Muore di freddo su una panchina il leader storico dell’antirazzismo romano. In realtà ucciso da un gelo ancora più profondo, quello dell’indifferenza e del razzismo
Stefano Galieni
Liberazione 10 dicembre 2009
Se ne è andato in silenzio, dopo aver per tanti anni parlato e lottato, con la sua voce roca, capace di fermarti al primo incrocio, di
chiamarti a qualsiasi ora per chiedere impegno, spesso non per sé, ma per tanti altri che erano al freddo, che rischiavano l’espulsione, che erano stati maltrattati. Mohammad Muzaffar Alì, detto “Sher Khan” a Roma lo conoscevano tutti, sin da quando era giunto alla ricerca di un futuro migliore dal suo paese natale, il Pakistan, dove le sue opinioni politiche non erano gradite. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, era stato fra i 1500 che avevano occupato il pastificio dismesso della “Pantanella”. Nella pubblica opinione un ghetto pericoloso, nella realtà il tentativo di sottrarsi al degrado, di creare comunità e di aprire una vertenza con l’amministrazione per veder riconosciuto il diritto ad una abitazione dignitosa. Faceva freddo alla Pantanella, ma ci si scaldava facilmente con un the, con le tante cucine degli occupanti, c’era lo spazio per pregare e quello per avere prodotti di prima necessità. In prima fila a difendere dai tentativi di sgombero c’erano altre due persone di cui oggi ci sarebbe un gran bisogno, Monsignor Luigi Di Liegro e Dino Frisullo. Sher Khan era sempre accanto a loro. In quegli anni nacque “Uawa” (United Asian Workers Association) una delle prime associazioni di migranti che riuniva persone provenienti da paesi diversi dello stesso immenso continente, Sher Khan ne era stato eletto presidente. Durante gli anni ne ha passate tante Sher Khan, è finito in carcere, si è dovuto difendere da accuse pesanti, gli è capitato spesso di finire picchiato da vigliacchi che aggredivano in branco, di ritrovarsi in questura, incazzato e senza riguardo. Ha vissuto per venti anni nelle manifestazioni e nelle occupazioni di stabili, difficile non incontrarlo, specialmente la sera, nel quartiere Esquilino. Negli anni la sua rabbia aumentava e la sua voce si faceva sempre più bassa, si sentiva da solo, vedeva che contro il razzismo più infido, quello dell’indifferenza, combattere era quasi impossibile. Ha visto Roma cambiare pelle, diventare più sprezzante e incapace di indignarsi. Aveva chiesto anni fa asilo politico per poter ottenere un minimo di garanzie dalle leggi di questo Paese. Per tutta risposta, dopo aver partecipato all’ennesima occupazione di uno stabile in Via Salaria, insieme a quelli come lui, malati, single, i “soli” per cui non è prevista (da questa come dalle precedenti amministrazioni) nessuna forma di accoglienza, si era ritrovato nel Cie di Ponte Galeria. Anche da lì dentro non sembrava essersi rassegnato, ad una assemblea antirazzista che si era tenuta in un centro sociale era intervenuto tramite collegamento telefonico, per raccontare dello schifo delle condizioni di vita in cui si trovavano le persone. Era uscito dal centro con la garanzia di un permesso temporaneo per ragioni umanitarie, da vivo non poteva tornare in Pakistan, avrebbe rischiato il carcere e la pelle. Un permesso che avrebbe ottenuto a giorni, ma che non è mai giunto. Era uscito e lo stesso giorno aveva partecipato ad una manifestazione contro gli sgomberi e per il diritto all’abitare, l’ultima.
