Torture in Italia: Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti

L’inchiesta – Si fa sempre più esile il velo dietro il quale si nasconde l’identità del capo (conosciuto con l’eteronimo di “De Tormentis”) della squadretta speciale della polizia (chiamata “i cinque dell’ave maria”) che tra il 1978 e i primi anni ’80 torturò i militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse per estorcere informazioni da impiegare nelle indagini


Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011


Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse. Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.
Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.
Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti».
La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».

De Tormentis è in questa foto

Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati». De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico (p. 5), nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.
Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni  nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole.
Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano non è contemplata la tortura tortura).
L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998).
La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».

Postscriptum: potete facilmente scovare il nome del professor De Tormentis cliccando sui link presenti all’interno dell’articolo. Se prorpio andate di fretta, il suo nome è Nicola Ciocia

Per approfondire
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Torture contro i militanti della lotta armata
Torture: Ennio Di Rocco, pocesso verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista Piervittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982

Acca Larentia, le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere

Torno ancora una volta a parlare del libro di Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali“: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer, sul quale non mancheranno altri post in futuro.

Seconda parte

Il libro di Rao contiene anche la testimonianza di Antonio Savasta, collaboratore di giustizia.  Il racconto del più importante pentito delle Brigate rosse dopo Patrizio Peci è molto scadente. Dopo aver riempito migliaia di pagine di verbali Savasta poteva risparmiarsi questa ulteriore fatica. Delle sue parole colpiscono due cose:

1) il tentativo di minimizzare le violenze subite dopo l’arresto nelle ore in cui rimase nelle mani dei Nocs. “De Tormentis” nega di averlo torturato. Le violenze furono opera di altri, impressionante la scena del calcio scagliatogli in piena faccia con rottura del setto nasale, nonostante stesse collaborando da quasi 24 ore, solo perché la base dell’esecutivo nazionale situata a Milano e di cui aveva rivelato l’indirizzo venne trovata vuota.

2) il vizio di riferire fatti che nemmeno conosce formulando ricostruzioni sulla base di proprie convinzioni personali, come il tentativo di coinvolgere la brigata di Torre Spaccata nei fatti di Acca Larentia. In questo caso sospinto anche dalla curiosità di Nicola Rao, autore di numerosi libri sulla storia dell’estrema destra. E’ un po’ di tempo che da più parti si assiste al singolare tentativo di coinvolgere le Brigate rosse nelle uccisioni, rimaste non chiarite, di militanti dell’estrema destra. Se andate su Wikipedia troverete che l’omicidio di Mario Zicchieri, giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso davanti alla sua sezione nel quartiere Prenestino di Roma, viene attribuita ad un commando brigatista nonostante nell’ottobre 1975 non esistesse ancora nessuna colonna romana delle Brigate rosse. E quando questa nacque nel corso del 1976, dopo un laborioso lavorio di contatti e discussioni, le basi politiche della sua azione furono molto chiare e nette distinguendosi, come nel resto delle altre colonne, dalla pratica dell’antifascismo militante. Le Br erano veute a Roma per colpire il cuore dello Stato, non certo per alzare il tiro in un sterile guerra tra giovani di opposti colori politici. Al centro della loro azione c’era il sistema politico democristiano ed il 7 gennaio 1978 erano impegnate in ben altre faccende. Stavano mettendo a punto il rapimento del presidente della democrazia cristiana Aldo Moro, preso in via Fani 78 giorni dopo.

Pubblichiamo di seguito una documentata risposta alle inesatte affermazioni di Savasta.

Torture, “pentimenti” e falsità. Recensione del libro di Nicola Rao “Colpo al cuore”

di Sandro Padula

Il “professor de tormentis” e il “pentito” Antonio Savasta ricordano e rivendicano rispettivamente le torture e le delazioni per combattere le Brigate Rosse nell’Italia degli ultimi anni ’70 e dei primi anni ‘80. Questo, in sintesi, è il contenuto del saggio-inchiesta di Nicola Rao «Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata» (casa editrice Sperling&Kupfer, ottobre 2011), un libro utile per conoscere meglio il clima da Santa Inquisizione determinatosi in quel periodo storico della società italiana.

