel territorio. In sostanza sono loro che vigilano sulla qualità della nostra vita. Un bene prezioso, un bene comune. Donne e uomini che dovremmo difendere con le unghie e con i denti. E invece c’è chi vorrebbe disperdere questo capitale umano e intellettuale formato nelle nostre università pubbliche, animato da tanta passione civile, per svenderlo al mercato privato delle consulenze ambientali, certamente più malleabile e orientabile. In questo modo serietà, scientificità, autonomia e indipendenza delle ricerche verrebbero meno. Nei loro interventi i lavoratori dell’Ispra tengono a sottolineare come la loro battaglia non sia rivolta soltanto alla difesa dei posti di lavoro, ma riguardi la tutela generale della ricerca pubblica e dell’ambiente. L’istituto, nato con la legge (133/2008) di riordino dei vari enti che operavano sotto la tutela del ministero dell’ambiente, ha raccolto in un’unica struttura l’ex agenzia per la protezione ambientale (Apat), l’istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs) e l’istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram). Al momento della sua nascita il nuovo ente contava 926 lavoratori di ruolo e circa 618 precari, legati da rapporti di lavoro i cui modelli ricoprono l’intero arco delle forme contrattuali atipiche che il cinismo sadico dell’ingegneria della precarietà sociale è arrivato congeniare (tempo determinato, collaborazioni continuative, assegni di ricerca e borse di studio). Non lontani dunque da forme di lavoro nero legalizzato. Che il riordino del settore non rispondesse affatto a criteri di razionalità e rilancio, lo si è capito appena costituita la struttura commissariale posta alla guida del nuovo ente. Nessun esperto in materia ambientale ma tre funzionari di carriera prefettizia, con un passato solo al ministero degli Interni. Spontanea è sorta la domanda: perché piazzare al comando di una struttura di ricerca gente che di mestiere sa fare solo il controllo dell’ordine pubblico? Forse perché il mandato era uno solo: smantellare l’ente di ricerca, gestire con il dovuto polso gli eventuali contraccolpi sociali. Certo è che le cose fin dall’inizio sono andate in questo modo. Non solo la nuova dirigenza in un anno e mezzo di gestione non ha mai prodotto un regolamento di organizzazione, come previsto dalla norma istitutiva, ma non ha più rinnovato i contratti in scadenza: a fine 2008 i primi 50 (tutti ex Infs); altri 200 a fine giugno 2009 (ex Apat), gli ultimi 200 il 31 dicembre (ex Icram). Nonostante questa opera di smantellamento risultano comunque iscritti nel bilancio 2010 diversi milioni di euro. La circostanza lascia strada al legittimo sospetto che vi sia, in realtà, l’intenzione di esternalizzare le attività.

Capodanno sul tetto
Si danno il cambio con thermos e sacchi a pelo per ripararsi dal freddo. Dormono in tende igloo, altri su materassi allungati lungo un corridoio. Hanno fatto della trasparenza la loro arma migliore, chiunque può vederli 24 su 24 sul sito web che hanno creato, www.nonsparateallaricerca.org. Sotto un tendone che li ripara dalla pioggia e dal vento hanno montato una postazione web che li collega al mondo. Webcam fissa, due computer, chat, chiunque può interloquire con loro. Sul sito c’è anche un clip girato sul prato del piazzale antistante l’edificio. Dei manager in doppiopetto fucilano i ricercatori in camice e maschera bianca sul viso. I dirigenti non hanno apprezzato e il regista, un tecnico dell’Ispra, si è visto resiliare il contratto per un vizio stranamente scoperto all’ultimo momento. I prefetti-sbirri hanno svolto egregiamente il loro lavoro fino a rinchiudere gli occupanti dentro l’istituto nei giorni di Natale. Una serrata vecchia maniera. Ma gli abitanti del quartiere sono venuti in aiuto dei ragazzi lanciando oltre il cancello viveri, panettoni e bottiglie di spumante. Il giorno di capodanno un’assemblea, con la popolazione e una delegazione di lavoratori dell’Eutelia e del comitato di lotta per la casa, si è tenuta nella piazza centrale di Casalotti. Poi una fiaccolata di cittadini ha riaccompagnato i ricercatori sul tetto. Il quartiere guarda con simpatia alla mobilitazione anche perché è previsto che il parco della cellulosa, unico spazio verde della zona dove ha sede l’Ispra, dovrebbe finire nelle mani del comune, ma il sindaco Alemanno pare intenzionato a cambiarne la destinazione d’uso. Il timore è che voglia darlo in pasto alla speculazione del cemento. Quaranta giorni sul tetto hanno obbligato il governo ad aprire la trattativa. Domani ci sarà un doppio incontro: alle 10 presso il ministero dell’Ambiente e a mezzogiorno al ministero della Funzione pubblica. Inizia la partita delle trattative, ma i ricercatori dell’Ispra ribadiscono che non scenderanno dal tetto senza garanzie di rinnovo e stabilizzazione dei contratti lasciati scadere.

