L’uso della tortura negli anni di piombo

Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contratstare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. A differenza degli altri pezzi, questa volta l’intervento di Sofri non ha richiami in prima ma si trova confinato nella pagina delle lettere, nella tribuna dedicata alle opinioni marcatamente esterne, estemporanee, a sottolineare la presa di distanza da qusta vicenda della nave ammiraglia scalfariana. Nonostante ciò il muro del silenzio ogni giorno che passa mostra sempre nuove crepe

Adriano Sofri, la Repubblica 16 Febbraio 2012

A prima vista, la notizia è che negli anni ’70 e ’80 ci fu un ricorso non episodico a torture di polizia nei confronti di militanti della “lotta armata” – e non solo. È quello che riemerge da libri (Nicola Rao, Colpo al cuore), programmi televisivi (“Chi l’ha visto“), articoli (come l’intervista del Corriere a Nicola Ciocia, già “professor De Tormentis”, questore in pensione). Non è una notizia se non per chi sia stato del tutto distratto da simili inquietanti argomenti. Nei primi anni ’80 le denunce per torture raccolte da avvocati, da Amnesty e riferite in Parlamento furono dozzine.

A volte la cosa “scappava di mano”, come nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi Scalfaro, che era allora ministro dell’Interno, dichiarò: “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia e ne è uscito morto”. Era un giovane mafioso, fu picchiato e torturato col metodo della “cassetta”: un tubo spinto in gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la trachea, il cadavere fu portato su una spiaggia per simularne l’annegamento in mare. Alla notte di tortura parteciparono o assistettero decine di agenti e funzionari. Avevano molte attenuanti: era stato appena assassinato un valoroso funzionario di polizia, Beppe Montana, “Serpico”. All’indomani della denuncia di Scalfaro, e delle destituzioni da lui decise, la mafia assassinò il commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Una sequenza terribile, ma le attenuanti si addicono poco al ricorso alla tortura, il cui ripudio è per definizione incondizionato. Repubblica sta ricostruendo la tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, “reo confesso” nel 1976 dell’assassinio ad Alcamo di due carabinieri, condannato all’ergastolo e detenuto per 22 anni: finché uno dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità.
L’elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, ai cinque autori del sequestro Dozier, Padova 1982… In tutte queste circostanze operavano (è il verbo giusto: noi siamo come i chirurghi, dirà Ciocia, “una volta cominciato dobbiamo andare fino in fondo”) due squadre chiamate grottescamente “I cinque dell´Ave Maria” e “I vendicatori della notte”. Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padovane al tempo di Dozier e stralciato grazie all’immunità parlamentare, infine pensionato: “Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale”. Quel modo di tortura – accompagnato da sevizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni simulate; ed efferatezze sessuali nei confronti di militanti donne – non si chiamava ancora waterboarding, e non era un genere di importazione. Lo si usava già coi briganti ottocenteschi. Fu una specialità algerina negli anni ’50. Addirittura, quando Rao chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della Cia che assistettero agli interrogatori per Dozier fossero rimasti stupefatti per quello che vedevano, lui risponde: “Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori… Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori!”.
Costui accetta di parlare con Rao, che non ne rivela ancora il nome. Solo quel soprannome, “professor De Tormentis”. Il 23 marzo 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. “Ieri sera ho ascoltato con molta attenzione il discorso del ministro e ne ho tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!”.

Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull’Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l’avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant’anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però “da sempre fascista mussoliniano”.
Ecco qual’è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l’esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori.

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Torture contro i militanti della lotta armata

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Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti: «I vertici di Polizia sapevano»

Parla l’ex capo dei Nocs Salvatore Genova: «Torture ai brigatisti ben prima della Diaz»

Matteo Indice
Il Secolo XIX, 17 giugno 2007

Il processo alle torture come in “Alice e il Paese delle meraviglie”: Cesare Di Lenardo, il torturato, è nella gabbia mentre i suoi torturatori seguono le udienze a piede libero

Lo sfogo del superpoliziotto Salvatore Genova è inarrestabile: «Ci sono stati errori incredibili e violenza gratuita al G8, ma dai vertici  della polizia non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi di  un’inchiesta interna, figuriamoci di quella parlamentare, sebbene le  defaillance fossero state segnalate in modo circoscritto dai poliziotti  stessi. E ci furono torture e pestaggi inutili anche nel periodo della  lotta al terrorismo, nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Ma  allora, come oggi, nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza,  lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati  dall’avviare i doverosi accertamenti. Si è preferito, in base a logiche di  potere, lasciare che l’opinione pubblica rimanesse nell’incertezza, con il  risultato di delegittimare tutto il Corpo».
Sul tavolo della sua scrivania ci sono i carteggi degli ultimi quindici  anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero  uno, Gianni De Gennaro. Informative «personali», «strettamente riservate» nelle quali Salvatore Genova – che nel gennaio del 1982 liberò a Padova il  generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse – chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione. Ovvero: le torture alle quali almeno cinque brigatisti vennero sottoposti nella sede del Reparto mobile di Padova. Un episodio per il quale lo stesso Genova è stato indagato (mai processato, poiché nel frattempo era stato eletto alla Camera, ndr) e che in primo grado portò il tribunale della città veneta a profilare l’esistenza «d’una struttura gestita dalle più alte gerarchie che contemplava l’impiego di metodi violentissimi».


