La proposta indecente: verità sulle torture solo se gli irriducibili vengono in commissione Moro

La morte dell’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni che nel 1982 diede il via libera all’uso della tortura contro le persone arrestate per fatti di lotta armata, decisione deliberata dopo una riunione del Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza dell’8 gennaio 1982, rimette al centro dell’attenzione un episodio accaduto durante i lavori della Commissione Moro 2. Un baratto fu proposto da alcuni esponenti di rilievo della Commisssione parlamentare d’inchiesta che stava nuovamente indagando sul sequestro e l’uccisione dello statista democristiano: l’organo parlamentare d’inchiesta si sarebbe occupato per la prima volta delle torture inferte a Enrico Triaca, il tipografo delle Brigate rosse romane arrestato il 17 maggio 1978, e della struttura del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, che praticò in maniera sistematica il waterboarding e altre violenza durante gli interrogatori contro gli inquisiti per lotta armata arrestati nel corso del 1982. In cambio si chiedeva agli ex brigatisti «irriducibili» (non dissociati e non collaboranti) che in passato avevano rifiutato ogni contatto con le commisssioni parlamentari d’inchiesta di mutare atteggiamento accetando le convocazioni. La proposta appariva tanto più ipocrita perché formulata proprio da quei settori politici che con più forza denunciavano l’esistenza di un patto di omertà stipulato in passato tra brigatisti e settori dello Stato, accordo che avrebbe «tombato la verità sul sequestro Moro».
La vicenda è stata raccontata nei dettagli nel volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro. pp. 209-219.

