Il formaggio e i vermi di Sebastiano Vassalli, la resistenza operaia di ieri, l’insubordinazione metropolitana dei black bloc di oggi e il corporativismo mafioso dei corpi di polizia
Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2011
Quella che il grande storico del movimento operaio Edward Palmer Thompson definì in un’opera celebre, «l’opacità operaia» (in La formazione della classe operaia inglese), è stata per decenni oggetto di approfonditi studi sociologici. L’attenzione degli studiosi era rivolta alla comprensione dei meccanismi che portano i ceti subalterni a frapporre una sorta di schermo protettivo, al coperto del quale riescono a dare vita e riprodurre una cultura resistente, oppositiva, solidale e autonoma, il più delle volte ritenuta illegittima e pericolosa dai ceti dominanti che esercitano il monopolio della legalità. L’opacità è dunque la condizione essenziale per tutelare la propria libertà e sottrarsi ai valori legittimi espressi e imposti dai ceti dominanti. Da questo genere di ricerche hanno preso avvio i Subaltern Studies, che si occupano appunto delle culture oppresse, cancellate, perseguitate. In Italia, nel corso degli anni 70, l’opacità operaia non fu oggetto di studi ma entrò nel mirino delle inchieste giudiziarie condotte dalla magistratura contro la lotta armata sorta nelle fabbriche. Soprattutto divenne un “problema politico” per le forze sindacali e il partito comunista che concentrarono contro di essa ogni tipo di sforzo. Sgretolare l’opacità operaia, fidelizzando la classe lavoratrice alla cultura della legalità istituzionale, fu l’obiettivo portato avanti non solo con mezzi ideologici ma anche ricorrendo alla delazione organizzata, all’infiltrazione condotta in accordo con le forze speciali dell’antiterrorismo guidate dal generale Alberto Dalla Chiesa. La città di Genova, e le sue fabbriche, furono uno dei luoghi dove più aspro divenne questo confronto. Genova, sempre Genova. Una città che con la sua storia ha segnato tante svolte, come quella del luglio 60. Ebbene, sempre a Genova nel 2001, durante le sanguinose giornate del G8, abbiamo visto emergere in modo deflagrante un’altra forma di opacità: quella poliziesca, risvolto cinico e feroce del sovversivismo delle classi dominanti. «Cosa accade nella testa di un uomo perché diventi un poliziotto?». La lungimirante domanda non sarebbe più d’attualità secondo Sebastiano Vassalli, che sul Corriere della sera di pochi giorni fa ricordava come questa frase apparisse su un manifesto del 68 parigino. Se il compito dei giovani è diventare vecchi, come diceva Benedetto Croce, il sessantenne Vassalli c’è riuscito benissimo e dalla sua canuta agiatezza spiega alle malcapitate generazioni precarie di oggi che la polizia non può essere più percepita come il baluardo di ciò che il poeta Pablo Neruda chiamava «il formaggio del capitalismo», con i suoi «pallidi vermi». Oggi il problema sarebbe dato da un altro formaggio, «quello della democrazia» che rende possibile un nuovo genere di vermi, «i black bloc», a suo dire protagonisti dei «fatti tragici e demenziali della Valsusa». Abituato alla cucina della sua casa Vassalli non s’accorge che il formaggio della democrazia è stato divorato da tempo e quello del capitalismo è pieno di buchi provocati dai roditori della finanza internazionale. Contrariamente a quel che sostiene Vassalli quella domanda ha oggi ancora più senso, anche se pure i vermi hanno fame, a partire da quella opacità poliziesca che ci è stata
raccontata dalla difficile inchiesta sulle violenze e torture genovesi del G8. Una lunga catena di falsità che dai più alti vertici delle forze dell’ordine scendeva fino agli ultimi gradi della scala gerarchica: dalle ragioni inventate (la presenza dei black bloc) per giustificare l’irruzione e il brutale pestaggio nella scuola Diaz, alla fabbricazione di false testimonianze che hanno visto protagonisti l’allora capo della polizia Giovanni De Gennaro, il capo della Digos genovese Spartaco Mortola e il questore Francesco Colucci; al tentativo di introdurre, sempre nella palestra dove era appena avvenuto il massacro, due bottiglie molotov trovate altrove, ai falsi verbali che attribuivano ai fermati comportamenti violenti o addirittura cambiavano il luogo del fermo in modo da coinvolgerli in situazioni compromettenti; al falso accoltellamento denunciato da un poliziotto, Massimo Nucera, che invece lacerò appositamente il proprio giubbotto per accreditare l’aggressione subita e dunque far passare il pestaggio come una legittima difesa contro dei violenti animati da tentazioni omicide. Atteggiamento menzognero reiterato da Nucera recentemente. Una sentenza del tribunale di Teramo, infatti, l’ha condannato nel maggio 2010 ad un anno e 4 mesi di reclusione per aver fornito falsa testimonianza nel tentativo di scagionare due suoi colleghi che avevano pestato (31 giorni di prognosi) un tifoso durante l’incontro di basket Teramo-Rosetana.