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Ispra, la Prestigiacomo si impegna a riassumere i precari
Cronache operaie

«Rabbia populista» o «nuova lotta di classe»?

Francia, fabbriche in rivolta: bloccati i premi per i manager. Si apre la discussione di fronte alla crisi economica

Paolo Persichetti
Liberazione 27 marzo 2009

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«Rabbia populista» o nuova «lotta di classe»? Ieri sulle pagine dei più grandi quotidiani nazionali campeggiava questa domanda: un nuovo spettro si sta aggirando per il globo?
Commenti preoccupati e cronache inquiete s’interrogavano sul reale significato delle notizie provenienti dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. A New York, dopo l’arresto del magnate della speculazione finanziaria Maddof e la minaccia del Congresso di tassare con un’aliquota del 90% i bonus padronali, i dieci manager più pagati del colosso delle assicurazioni mondiali Aig, tra i più coinvolti nel crack delle Borse, hanno restituito i bonus milionari ricevuti come premi per i loro disastri. Per farli rinunciare a un po’ della loro famelica ingordigia è bastato un fine settima di picchetti organizzati da manifestanti davanti alle loro megaville blindate e con l’immancabile piscina.
A Edinburgo, in piena notte, il villone di Sir Fred Goodwin, l’amministratore delegato che ha portato al collasso la Royal bank of Scotland, per poi andarsene serenamente in pensione con un bonus di 16,9 milioni di sterline, alla faccia di migliaia correntisti ridotti al lastrico per aver creduto nei portafogli azionari offerti dai servizi finanziari dell’istituto di credito, è stato assalito da un gruppo di attivisti che hanno rivendicato l’azione con la sigla Bank bosses are criminals, «I banchieri sono dei criminali». Motto che riecheggia quello delle curve da stadio di mezza Europa, All corps are bastards, «Tutte le guardie sono bastarde».
Nel centro della Francia, a Pithiviers, Luc Rousselet, amministratore delegato della 3M, società farmaceutica americana in procinto di licenziare 110 dei suoi 235 dipendenti, è stato “trattenuto” negli uffici dell’azienda per oltre 30 ore dagli operai che era venuto ad incontrare. I lavoratori esigevano dei negoziati con l’azienda sulle modalità del piano di crisi che dovrà accompagnare la brusca riduzione di personale.
Ovviamente per gli operai non si è trattato di un «sequestro», com’è stato scritto sposando il punto di vista “padronale”, ma di un imprevisto prolungamento d’orario della giornata di lavoro del loro capo. Uno straordinario giustificato dall’eccezionalità della situazione venuta a crearsi. I 2700 lavoratori della 3M France, società ripartita su 11 siti, conosciuta per la produzione di “post-it” e del nastro adesivo “Scotch”, sono in sciopero illimitato dal 20 marzo. Un episodio analogo era già accaduto il 12 marzo scorso, quando il presidente-direttore generale di Sony France, Serge Foucher, era stato anche lui costretto a uno “straordinario notturno” in compagnia delle sue maestranze in lotta. Lo stabilimento di Pontonx-sur-l’Adour, nelle Lande, impiega 311 persone e la sua chiusura è fissata per il 17 aprile prossimo. Al direttore della Continental, invece, è toccato in sorte un fitto lancio di uova da parte dei 1120 addetti dell’impianto di Claroix, che proprio ieri sono stati ricevuti in delegazione da un consigliere di Sarkozy all’Eliseo.
Questa volta gli operai non sono isolati, hanno alle spalle il sostegno dell’opinione pubblica indignata di fronte alla notizia dei mega compensi attribuiti ai manager d’imprese che licenziano o di banche in deficit dopo aver sperperato il denaro dei clienti.
La rabbia è montata di fronte alle parole di Laurence Parisot, presidente della confindustria francese, che si era detta indisponibile di fronte alla richiesta del presidente della repubblica d’intervenire sui consigli d’amministrazione affinché i manager rinunciassero ai premi elargiti sotto varie forme (stock options, ovvero azioni con remunerazioni privilegiate, liquidazioni d’oro o pensioni stratosferiche). Il primo ministro ha dovuto annunciare il varo di un decreto per vietare l’attribuzione di questi bonus e stock options per le aziende che ricevono aiuti dallo Stato. A questo punto, dopo le resistenze iniziali, Gerard Mastellet e Jean-Francois Cirelli, presidente e vice presidente di Gdf-Suez, il gigante francese dell’energia, hanno dovuto rinunciare ai loro compensi supplementari piegandosi – hanno detto con malcelata ipocrisia – al «senso di responsabilità».
I titoli tossici immessi nei circuiti finanziari stanno forse scatenando la reazione di sani anticorpi sociali? All’estero, certo non in Italia, l’ira popolare sta cambiando bersaglio: dalla «Casta» alla «Borsa», dai «politici» ai «padroni»; che la barba di Marx stia di nuovo spuntando?
Quel che sta accadendo, in particolare al di là delle Alpi, dimostra quanto devastante sia stata da noi la prolungata stagione del giustizialismo, con il suo corollario d’ideologia penale e vittimismo seguiti alle ripetute emergenze giudiziarie. Il decennio 90 si è accanito contro i corrotti della politica assolvendo i corruttori dell’economia, aprendo la strada non solo alla vittoria politica del partito azienda ma alla sua egemonia politico-culturale sulla società.
Vedremo più in là se ha ragione L’Economist quando descrive, un po’ alla Ballard, l’albeggiare di una rivoluzione del ceto medio proletarizzato; o se invece ci sarà un’irruzione di protagonismo del nuovo precariato sociale. Una cosa è certa: oltreconfine hanno individuato la contraddizione da attaccare. È tutta la differenza che passa tra allearsi contro i padroni o fare le ronde contro i romeni. Ma quel che resta della sinistra italiana l’avrà capito?