La proposta indecente

ll 21 gennaio 2016 il deputato Fabio Lavagno depositò in Commissione una richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture. «Come anticipato in varie sedi – scriveva Lavagno – ritengo che il tema delle torture sia d’interesse per la Commissione». Nel testo si chiedeva la convocazione dell’ex tipografo Enrico Triaca, torturato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro. Si indicava il nome di Nicola Ciocia, che in diverse circostanze ammise di essere stato il torturatore di Triaca: ex funzionario dell’Ucigos in pensione, conosciuto col soprannome di «De Tormentis», titolo di un trattato medievale che regolamentava l’uso delle torture per realizzare gli interrogatori.(1) Il nomignolo gli era stato attribuito da Umberto Improta, (anch’egli importante dirigente dell’Ucigos, protagonista delle inchieste contro i gruppi armati), per le indiscutibili competenze dimostrate da Ciocia in materia di interrogatori non ortodossi. Immortalato alle spalle di Cossiga, in via Caetani, davanti al cadavere di Moro rannicchiato nel portabagagli della Renault 4 color amaranto, Ciocia era un indubbio personaggio: di simpatie dichiaratamente fasciste, nel gennaio 2001 su un mensile massonico, «Il razionale», aveva esaltato le tesi del giurista del regime mussoliniano Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), rivendicando per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 aveva avuto rapporti con Fiamma tricolore di cui era stato commissario per la Federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, aveva partecipato come difensore di un funzionario di polizia, tra il 1986-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br-Partito guerriglia, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al sistema giudiziario, che solo in uno stato di eccezione, come quello italiano, si è arrivati a consentire. Su Ciocia raccolsi uno sconcertante aneddoto dalla voce di Massimo Bordin, compianto conduttore della rassegna stampa di Radio radicale e memoria storica dei maxi processi dell’emergenza antiterrorismo. Massimo mi spiegò che l’ex questore, divenuto avvocato, Nicola Ciocia aveva tenuto la difesa di un poliziotto, suo subordinato quando era ancora in servizio, nel processo sul rapimento Cirillo: «Come si può dimenticare quel personaggio!», esclamò quando gli chiesi di lui. Ciocia – mi raccontò Bordin – «aveva iniziato il controinterrogatorio di un imputato che lui stesso aveva interrogato durante le indagini. Con fare aggressivo lo incalzava dicendogli: – ma come, non ti ricordi quando con le lacrime agli occhi mi dicevi queste cose? E l’imputato: – Avvoca’ ma quelle non erano lacrime, erano i suoi sputi!». (2) In una intervista parlando delle torture inflitte ai brigatisti, Ciocia dichiarò: «la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». (3) Tra le richieste di convocazione c’erano anche tre giornalisti: Matteo Indice, Nicola Rao e Fulvio Bufi, che avevano svolto un importante lavoro d’inchiesta sulle torture; (4) altri due poliziotti, Carlo De Stefano e Michele Finocchi, che gestirono Triaca prima e dopo il waterboarding; (5) il magistrato Imposimato che ignorò le sue denunce. C’erano, inoltre, il nome dell’avvocato Romeo, che si era occupato di far riconoscere dalla Corte di appello di Perugia l’uso della «tecnica dell’annegamento simulato», impiegato contro Triaca durante l’interrogatorio realizzato nella notte del 17 maggio 1978; (6) infine Marco Pannella, che aveva denunciato, in Parlamento e fuori, la stagione delle torture e raccolto le ammissioni del Ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni: «Ricordo – aveva scritto Pannella – la mattina in cui, dinanzi al tabaccaio di noi deputati, a Montecitorio, incontrai il Ministro dell’Interno e “amico” Virginio Rognoni. Gli dissi che avevamo registrato la sera prima una tribuna autogestita, con Emma Bonino che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Leonardo, un brigatista arrestato e torturato nelle ultime ore del rapimento del generale americano Dozier. Gli chiesi se fosse a conoscenza del fatto, e dei documenti che noi in tal modo rendevamo televisavamente “pubblici”. Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento, e dopo un istante sbottò: “Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini…”. La tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno, sulla grande stampa, in Parlamento, nella magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene». (7) Nicola Ciocia era sfuggito alle poche inchieste della magistratura che si erano occupate delle violenze contro i fermati e gli arrestati. Nelle maglie degli ingranaggi processuali finirono invece Salvatore Genova, un commissario della Digos genovese che aveva contribuito alle indagini e alcuni agenti dei Nocs che avevano direttamente partecipato alla liberazione del generale James Lee Dozier, il 28 gennaio 1982. Il generale americano vicecapo della Fatse, il Comando delle forze terrestri della Nato per il Sud Europa, era stato rapito dalla colonna veneta delle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. L’inchiesta accertò le violenze commesse contro Cesare Di Lenardo, catturato insieme a Emanuela Frascella, Emilia Libèra, Giovanni Ciucci e Antonio Savasta, all’interno della base di via Pindemonte 2 a Padova, dove era tenuto prigioniero il generale statunitense. Di Lenardo, che ha raggiunto il suo quarantesimo anno di detenzione in una struttura di Massima sicurezza, fu portato all’esterno della caserma della celere di Padova, dove era trattenuto con gli altri quattro coimputati, e sottoposto a una finta fucilazione, a un tentativo di waterboarding che gli causò una rottura del timpano, a ripetute bruciature di sigaretta e posizionamento di elettrodi sul corpo e sui genitali in particolare. (8)
Salvatore Genova nel 2007 ruppe il si lenzio sulla vicenda e iniziò a raccontare quanto era accaduto durante le indagini che portarono alla liberazione di Dozier: rivelò nel corso del tempo l’esistenza di un apparato del Ministero dell’Interno dedito agli interrogatori non ortodossi, ricostruì alcuni episodi precedenti la liberazione del generale Usa. Le torture vennero impiegate a largo raggio durante i rastrellamenti negli ambienti dell’Autonomia veneta per raccogliere informazioni che portassero sulla pista giusta. In un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano «L’Arena» del 12 febbraio 2012 l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli, circostanza confermata dallo stesso Genova) furono condotti e «trattati» Nazzareno Mantovani e successivamente Ruggero Volinia, che aveva svolto il ruolo di autista nel sequestro del generale Dozier. A condurrre l’interrogatorio a base di acqua e sale Nicola Ciocia e la sua fedelissima squadra della Mobile napoletana, detti nell’ambiente gli «acquaiuoli». Volinia, dopo il waterboarding condusse la polizia sotto la base-prigione di via Pindememonte dove era tenuto Dozier. Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al Ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Qui – ha raccontato sempre Salvatore Genova – fu seviziata da Oscar Fiorolli la brigatista Elisabetta Arcangeli. Ultimamente, anche alcuni degli agenti dei Nocs, il reparto speciale delle Polizia di Stato che fece irruzione nell’appartamento dove era trattenuto Dozier, hanno abbandonato il riserbo e iniziato raccontare nuovi particolari sulle violenze praticate contro i brigatisti catturati. Si è venuto a sapere che le torture realizzate contro Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, appartenenti al Partito guerriglia, arrestati in via della Vite nel centro di Roma, dove da alcuni giorni erano appostati per tentare di rapire Cesare Romiti, Amministratore delegato della Fiat, avvennero all’interno di una caserma di Monterotondo.La commissione avrebbe potuto offrire un importante servizio alla storia italiana se avesse squarciato la cortina di silenzio calata su questi aspetti della lotta contro le formazioni della sinistra armata. Una rimozione che ha visto la complicità estesa della magistratura, salvo rare eccezioni, la copertura del sistema politico e il bavaglio messo ai media che provarono a denunciare gli episodi venuti alla luce e che assomigliò pericolosamente, in alcuni momenti, a quanto succedeva nello stesso momento in Argentina.Si arrivò addirittura all’arresto di due giornalisti, PierVittorio Buffa e Luca Villoresi, che in due articoli apparsi su «l’Espresso» del 28 febbraio 1982 dal titolo evocativo, «Il rullo confessore», e su «Repubblica» del 18 marzo successivo, «Ma le torture ci sono state? Viaggio nelle segrete stanze. Quei giorni dell’operazione Dozier», avevano raccolto da fonti interne alla Polizia indisponibili ad accettare il ricorso alla tortura le informazioni per denunciare quanto stava accadendo.

