Il Berlinguer falso alla mostra del Berlinguer vero

All’ex mattatoio di Testaccio a Roma si è tenuta la mostra organizzata dall’associazione Enrico Berlinguer, patrocinata dall’assessorato alla cultura del comune e dalla Fondazione Gramsci

Era lì in bella mostra, esposto su un enorme tavolo che raccoglieva un centinaio di pubblicazioni dedicate a lui, Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista italiano dal 1972 al 1984. Si tratta di un famoso falso editoriale, apparso nel 1977, a nome di Enrico Berlinguer, ma preso ancora oggi per vero, tanto da trovarsi mischiato con gli altri volumi scritti o dedicati al segretario del Pci. Titolo: Lettere agli eretici. Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana, Einaudi, Nuovo Politecnico 99, Febbraio 1977, 120 pagine. Testo scritto, poi si scoprì, da un situazionista torinese, PierFranco Ghisleni che sbeffeggiò in questo modo il segretario del più grande partito comunista d’Occidente, l’ultimo dei grandi segretari indiscussi, magnetici, amati dal popolo comunista. Crollato sul campo di battaglia, colpito da un’emorragia celebrale devastante durante un comizio a Padova, di fronte alla folla che gli chiedeva di smettere mentre bianco in volto, sofferente e con i conati di vomito si aggrappava al microfono per concludere il suo discorso. Una morte tragica ed eroica davanti al suo popolo che lo trasformò in un mito e portò oltre un milione di persone in strada al suo corteo funebre e il Pci a scavalcare per la prima ed unica volta la Dc alle elezioni, anche se erano solo le europee. Tutto questo era raccontato nella esposizione, ricca di materiali documentali e iconografici, organizzata dall’associazione amici di Berlinguer ma pensata soprattutto per i nostalgici.

Ma torniamo al noto falso che colpisce ancora e confonde chi se lo trova tra le mani, come gli espositori stessi. Perché di falsi esposti ve ne erano altri, ma stavolta presentati come tali: il falso numero dell’Unità del lunedì pubblicato dal Male, la micidiale rivista satirica fondata nel 1977 da Pino Zac con Vincino, Angese, Jacopo Fo, Pazienza, Pasquini, Saviane, Perini, il grafico Fascioli e Vincenzo Sparagna, col titolo a caratteri cubitali, «Basta con la DC», che tanti militanti fece sognare e sperare. Un successo di vendite enorme che la diceva lunga su quanto fosse poco amato dalla base del partito il patto scellerato con la Democrazia cristiana, quel «compromesso storico» pensato proprio da Berlinguer, rivelatosi una fallimentare strategia che lo stesso segretario provò a mettere nel cassetto all’inizio degli anni 80 senza riuscire veramente a convincere buona parte dell’apparato del suo partito, ormai non più partito di lotta ma solo di sottogoverno, adagiato sulle comode poltrone delle giunte degli enti locali: comuni, province, regioni e municipalizzate. L’ex ambasciatore Usa, Gardner, scrisse nelle sue memorie che nel 1979 lunga era la fila di parlamentari a amministratori del Pci che attendevano davanti all’ingresso della sua residenza a Villa Taverna. Il console statunitense di Milano dedicò a quel Pci un lungo rapporto realizzato dopo una serie di incontri con l’apparato intermedio, il ventre del partito. Inchiesta realizzata per accertare quanto fosse veritiero e profondo il mutamento antropologico che aveva attraversato quella forza politica.

La lettera agli eretici, scritta dal falso Berlinguer fu un abile e gustoso détournement che incarnava lo spirito irriverente del movimento del ’77, sbeffeggiava il Pci definito «partito dell’intelligenza cinica» ma anche esponenti politici e intellettuali in polemica con Botteghe oscure e a cui sono indirizzate le lettere. Ci sono un po’ tutti i filoni politici, culturali che animavano il conflitto politico all’estrema sinistra nel 1977: i radicali, con Marco Pannella a cui è dedicato il primo capitolo, seguono Adele Faccio e Angelo Pezzana, quest’ultimo tra i fondatori del movimento omosessuale Fuori, quindi è il turno del critico cinematografico Goffredo Fofi, segue un esponente della lotta armata in carcere, definito mister X, Andrea Valcarenghi di Re nudo, Antonio Negri per l’Autonomia e gli Indiani metropolitani per i creativi, vittime della loro stessa irriverenza. Un universo variegato che all’epoca agitava la spazio sociale a sinistra del Pci, suscitando incubi, tormenti e dolori di pancia ai suoi dirigenti.

Si scatenò subito una caccia all’autore misterioso, Einaudi presentò denuncia e Giulio Bollati che all’epoca lavorava in Einaudi replicò su Tuttolibri dando del reazionario all’autore senza nome, «Identikit di un falsario». La risposta di Ghisleni apparve in un libricino, Il Caso Berlinguer e la Casa Einaudi. Corrispondenza recente, a firma di Gianfranco Sanguinetti, peraltro indicato da Bollati come uno dei sospetti autori del falso (lo trovi qui).
Questa storia avrebbe meritato un pannello dedicato all’interno della mostra. Ma così non è stato. D’altronde perché stupirsene in un’epoca che ci ha abituato a non distinguere più il falso dal vero (vedi qui un esempio preso da un sito ipercomplottista caduto nel tranello. Ovvio, altrimenti non sarebbe stato complottista, www.iskrae.eu).

Strage di Bologna, ancora una testimonianza in favore di Mauro Di Vittorio che viveva a Londra tra «ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani»

Terza parte/continua
Le memorie riaffiorano lentamente dalle brume di un tempo lontano ormai 32 anni.