Il “professor de tormentis”, poliziotto “anonimo” esperto in torture con acqua e sale, a dire il vero non inventò proprio nulla.
La tortura chiamata “algerina”, meglio nota nel XXI secolo con il termine waterboarding perché praticata dagli Usa a Guantanamo, in Italia venne usata diverse volte dai carabinieri e dalla polizia.
Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo “anti-terrorismo” di Napoli, che in provincia di Trapani partecipò alle prime indagini sulla “strage di Alcamo Marina” del 27 gennaio 1976, quando furono uccisi due carabinieri all’interno di una casermetta, ha raccontato di aver visto usare questo tipo di tortura per estorcere delle confessioni. Sia Giuseppe Vesco –  ragazzo dalle idee anarchiche e principale imputato poi “suicidatosi” in carcere il 26 ottobre 1976 –  che altri giovani accusati furono costretti ad ingoiare numerosi quantitativi di acqua e sale tramite degli imbuti inseriti in bocca.
Senza dubbio l’uso più sistematico della tortura a suon di acqua e sale, magari condita da scosse elettriche e sigarette spente sui corpi,  avvenne dopo il decreto legge del 21 marzo 1978 n. 59 che autorizzava gli interrogatori delle persone arrestate senza la presenza dell’avvocato e del magistrato.
Grazie a quella misura legislativa i governanti, i partiti di supporto alla maggioranza parlamentare denominata “solidarietà nazionale” e il Consiglio Superiore della Magistratura, agente come consigliere delle leggi speciali da introdurre, si assunsero la responsabilità politica di tutte le successive torture usate dalle forze dell’“ordine” contro le Br e le altre organizzazioni sovversive.

Neppure l’ex br Antonio Savasta, con le confessioni estorte durante l’”algerina”a cui fu sottoposto dopo il suo arresto del 28 gennaio 1982, inventò qualcosa di nuovo. Da quando mondo è mondo si sa che le persone torturate spesso dicono cose vere e cose false insieme.
Il fatto curioso è che oggi, spinto dalle sole domande di Nicola Rao, Savasta da un lato  racconti qualcosa di autentico e indiscutibile del proprio percorso politico degli anni ’70, ad esempio ricordando le lotte per la casa nella borgata romana di  San Basilio, e dall’altro senta il bisogno di sparare giudizi su fatti di cui non conosce letteralmente nulla e, fra una congettura e l’altra, di attribuire alle Br romane, e in particolare alla brigata di Torre Spaccata, una sorta di probabile responsabilità politica dell’azione sanguinaria avvenuta il 7 gennaio 1978 contro i neofascisti del Msi di via Acca Larentia.
Nicola Rao, giornalista esperto dei fenomeni di destra e di destra radicale, cercava forse di fare uno scoop e quindi non si è per niente preoccupato di verificare l’attendibilità sul piano storico di tale ipotesi prodotta dal “pentito” in questione.