«L’irruzione alla scuola Diaz e l’oscurantismo di cui si è tornati a parlare negli ultimi giorni – dice ora Genova – hanno molti elementi in comune con i fatti di allora. Dimostrano che nella storia d’Italia, nei casi in cui più gravemente la polizia s’è macchiata di aggressioni “politiche” ad opera di gruppi molto ristretti, si è aggirata la strada più coerente, quella dell’inchiesta amministrativa. E il risultato è il malessere diffuso di cui leggiamo ogni giorno». Non arrivano a caso, le parole di Genova, ma sono legate a due procedimenti giudiziari che accomunano, non solo nella suggestione, gli anni ’80 al post G8. È cronaca recentissima la deposizione-choc di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari (oggi imputato) che guidò il blitz alla Diaz la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001: «Ho visto scene da macelleria messicana – ha ribadito ai giudici – la situazione era completamente fuori controllo».
Salvatore Genova di quella storia è stato testimone indiretto, in questi giorni ha avuto contatti con i magistrati che sostengono l’accusa. Poco dopo la conclusione del vertice, scrisse una dettagliata relazione a Roma sulla disastrosa gestione dell’ordine pubblico, chiedendo di approfondire la materia ma senza mai ricevere risposta.
Di pari passo agli “squarci” sul G8, la segnalazione del responsabile del Sisde, Franco Gabrielli, nell’analisi presentata al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il capo degli 007, nel paventare una saldatura fra vecchie e nuove leve dell’estremismo, s’è detto preoccupato per l’imminente scarcerazione di Cesare Di Lenardo (1), “irriducibile” arrestato per il sequestro Dozier e che con la sua denuncia fece alzare il velo sulle torture. «La coincidenza – spiega il superpoliziotto Genova – mi ha spinto a espormi. Sono alla soglia della pensione, posso permettermi dopo trent’anni di servizio di svelare alcuni dei mali profondi della polizia, quelli che a volte hanno inciso profondamente sull’opinione pubblica, delegittimando la dedizione di migliaia di operatori che ogni giorno sono sulla strada».
Il racconto inizia dal G8, dalle ore che hanno preceduto il blitz alla Diaz. «Con poche centinaia di uomini – ricorda Genova – dovevamo fronteggiare in stazione il deflusso di oltre ventimila manifestanti. Improvvisamente il supporto del Reparto Mobile, fondamentale, venne meno perché furono dirottati altrove, in vista dell’irruzione. Siamo rimasti praticamente “nudi”. Potevano massacrarci. Eppure il confronto è stato gestito senza drammi, dialogando con i dimostranti. Nel frattempo, ascoltavamo via radio quello che si stava preparando altrove e veniva da rabbrividire, con funzionari arrivati da fuori che non conoscevano minimamente la città e dovevano gestire situazioni delicatissime. Abbiamo telefonato decine di volte alla centrale operativa della questura – continua il poliziotto – dicendo che Brignole poteva trasformarsi in una mattanza. Abbiamo dovuto spegnere le televisioni che facevano rimbalzare le immagini dei pestaggi nella scuola, per non infiammare gli animi. Ebbene, in quel contesto, i superiori ci hanno lasciato in cinquanta, davanti a ventimila.
E io mi sono chiesto chi fossero realmente i “nemici”, gli avversari, se forse non stessero dalla nostra stessa parte».
Le stesse considerazioni, in un dettagliato resoconto scritto, sono sul tavolo di almeno tre altissimi funzionari romani, che si sono ben guardati dall’approfondire la vicenda. Come mai nessuno, nonostante le ultime lettere risalgano al 2005, ha voluto indagare sulle torture? «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – ricorda Genova – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». E denuncia: «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?” (La sua “dissociazione” permise centinaia di arresti, ndr). Le violenze avvenivano di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone sbagliate. Le stesse che ancora oggi, pur assolte, continuano a ricevere minacce. E allora: perché per quasi vent’anni, a dispetto delle reiterate sollecitazioni, non si è mai voluta affrontare sul serio quella pagina?».
Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco “I cinque dell’Ave Maria”. Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità, le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato».

(1) Contrariamente a quanto affermato dal capo del Sisde Cesare Di Lenardo non è mai stato scarcerato. Ha ormai raggiunto il suo trentesimo anno di detenzione.

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Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
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