L’opacità poliziesca oggi è un problema anche per la procura genovese che ha chiesto la collocazione ad altro servizio dell’ispettore Antonio Del Giacco, condannato ad otto mesi, insieme ad altri poliziotti, per per aver fabbricato prove false contro alcuni no-global, prima aggrediti e poi arrestati, la mattina del 20 luglio 2001.
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Tempo dopo dalle pagine del Politecnico, come ricorda Luisa Mangoni in un saggio sugli intellettuali tra fascismo e antifascismo, sempre Vittorini rispondeva alle numerose lettere scritte da giovani nei quali si poteva leggere l’angoscia «di non poter più essere uomini dopo esser stati “non uomini”». Li invitava «a convincersi di non esser colpevoli… strumenti sì del fascismo, ciechi dinanzi a quello che il fascismo era, vittime di quello che sembrava, deboli, non forti, ma non fascisti». D’altronde come avrebbero potuto sapere? Si chiedeva, dimenticando un po’ troppo facilmente gli antifascisti che avevano marcito nelle galere o al confino. «L’antifascismo era all’estero, e la sua voce giungeva deformata in Italia come tutto il resto che giungeva in Italia dall’estero: deformato». In fondo questi giovani, spiegava pensando probabilmente a se stesso, «non erano reazionari… erano per un progresso sociale, per una migliore “giustizia sociale”, per l’eliminazione del latifondo e la socializzazione delle grandi imprese. Il fascismo disse loro di essere questo». Il fascismo come malinteso, dunque. Un equivoco che avrebbe tratto in inganno le buone intenzioni di una generazione inquieta che, in modo inconsapevole oppure dissimulando astute forme di nicodemismo, con fare ermetico o approntando diaboliche strategie entriste, praticava l’antifascismo in camicia nera, anticipando la resistenza nei salotti, nelle redazioni, nei posti al sole del regime, tra littoriali, militanze nei Guf, prebende del Minculpop, lettere di raccomandazione al Duce, elogi della filmografia nazista e dei carri armati dell’asse. Un curioso modo antifascista d’essere fascisti: «Voi non siete stati fascisti. Il vostro modo di esserlo, fino a qualunque data lo siate stati, è stato un modo “antifascista”». Antifascisti forse, ma senza esser mai stati antirazzisti dopo le leggi segregazioniste del 1938.
condussero ai fianchi del regime, una volta abbandonata l’idea del rovesciamento armato e riconosciuta la sua natura «reazionaria di massa». Quindi la vicenda del patto Ribentrop-Molotov del 39-41, esaltata come l’alleanza delle nuove potenze monopolistiche contro le plutocrazie occidentali che stentavano a rimettersi dalla crisi (anche il new deal Roosveltiano guardava ai vantaggi dell’economia di pianificazione e in quegli anni Keynes elaborava la sua dottrina). Il vecchio programma di Verona, l’originaria fase del fascismo di sinistra, antiborghese, corporatista e monopolista, fu il collante che consentì il successo della strategia di recupero attuata da Togliatti. Un organico disegno d’egemonia che attraverso la chiusura della guerra civile, l’amnistia politica e il reclutamento delle giovani energie intellettuali del passato regime, mirava a ricomprendere la storia nazionale rifondando le basi del paese. Un disegno strategico che l’odierna storiografia liberale tende a rileggere in termini d’inevitabile continuità, culturale e ideologica, conseguenza di una supposta omologia totalitaria tra fascismo e comunismo. Dimenticando i reclutamenti nel campo laico-liberale e la posizione di Croce, la sua avversione verso le epurazioni, la metafora della grande parentesi con la quale si voleva liquidare il fascismo come se nulla fosse accaduto, e soprattutto sottacendo l’altra continuità, quella degli apparati statali, della magistratura, dell’industria e della finanza “fascistissima”, dei senatori del regno, come Agnelli, ingrassati con le avventure coloniali del regime. Singolare atteggiamento quello della storiografia liberale, che da una parte lancia anatemi sull’esecuzione di Gentile, ma poi denuncia la politica d’integrazione dei giovani quadri intellettuali del fascismo.