Facciamo allora un salto all’indietro nel tempo per capire come stanno davvero le cose.
Il 7 dicembre del 1976 le Br romane rivendicarono gli attentati contro le autovetture di uomini politici come Vittorio Ferrari, consigliere democristiano alla quinta circoscrizione, e Umberto Gioia, segretario della Dc di Torre Spaccata.
(http://www.archivio900.it/it/documenti/doc.aspx?id=277).
Pensavano che attaccando il regime democristiano sarebbe stato possibile mettere in crisi il sistema politico, leggi liberticide comprese, ed aprire nuovi spazi politici ai movimenti di lotta del proletariato.
In maniera opposta ragionavano i neofascisti che nella Roma del 1977 ferirono Guido Bellachioma e uccisero Walter Rossi. E in maniera diversa operavano i militanti dei Nuclei Armati di Contropotere territoriale che il 7 gennaio 1978 realizzarono un assalto contro la sede del Movimento Sociale Italiano (MSI) a via Acca Larentia, nella zona romana dell’Appio-Tuscolano, che provocò la morte di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta.
Dopo quest’ultima tragedia nella capitale si intensificarono le azioni armate dei neofascisti contro i giovani di sinistra ma in quel periodo, com’è riconosciuto da tutti gli storici degni di questo nome, le Br cercarono sempre di canalizzare il sovversivismo rosso nella lotta contro il regime democristiano.
Per tutte queste ragioni è priva di fondamento l’idea di Antonio Savasta, riportata nel saggio-inchiesta di Nicola Rao, secondo cui dietro l’agguato di Acca Larentia forse ci sarebbe stata la colonna romana delle Br e in particolare la brigata di Torre Spaccata.
Antonio Savasta entrò nelle Br nei primi mesi del 1977, quando la colonna romana delle Br e la brigata di Torre Spaccata già esistevano in termini logistici e operativi. Non sapeva nulla, se non qualcosa di vago e solo per sentito dire da altri sentito dire, a proposito della strutturazione della colonna romana avvenuta nel biennio 1975-1976 e in riferimento alla composizione assunta nel corso degli anni dalla brigata di Torre Spaccata.
Pensava di essere entrato nella colonna romana prima della nascita della brigata di Torre Spaccata ma questa convinzione è sbagliata. Riteneva inoltre che ci sarebbe stata equivalenza fra un gruppo di 7 presunti ex militanti di Viva il comunismo confluiti nelle Br, fra cui inserisce addirittura un ex militante di base del Partito Socialista Italiano, e la brigata di Torre Spaccata. Anche questa idea risulta però priva di fondamento.
La brigata di Torre Spaccata, oltre a non svolgere le proprie attività nell’area dell’Appio-Tuscolano,  non effettuò mai delle riunioni interne con i 7 presunti ex militanti di Viva il comunismo elencati da Savasta, anche perché una brigata poteva essere composta dai 3 ai 5 aderenti, nelle Br non si entrava in gruppo ma singolarmente e i brigatisti rossi abitanti nel quartiere non avevano mai fatto parte di Viva il comunismo.
Nel 1978 le brigate romane seguirono sempre la linea ufficiale e nazionale delle Br. Già dall’estate del 1977 avevano discusso i documenti preparatori della Risoluzione Strategica del febbraio 1978. Sapevano in termini politici che l’organizzazione stava preparando un fortissimo attacco alla Democrazia Cristiana. Condivisero quella linea politica e se ne assunsero la responsabilità.

Tutto questo significa che il saggio-inchiesta di Nicola Rao merita di essere letto sapendo ben distinguere, fra le sue righe, il vero dal falso!

2/Fine

Link
Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
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Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti

Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti: «I vertici di Polizia sapevano»

Parla l’ex capo dei Nocs Salvatore Genova: «Torture ai brigatisti ben prima della Diaz»

Matteo Indice
Il Secolo XIX, 17 giugno 2007

Il processo alle torture come in “Alice e il Paese delle meraviglie”: Cesare Di Lenardo, il torturato, è nella gabbia mentre i suoi torturatori seguono le udienze a piede libero

Lo sfogo del superpoliziotto Salvatore Genova è inarrestabile: «Ci sono stati errori incredibili e violenza gratuita al G8, ma dai vertici  della polizia non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi di  un’inchiesta interna, figuriamoci di quella parlamentare, sebbene le  defaillance fossero state segnalate in modo circoscritto dai poliziotti  stessi. E ci furono torture e pestaggi inutili anche nel periodo della  lotta al terrorismo, nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Ma  allora, come oggi, nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza,  lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati  dall’avviare i doverosi accertamenti. Si è preferito, in base a logiche di  potere, lasciare che l’opinione pubblica rimanesse nell’incertezza, con il  risultato di delegittimare tutto il Corpo».
Sul tavolo della sua scrivania ci sono i carteggi degli ultimi quindici  anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero  uno, Gianni De Gennaro. Informative «personali», «strettamente riservate» nelle quali Salvatore Genova – che nel gennaio del 1982 liberò a Padova il  generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse – chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione. Ovvero: le torture alle quali almeno cinque brigatisti vennero sottoposti nella sede del Reparto mobile di Padova. Un episodio per il quale lo stesso Genova è stato indagato (mai processato, poiché nel frattempo era stato eletto alla Camera, ndr) e che in primo grado portò il tribunale della città veneta a profilare l’esistenza «d’una struttura gestita dalle più alte gerarchie che contemplava l’impiego di metodi violentissimi».