Il baratto della verità
Inizialmente la richiesta delle audizioni sulla tortura non sortì reazioni, poi trapelò una singolare offerta di scambio: la Commissione avrebbe convocato Triaca e Ciocia se i brigatisti «irriducibili» avessero accettato di venire a testimoniare. La responsabilità di avviare finalmente il riconoscimento della stagione delle torture ricadeva dunque sulle loro spalle, non sul mandato istituzionale che la Commissione d’indagine parlamentare si era dato. L’offerta che arrivò, a me e a Marco Clementi perché ce ne facessimo carico e la comunicassimo agli ex brigatisti, con cui eravamo in contatto nel periodo di preparazione del volume sulla storia delle Brigate rosse, era ovviamente irricevibile. Né io, né Clementi, riferimmo la proposta. Approfondire la vicenda delle torture, convocare Triaca e Ciocia, interrogarli e ricostruire quel periodo, fare luce sugli organigrammi, risalire la scala delle responsabilità, oltretutto ormai penalmente prescritte, per sapere da dove venne l’ordine di impiegare anche mezzi illeciti di interrogatorio, perché fu presa quella scelta, il ruolo e le connivenze col mondo politico e la magistratura, il peso avuto dagli Stati Uniti, spettava alla Commissione. Prevalse invece la cultura del sotterfugio, l’anima torbida di un potere che si percepisce al disopra del bene e del male. Nel gennaio 2020 Nicola Ciocia è deceduto portando con se i segreti di quella stagione: «Non sono segreti che riguardano la mia persona – aveva spiegato a Nicola Rao nel 2011 – sono segreti che riguardano qualcosa di ben più grande e di molto più importante: sono segreti che riguardano lo Stato […] Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti […] non sono cose mie, ma sono cose che riguardano lo Stato, non posso dire nulla di più di quello che ho detto. Me le porterò nella tomba».