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Le figure del Paria indizio e sintomo delle promesse incompiute dall’universalità dei diritti

Libri – Les rebuts du monde. Figures du paria, Eleni Varikas, Stock, Paris 2007, pp. 208, € 18,50

Paolo Persichetti
Liberazione
5 giugno 2008

E’ convinzione diffusa che paria sia un vocabolo indiano giunto in Europa insieme alle merci speziate e alle sete pregiate della compagnia delle Indie, cuore pulsante dell’impero coloniale britannico. Allo stesso modo un radicato luogo comune vuole che il termine designi gli “intoccabili”, cioè gli estromessi dal sistema delle caste: i banditi per nascita dalla comunità, gli impuri, i reietti, gli ultimi degli ultimi, gli espulsi dallo stesso genere umano. In realtà paria è una parola occidentale coniata da militari e missionari portoghesi nel XVI° secolo. Sembra che della espressione si trovi traccia per la prima volta nelle parole di un certo Duarte Barbosa, navigatore al servizio del re del Portogallo, il quale durante un viaggio nella penisola indiana riferisce della esistenza d’un «gruppo inferiore di pagani chiamati Pareas». Probabilmente l’equivoco trae origine dall’impiego che gli europei hanno fatto del termine parayer, con il quale erano indicati i suonatori di tamburo che accompagnavano le cerimonie funebri, per questo considerati impuri. In realtà nel vocabolario indiano gli intoccabili hanno sempre avuto tutt’altro nome. Ultimo di questi è dalits, che vuole dire «popolo oppresso e calpestato».

È questa una delle scoperte che riserva la lettura del libro pubblicato a Parigi da Eleni Varikas. Con un documentato lavoro di ricerca, prima in campo letterario e teatrale e poi sul terreno della riflessione teorica, in autori come Weber, Simmel e Arendt, la docente di teoria politica, trapiantata a Parigi dalla sua Grecia natale durante gli anni della dittatura dei colonnelli, autrice di numerosi testi sulla storia e il pensiero femminista, ripercorre le origini del concetto di paria, la singolare apparizione del termine in Europa insieme alle sue molteplici e mutevoli rappresentazioni che ancora oggi ne fanno una figura carica di scottante attualità, emblema di quell’ambiguità irrisolta contenuta nel tanto declamato universalismo dei diritti umani. Fin dal suo affiorare questo concetto riflette lo sguardo che i colonizzatori portano sulla propria società prima ancora che sui domini coloniali. Per questo appare subito come una parola rivelatrice, indizio e sintomo delle promesse incompiute dall’universalità dei diritti. Si pensi allo scontro che oppose, durante i lavori della Convenzione del 16 piovoso (2 febbraio 1794), i fautori dell’abolizione della schiavitù agli assertori della «libertà egoistica» di stampo liberale, che ritenevano superflua ogni deliberazione sulla materia poiché avrebbe soltanto sporcato l’esemplarità della dichiarazione universale.