«L’irruzione alla scuola Diaz e l’oscurantismo di cui si è tornati a parlare negli ultimi giorni – dice ora Genova – hanno molti elementi in comune con i fatti di allora. Dimostrano che nella storia d’Italia, nei casi in cui più gravemente la polizia s’è macchiata di aggressioni “politiche” ad opera di gruppi molto ristretti, si è aggirata la strada più coerente, quella dell’inchiesta amministrativa. E il risultato è il malessere diffuso di cui leggiamo ogni giorno». Non arrivano a caso, le parole di Genova, ma sono legate a due procedimenti giudiziari che accomunano, non solo nella suggestione, gli anni ’80 al post G8. È cronaca recentissima la deposizione-choc di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari (oggi imputato) che guidò il blitz alla Diaz la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001: «Ho visto scene da macelleria messicana – ha ribadito ai giudici – la situazione era completamente fuori controllo».
Salvatore Genova di quella storia è stato testimone indiretto, in questi giorni ha avuto contatti con i magistrati che sostengono l’accusa. Poco dopo la conclusione del vertice, scrisse una dettagliata relazione a Roma sulla disastrosa gestione dell’ordine pubblico, chiedendo di approfondire la materia ma senza mai ricevere risposta.
Di pari passo agli “squarci” sul G8, la segnalazione del responsabile del Sisde, Franco Gabrielli, nell’analisi presentata al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il capo degli 007, nel paventare una saldatura fra vecchie e nuove leve dell’estremismo, s’è detto preoccupato per l’imminente scarcerazione di Cesare Di Lenardo (1), “irriducibile” arrestato per il sequestro Dozier e che con la sua denuncia fece alzare il velo sulle torture. «La coincidenza – spiega il superpoliziotto Genova – mi ha spinto a espormi. Sono alla soglia della pensione, posso permettermi dopo trent’anni di servizio di svelare alcuni dei mali profondi della polizia, quelli che a volte hanno inciso profondamente sull’opinione pubblica, delegittimando la dedizione di migliaia di operatori che ogni giorno sono sulla strada».
Il racconto inizia dal G8, dalle ore che hanno preceduto il blitz alla Diaz. «Con poche centinaia di uomini – ricorda Genova – dovevamo fronteggiare in stazione il deflusso di oltre ventimila manifestanti. Improvvisamente il supporto del Reparto Mobile, fondamentale, venne meno perché furono dirottati altrove, in vista dell’irruzione. Siamo rimasti praticamente “nudi”. Potevano massacrarci. Eppure il confronto è stato gestito senza drammi, dialogando con i dimostranti. Nel frattempo, ascoltavamo via radio quello che si stava preparando altrove e veniva da rabbrividire, con funzionari arrivati da fuori che non conoscevano minimamente la città e dovevano gestire situazioni delicatissime. Abbiamo telefonato decine di volte alla centrale operativa della questura – continua il poliziotto – dicendo che Brignole poteva trasformarsi in una mattanza. Abbiamo dovuto spegnere le televisioni che facevano rimbalzare le immagini dei pestaggi nella scuola, per non infiammare gli animi. Ebbene, in quel contesto, i superiori ci hanno lasciato in cinquanta, davanti a ventimila.
E io mi sono chiesto chi fossero realmente i “nemici”, gli avversari, se forse non stessero dalla nostra stessa parte».
Le stesse considerazioni, in un dettagliato resoconto scritto, sono sul tavolo di almeno tre altissimi funzionari romani, che si sono ben guardati dall’approfondire la vicenda. Come mai nessuno, nonostante le ultime lettere risalgano al 2005, ha voluto indagare sulle torture? «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – ricorda Genova – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». E denuncia: «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?” (La sua “dissociazione” permise centinaia di arresti, ndr). Le violenze avvenivano di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone sbagliate. Le stesse che ancora oggi, pur assolte, continuano a ricevere minacce. E allora: perché per quasi vent’anni, a dispetto delle reiterate sollecitazioni, non si è mai voluta affrontare sul serio quella pagina?».
Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco “I cinque dell’Ave Maria”. Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità, le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato».

(1) Contrariamente a quanto affermato dal capo del Sisde Cesare Di Lenardo non è mai stato scarcerato. Ha ormai raggiunto il suo trentesimo anno di detenzione.

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Le torture contro i militanti della lotta armata