«Fra poco scatterà il “Piano per il freddo”, con il quale sostanzialmente daremo ricovero a tutti coloro che oggi non hanno un posto in cui andare a dormire – ha affermato il sindaco Alemanno – La temperatura non si è ancora abbassata in maniera molto forte, ma noi siamo già pronti a partire». Peccato che il “Piano” dovesse scattare dal 1 dicembre e che garantisca accoglienza solo per la notte. Tutto qui quello che riesce a organizzare la Città Eterna? Come spiegarlo ai tanti che affollano i pochi luoghi in cui ripararsi durante la notte, spesso come Sher Khan malmessi di salute, pieni di alcool perché la notte passi più rapidamente, impauriti dalla pioggia quanto dalla cattiveria degli uomini, senza e con divisa. Gli ultimi mesi di vita di Sher Khan gli sono stati molto probabilmente fatali: dopo un lungo ricovero in ospedale – anni fa era finito in coma – aveva cuore e fegato rovinati… Ieri pomeriggio, la comunità pakistana, compagni e compagne impegnati nell’antirazzismo, si sono incontrati a P.zza Vittorio, pensando ai funerali, a come rimandare la salma in patria, a come dargli un ultimo saluto. E in tanti si è pensato di aver fatto poco per lui, di non essere intervenuti in tempo e con la forza necessaria, per garantirgli almeno condizioni di vita più dignitose. Il Prc si è unito al dolore di chi lo ha conosciuto e di chi gli è stato a fianco. Sher Khan è l’ultima (per ora) vittima di quel razzismo profondo, da cui è difficile sentirsi innocenti.
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antisommossa (elicotteri, micro-droni, telecamere di sorveglianza), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa, introduzione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato» e i giudizi processuali per direttissima; creazione di una branca specifica dei Servizi (appartenenti alla nuova Direction centrale du renseignement intérieur, Dcri), con competenza sulle banlieue, sui moti urbani, il cosiddetto fenomeno delle «bande», la nascita di nuove banche dati centrali, come il sistema Edvige-Edvirsp e Cristina (Cf. Liberazione – Queer del 5 ottobre 2008), finalizzati alla schedatura «di ogni persona d’età superiore ai 13 anni che abbia sollecitato, esercitato o stia esercitando un mandato politico, sindacale o economico o che rivesta un ruolo istituzionale, economico, sociale o religioso significativo». Insomma un intero arsenale tecnico, giuridico e poliziesco che rinvia apertamente al regime dello stato d’eccezione.


Avvicinandomi, comincio a distinguere facce, sagome, qualche brace di sigaretta, iskra che buca la notte. Potrebbero essere corpi – morti o ancor vivi, eccola la nuda vita ! – di deportati, respinti, cacciati a forza verso esodo forzato, in fuga senza fine. O corpi decisamente morti, di massacrati, di sterminati, di espulsi dall’umano, “sotto-uomini”. Sono bambini, donne, uomini avvolti in coperte, in sacchi a pelo o in niente, sdraiati su qualche brandina più o meno da campo, chi raggomitolato in un sonno che s’immagina buio, pesto e pesante e chissà se senza sogni, e incubi, o forse no. Parecchi stanno sollevati, appoggiati sul gomito a parlare. Overload di sottovoce, con qualche acuto, scoppio, abreazione, ragionamento. Quel marciapiede di corpi non è il fondo del peggio, navigando in rete si può trovare dell’incommensurabilmente più grave, più significativo, più tremendo. Ma, questo marciapiede, è qui, ora, su un piano di consistenza immanente, non più consistente di altri in sé, di per sé, ma per noi si.
Non è qui il nodo della cosa! – che gl’immigrati doveva prenderseli il sindaco giscardiano del comune attiguo, che la dislocazione delle residenze degli immigrati veniva fatta dalle autorità in modo non casuale, e provocava la spirale viziosa dell’impoverimento crescente dei comuni le cui entrate fiscali si abbassano in modo corrispondente alla modificazione della composizione sociale dei residenti, con i relativi effetti di degrado).