Dietro la tesi che riteneva l’abrogazione della condizione servile, come l’emancipazione femminile o quella degli ebrei, un corollario implicito dei diritti dell’Uomo, si celava in realtà la volontà di affermare un’idea di libertà dai confini angusti: quella del patriarca bianco, cristiano e proprietario, che dietro astratte affermazioni generali preservava la sostanza particolare dei rapporti di dominazione. Appena affermati i diritti dell’uomo avevano già prodotto i loro paria: coloro che non avevano il diritto d’avere diritti.
A partire dal XVIII° secolo il vocabolo si diffonde nello spazio politico e letterario europeo. «Che cosa è un paria?» domanda uno dei protagonisti de La chaumière indienne, racconto filosofico d’ispirazione illuminista pubblicato nel 1791. «È colui che non ha né fede né legge!» si vede rispondere. Il libro ebbe subito un grande successo e sarà trasformato da Casimir Delavigne in un’opera intitolata Il Paria , rappresentata a Parigi l’anno successivo. Madame de Staël non mancò di segnalarne la risonanza, definendolo «genere repubblicano per eccellenza», espressione di quella nuova estetica romantica affascinata e indignata dalla condizione esclusiva in cui erano relegate le figure di frontiera affiorate al cospetto dei salotti letterari dopo che la rivoluzione aveva fatto emergere la realtà del popolo.
Icona ambivalente, l’immagine del paria servirà da strumento d’educazione politica dei ceti popolari mentre va prendendo forma quello spazio pubblico plebeo che un inorridito Burke non esitò a definire «moltitudine porcina», scandalizzato dall’inversione della gerarchia dei valori che accordava ai subalterni, «questa moltitudine a più teste», un privilegio cognitivo, una superiorità morale e politica. Ma al tempo stesso offre ispirazione anche all’elitaria immagine dell’artista maledetto, alla marginalità idealizzata e trasformata in consapevole scelta di vita, forma di contestazione individuale, icona del proscritto, simbolo dell’individuo soffocato, inadatto o ribelle a norme retrograde e oppressive, condannato alla solitudine, tanto più carico di grandezza quanto più disprezzato e escluso, che raffigura i tratti romantici della rivolta intellettuale verso la nuova etica borghese e, in epoca a noi più vicina, la ribellione alla società massificata e serializzata.
Utilizzato in forma metaforica, il paria diventa una figura retorica della lotta politica di volta in volta riempita di nuovi contenuti e immagini. Se nel discorso degli Illuministi l’attacco contro le gerarchie sociali di Paesi lontani serviva da espediente per colpire la tirannia dell’ancien régime che dominava in casa propria (non a caso il termine si accompagna alla diffusione della nozione di casta), con l’approdo al concetto di umanità la categoria dei «senza diritti» diventa lo specchio che rinvia l’immagine capovolta della civiltà in cui si afferma il valore universale dei diritti umani. Così la figura del paria illumina la cattiva coscienza di una società che ad ogni nuovo diritto acquisito vede subito comparire la categoria di chi ne è a sua volta escluso: dapprima gli schiavi, i neri, i colonizzati, le donne, quindi per stratificazioni successive i proletari, gli ebrei, gli arabi, gli omosessuali, i matti, gli zingari e ora i migranti, i rifugiati, i carcerati, i precari e tutto ciò che il sistema capitalista considera un’eccedenza, un fastidioso sovranumero da cui sbarazzarsi.
Paria è il membro di una casta inferiore in una società che si enuncia senza caste, paradosso di un’uguaglianza dei diritti meramente formale ma la cui presenza rivela l’ipocrisia di persistenti asimmetrie sociali, economiche, culturali, etniche, religiose, sessuali, di genere che sorreggono nuove barriere invisibili.
L’immaginario del paria scandaglia con la sua rappresentazione potente le vite inedite dell’oppressione e dell’esclusione ma al tempo stesso offre loro una forma d’espressione, mette in evidenza la doppia genealogia dell’universalismo: la sua sconfitta storica ma anche la sua capacità d’infondere spirito di resistenza. Il paria è la coscienza critica dell’universalismo inespresso, protagonista indefesso di una tradizione nascosta, come osserva Hannah Arendt parlando di «paria ribelle». Non solo umiliati e offesi, mute e anonime figure di un sempiterno ciclo dei vinti ma anche protagonisti di un «disprezzo sovrano» verso l’oppressione, renitenti all’ordine che li esclude, refrattari ad ogni ragione compromissoria offerta da una società che non lascia più posto.

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