Dopo il salutare scossone provocato dalla nostra inchiesta in difesa della storia di Mauro Di Vittorio, l’ultima delle vittime ad essere stata identificata nella strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, apparsa sul manifesto del 18 ottobre (leggi qui) scorso e nella quale abbiamo smontato il castello di menzogne costruito nel corso di questi ultimi mesi dal parlamentare finiano Enzo Raisi che ha accusato Di Vittorio di essere uno degli artefici dell’attentato, tornano i ricordi, si fanno più nitidi i contorni, si precisano meglio i dettagli.
Si incrina il muro dell’oblio, per questo ci auguriamo che altri ancora diano il loro contributo. Questo blog è pronto a pubblicarli.
Per mesi abbiamo cercato testimonianze che dessero conferma a quanto avevamo già verificato, al materiale documentale raccolto, parole nuove che reincarnassero quelle carte, tornassero a dare loro un’anima, trasformando in un sentimento caldo la memoria di Mauro.

Non è stato facile. 32 anni sono tanti, troppi, soprattutto per doversi difendere all’improvviso da un’accusa che ti prende alle spalle, a tradimento, perché così è dopo che l’incuria del tempo cancella i ricordi, fa scomparire i testimoni, seppellisce le carte sotto cumuli di polvere, in cassetti dimenticati.
Si parla molto delle vittime in Italia. In questo blog ci sono diversi post e articoli apparsi su alcuni quotidiani che affrontano il tema del paradigma vittimario. Ci sembra che questa vicenda stia dimostrando – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come quello delle vittime sia solo un tema strumentale, da mercato politico e giudiziario. Non s’è levata in giro nessuna voce da parte dei “professionisti del dolore” in difesa della memoria di Mauro, nessuno si è preoccupato tra i tanti politici e vertici istituzionali di chiamare Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori mentre un intero schieramento parlamentare appoggiava l’iniziativa di Raisi nel silenzio complice e ipocrita del presidente della camera Gianfranco Fini. E dalle redazioni dei giornali, fatte salve alcune rare eccezioni purtroppo confinate nella locale, solo tanta sufficienza verso quel che accadeva.
Dopo le lettere dei compagni e amici dell’epoca (qui), dopo la testimonianza di Luciano Di Santo (qui), amico di Marcello, fratello minore di Mauro, indebolito da una malattia che gli impedisce di lottare per difendere la memoria del fratello, ci arriva un ricordo puntuale di Marco Boccitto, giornalista del manifesto, grande amico di Marcello, che ha conosciuto Mauro fino a subirne il fascino, come si capisce da quel che scrive.

Ecco chi era Mauro Di Vittorio
di Marco Boccitto

Ho conosciuto Mauro Di Vittorio all’inizio dell’estate 1980 tramite suo fratello Marcello, uno dei miei primi e “migliori amici”.
Mi colpì subito per le vibrazioni lunghe e serene che emanava, l’approccio libero e disilluso alle lacerazioni che viveva all’epoca il movimento, la filosofia senza smanie di chi sa vivere bene con poco. La decrescita felice non sapevamo neanche cosa fosse, ma lui la praticava con buonissimi esiti. Se ne stava a Londra, in cerca di niente e in attesa di tutto. Diceva che era fantastico, che era pieno di squat in cui vivere e se pure non trovavi lavoro ti davano un sussidio con cui tirare avanti. Parlava di ganja, amicizie intercontinentali, indiani d’India e indiani metropolitani, dei suoi vicini ghanesi e giamaicani, di come il reggae incontrava il punk, insomma l’Inghilterra vista da Brixton, il sobborgo in cui abitava. Difficile mettere d’accordo quei suoi racconti con le rivolte che incendieranno il quartiere di lì a un anno. Difficile anche associare quel suo approccio a un concetto negativo come quello di «riflusso». Ma ancor più difficile è ipotizzare un suo essere altro da questo. «Sai che c’è – gli dissi – se è davvero così ti vengo a trovare…». E lui: «Magari! Da fine luglio sarò di nuovo lì, se vieni puoi stare da me».
Non me lo feci ripetere.  Una sera d’inizio agosto ero davanti alla porta di casa sua, in un fatiscente condominio di squat, a Barrington Road. Con Mauro vivevano una ragazza sarda che forse studiava, un ragazzo veneziano che faceva il cuoco e un altro ancora di cui non ricordo. Di nessuno rammento i nomi. Aperta la porta mi spiegarono che Mauro non c’era, che anche in base a quel che sapevano loro sarebbe dovuto essere lì già da qualche giorno. Chissà, decidemmo, si sarà perso in qualcuno dei suoi giri sconvolgenti. Arriverà. «Intanto puoi dormire nella sua stanza», mi dissero. E così feci. Mi sistemai tra le sue poche cose felici, tra i cylum e gli economici Feltrinelli della beat generation, e malgrado fossi al verde provai a godermi la vacanza in sua attesa.
Qualche tempo dopo gli lasciai un biglietto, qualcosa del tipo «bella sòla che sei, chissà in che trip ti sei perso, grazie comunque x l’ospitalità e alla prossima». Tornato in Italia, il fratello mi parlò del diario bruciacchiato ritrovato sotto le macerie e della storia che conteneva. La spiegazione assurda, ma più che plausibile – anche e me avevano fatto un sacco di storie a Dover perché in tasca avevo solo pochi spicci – del perché Mauro non fosse lì dove doveva stare.

Per saperne di più
Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
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