Senza rischiare di doverci sentir accusare di «banalizzazione», non possiamo vedere nell’uovo del serpente del cumulo di ambivalenze risolventisi in ambiguità a premessa di successive decantazioni, che connotava le prime scorribande delle SA nelle strade di Weimar, l’embrione di quello che sarà lo scenario risolutamente apocalittico degli ultimi anni ’30 e della prima méta dei ’40 ? Niente si ripete mai identicamente (e la frase di Marx sulla farsa come calco e replica della tragedia non è certo una regoletta catechistica). Niente si ripete identicamente, ma questo non vuol dire che ogni volta si debba cercare l’assolutamente inedito – è per questo che, nel finale dell’Arturo Ui, Brecht attira l’attenzione sul grembo sempre fertile che partorì la bestia immonda. Dev’essere però mostrato con chiarezza che ciò che ha deciso e fatto eseguire da elementi della sua truppa la Cgt ieri, è della stessa natura di ciò che la Lega Nord o i caricaturali nazistoidi di Saja, stanno inscenando nelle strade delle città italiane. Si tratta di formattazione del male di vivere nelle forme che, in una luminosa definizione benjaminiana, sono le più antitetiche all’autocognizione come classe, che è dunque forma autopoïetica. Soldataglia coloniale, turba fascista, teppa shalamoviana – ognuna inquadrata dai corrispondenti gerarchi e relative catene: queste sono le definizioni appropriate.
colpevoli solo di lottare per avere il diritto di vivere, e che per questo occupavano da 14 mesi i locali della Bourse du travail di Parigi, vuol dire che questa sinistra non ha più nulla da dire. È morta. È un cadavere putrefatto. Una sinistra che è solo apparato. Che pensa solo ai suoi «beni». È successo mercoledì scorso verso le 12.30, quando una cinquantina di uomini col cranio rasato, il volto coperto, gli occhi protetti da occhialini da piscina e una fascia rossa al braccio, sono entrati con la forza nei locali della camera del lavoro vicino place de la Republique, e armati di bastoni hanno cosparso di gas lacrimogeno, inseguito e pestato i presenti, trascinandoli verso l’esterno (il grosso degli occupanti era impegnato a manifestare davanti alla prefettura). I testimoni raccontano di aver assistito a scene d’intensa violenza. «Era previsto e l’abbiamo fatto!», dichiara soddisfatto uno dei picchiatori. Increduli e scioccati, i circa 800 sans papiers carichi di fagotti e materassi fanno molta fatica a credere che la violenta aggressione abbia come origine proprio la Cgt, per altro spalleggiata dall’arrivo di decine di furgoni e centinaia di uomini della polizia schierati in assetto antisommossa. All’inizio molti passanti e commercianti avevano temuto un’aggressione lepenista. «Dopo aver tentato per mesi di negoziare una soluzione abbiamo deciso di mettere fine all’occupazione», si è giustificato Patrick Picard, segretario generale dell’Unione dipartimentale di Parigi. Da tempo il sindacato intratteneva relazioni molto tese con gli occupanti, in massima parte lavoratori di ditte di pulizie. Questi avevano deciso di riunirsi in un collettivo autonomo, il coordinamento sans papiers 75, rivendicando una regolarizzazione generale e non dei soli aderenti al sindacato.
accolta nell’indifferenza generale, appena poche righe nella cronaca locale. Loyos era quello che i giornali hanno etichettato come il “biondino”. Spersonalizzato e mostrificato insieme a Karl Racs, anche lui subito soprannominato “faccia da pugile”. I due, secondo la questura e la procura, avevano aggredito una coppia di fidanzatini minorenni nel parco della Caffarella, stuprando brutalmente la fanciulla. In realtà i responsabili di quello scempio erano altri, a loro volta cittadini romeni che nei giorni precedenti avevano commesso diverse aggressioni contro coppiette nella stessa zona, seminando una quantità incredibile d’indizi. Un’indagine più accorta avrebbe trovato subito quelle tracce e scoperto agevolmente i veri colpevoli. Invece le cose sono andate diversamente. La politica ha interferito pesantemente nell’inchiesta. Un ennesimo decreto sicurezza è stato varato dopo una violenta campagna allarmistica. Servivano subito due colpevoli. Loyos e Racs erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. Insomma erano i capri espiatori perfetti. L’adolescente aggredita non mise molto a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Loyos. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito violente percosse. Nessuno lo ascolta. In questura sono occupati a smaltire la sbornia della conferenza stampa trionfale dei giorni precedenti. I giornali dipingono agiografici ritratti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Gli fa eco il capo della Mobile Vittorio Rizzi: «Finalmente non sarò più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della polizia dal 1987 al 1994).