Note
1 P. Persichetti, «Liberazione», 11 dicembre 2011, Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti, in https://insorgenze.net/2011/12/10/de-tormentis-e-venuto-il-momento-di-farsi-avanti/.
2 P. Persichetti in, https://insorgenze.net/2019/04/18/massimo-bordin-e-quel-ricordo-di-un-torturatore/.
3 M. Indice, «Il Secolo XIX», Così ai tempi delle Br dirigevo i torturatori, 24 giugno 2007.
4 M. Indice, «Il Secolo XIX», interviste a Salvatore Genova, 17 giugno 2007; De Tormentis, 24 giugno 2007; Virginio Rognoni, 25 giugno 2007; N. Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer, Milano 2011; F. Bufi, Sono io l’uomo della squadra speciale anti Br, «il Corriere della Sera», 10 febbraio 2012. Tutte queste interviste e altro materiale sulla storia delle torture si possono trovare nella rubrica «Le torture della repubblica» in, https://insorgenze.net/la-polizia-della-storia/.
5 P. Persichetti, https://insorgenze.net/2012/03/29/le-bugie-del-governo-le-torture-possibili-del-sottosegretario-allinterno-prefetto-carlo-de-stefano/.
6 Corte di appello del Tribunale di Perugia, numero sentenza 1130/13. Reg. 70/2013 rev. del 15 ottobre 2013. Si può leggere in, https://insorgenze.net/2014/01/17/gli-anni-spezzati-dalla-tortura-per-la-seconda-volta-una-sentenza-della-magistratura-riconosce-luso-della-tortura-contro-gli-arrestati-per-fatti-di-lotta-armata/.
7 M. Turco, S. D’Elia, Prefazione di M. Pannella, Tortura democratica – Inchiesta sulla comunità del 41 bis reale, Marsilio 2002.
8 Per una esposizione completa delle torture contro Cesare Di Leonardo si rinvia a Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 275-308, (Prima edizione ottobre 1998, seconda edizione febbraio 2002), dove sono presenti alcuni atti istruttori del procedimento penale n. 1040/82A PM e 253/82A GI, tra questi la perizia e il supplemento di perizia medio legale, la requisitoria dl Pm Vittorio Borraccetti e la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio del Gi Mario Fabiani.

Torture in Italia: Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti

L’inchiesta – Si fa sempre più esile il velo dietro il quale si nasconde l’identità del capo (conosciuto con l’eteronimo di “De Tormentis”) della squadretta speciale della polizia (chiamata “i cinque dell’ave maria”) che tra il 1978 e i primi anni ’80 torturò i militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse per estorcere informazioni da impiegare nelle indagini


Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011


Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse. Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.
Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.
Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti».
La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».

De Tormentis è in questa foto

Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati». De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico (p. 5), nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.
Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni  nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole.
Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano non è contemplata la tortura tortura).
L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998).
La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».

Postscriptum: potete facilmente scovare il nome del professor De Tormentis cliccando sui link presenti all’interno dell’articolo. Se prorpio andate di fretta, il suo nome è Nicola Ciocia

Per approfondire
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Torture contro i militanti della lotta armata
Torture: Ennio Di Rocco, pocesso verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista Piervittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982

Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti: «I vertici di Polizia sapevano»

Parla l’ex capo dei Nocs Salvatore Genova: «Torture ai brigatisti ben prima della Diaz»

Matteo Indice
Il Secolo XIX, 17 giugno 2007

Il processo alle torture come in “Alice e il Paese delle meraviglie”: Cesare Di Lenardo, il torturato, è nella gabbia mentre i suoi torturatori seguono le udienze a piede libero

Lo sfogo del superpoliziotto Salvatore Genova è inarrestabile: «Ci sono stati errori incredibili e violenza gratuita al G8, ma dai vertici  della polizia non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi di  un’inchiesta interna, figuriamoci di quella parlamentare, sebbene le  defaillance fossero state segnalate in modo circoscritto dai poliziotti  stessi. E ci furono torture e pestaggi inutili anche nel periodo della  lotta al terrorismo, nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Ma  allora, come oggi, nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza,  lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati  dall’avviare i doverosi accertamenti. Si è preferito, in base a logiche di  potere, lasciare che l’opinione pubblica rimanesse nell’incertezza, con il  risultato di delegittimare tutto il Corpo».
Sul tavolo della sua scrivania ci sono i carteggi degli ultimi quindici  anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero  uno, Gianni De Gennaro. Informative «personali», «strettamente riservate» nelle quali Salvatore Genova – che nel gennaio del 1982 liberò a Padova il  generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse – chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione. Ovvero: le torture alle quali almeno cinque brigatisti vennero sottoposti nella sede del Reparto mobile di Padova. Un episodio per il quale lo stesso Genova è stato indagato (mai processato, poiché nel frattempo era stato eletto alla Camera, ndr) e che in primo grado portò il tribunale della città veneta a profilare l’esistenza «d’una struttura gestita dalle più alte gerarchie che contemplava l’impiego di metodi violentissimi».


«L’irruzione alla scuola Diaz e l’oscurantismo di cui si è tornati a parlare negli ultimi giorni – dice ora Genova – hanno molti elementi in comune con i fatti di allora. Dimostrano che nella storia d’Italia, nei casi in cui più gravemente la polizia s’è macchiata di aggressioni “politiche” ad opera di gruppi molto ristretti, si è aggirata la strada più coerente, quella dell’inchiesta amministrativa. E il risultato è il malessere diffuso di cui leggiamo ogni giorno». Non arrivano a caso, le parole di Genova, ma sono legate a due procedimenti giudiziari che accomunano, non solo nella suggestione, gli anni ’80 al post G8. È cronaca recentissima la deposizione-choc di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari (oggi imputato) che guidò il blitz alla Diaz la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001: «Ho visto scene da macelleria messicana – ha ribadito ai giudici – la situazione era completamente fuori controllo».
Salvatore Genova di quella storia è stato testimone indiretto, in questi giorni ha avuto contatti con i magistrati che sostengono l’accusa. Poco dopo la conclusione del vertice, scrisse una dettagliata relazione a Roma sulla disastrosa gestione dell’ordine pubblico, chiedendo di approfondire la materia ma senza mai ricevere risposta.
Di pari passo agli “squarci” sul G8, la segnalazione del responsabile del Sisde, Franco Gabrielli, nell’analisi presentata al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il capo degli 007, nel paventare una saldatura fra vecchie e nuove leve dell’estremismo, s’è detto preoccupato per l’imminente scarcerazione di Cesare Di Lenardo (1), “irriducibile” arrestato per il sequestro Dozier e che con la sua denuncia fece alzare il velo sulle torture. «La coincidenza – spiega il superpoliziotto Genova – mi ha spinto a espormi. Sono alla soglia della pensione, posso permettermi dopo trent’anni di servizio di svelare alcuni dei mali profondi della polizia, quelli che a volte hanno inciso profondamente sull’opinione pubblica, delegittimando la dedizione di migliaia di operatori che ogni giorno sono sulla strada».
Il racconto inizia dal G8, dalle ore che hanno preceduto il blitz alla Diaz. «Con poche centinaia di uomini – ricorda Genova – dovevamo fronteggiare in stazione il deflusso di oltre ventimila manifestanti. Improvvisamente il supporto del Reparto Mobile, fondamentale, venne meno perché furono dirottati altrove, in vista dell’irruzione. Siamo rimasti praticamente “nudi”. Potevano massacrarci. Eppure il confronto è stato gestito senza drammi, dialogando con i dimostranti. Nel frattempo, ascoltavamo via radio quello che si stava preparando altrove e veniva da rabbrividire, con funzionari arrivati da fuori che non conoscevano minimamente la città e dovevano gestire situazioni delicatissime. Abbiamo telefonato decine di volte alla centrale operativa della questura – continua il poliziotto – dicendo che Brignole poteva trasformarsi in una mattanza. Abbiamo dovuto spegnere le televisioni che facevano rimbalzare le immagini dei pestaggi nella scuola, per non infiammare gli animi. Ebbene, in quel contesto, i superiori ci hanno lasciato in cinquanta, davanti a ventimila.
E io mi sono chiesto chi fossero realmente i “nemici”, gli avversari, se forse non stessero dalla nostra stessa parte».
Le stesse considerazioni, in un dettagliato resoconto scritto, sono sul tavolo di almeno tre altissimi funzionari romani, che si sono ben guardati dall’approfondire la vicenda. Come mai nessuno, nonostante le ultime lettere risalgano al 2005, ha voluto indagare sulle torture? «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – ricorda Genova – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». E denuncia: «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?” (La sua “dissociazione” permise centinaia di arresti, ndr). Le violenze avvenivano di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone sbagliate. Le stesse che ancora oggi, pur assolte, continuano a ricevere minacce. E allora: perché per quasi vent’anni, a dispetto delle reiterate sollecitazioni, non si è mai voluta affrontare sul serio quella pagina?».
Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco “I cinque dell’Ave Maria”. Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità, le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato».

(1) Contrariamente a quanto affermato dal capo del Sisde Cesare Di Lenardo non è mai stato scarcerato. Ha ormai raggiunto il suo trentesimo anno di detenzione.

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