Scalzone, «Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti»

Due date raccolte in un arco di 10 anni: 16 marzo 1968, 16 marzo 1978. In mezzo c’è tutto. Scalzone ritorna sui luoghi e racconta la mattinata di scontri sulla scalinata della facoltà di architettura a Roma, un topos del ’68. I fascisti che fallirono il tentativo di infiltrare il movimento, Almirante che rischiò il linciaggio, Pasolini che non aveva capito nulla di quella rivolta, Mussolini e la vera essenza del fascismo italiano, «la guerra alle organizzazioni operaie, dalle più riformiste alle più soversive, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni», il razzismo attuale. Dieci anni più tardi l’assemblea convocata sul piazzale della Minerva, alla Sapienza, subito dopo la notizia del sequestro di Aldo Moro: «Quel del giorno – spiega – vissi una lacerazione, mi sentivo estraneo alla “condanna” espressa dagli Autonomi e pensai di interferire con le Br prima che fossero sospinte all’epilogo atteso e come prescritto in una sentenza». Poi venne il complottismo, divenuto la grande tragedia culturale della sinistra. Resta la conoscenza, destino che ci distingue dalle altre specie e quel futuro che non esiste, divenuto «narrazione dei dominanti» al quale si deve contrapporre il presente, vissuto fino in fondo


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 23 marzo 2018

Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco ( lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria».
Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione
del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?
Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando po- tevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbiego una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno.

Cosa intendi?
Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?

Pasolini si sbagliava dunque?
Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare.

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita
Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte.

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
Mi vengono in mente ( oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabii nel combattimento e misericordiosi nella vittoria».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto
Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social-confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal-liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno.

L’antisemitismo era connaturato al regime?
No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto.

Prego
I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime.

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
Prendiamo il caso Traini, lo pisicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci piscopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne- mi- ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”.

Qual è il più grande nemico della sinistra?
È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula ( di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere.

Il destino degli esseri umani è la ribellione?
Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?
Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti.

 

L’arma spuntata. Nonostante lo scandalo Berlusconi regge nei sondaggi

Il sexigate è un nuovo episodio della guerra civile borghese che si trascina da tempo in Italia? Si apre il dibattito sugli effetti provocati nell’opinione dallo scandalo: trascurati i problemi reali, le questioni socio-economiche, a vantaggio del moralismo e del legalitarismo

Paolo Persichetti
Liberazione 25 gennaio 2011

Il sexigate è un’arma spuntata. Forse alla fine si dovrà riconoscere che è proprio così. Almeno fuori dal Palazzo, nel Paese reale – secondo quanto descrivono i sondaggi – il Rubygate non sembra togliere affatto, per il momento, consenso a Berlusconi e al suo partito. Anzi da quanto è emerso negli ultimi rilevamenti sulle intenzioni di voto, il Pdl avrebbe recuperato il 2,6% rispetto alle settimane di dicembre, quelle in cui era in corso lo scontro tra Fiom e Marchionne su Mirafiori.
I dati Ispo riportati dal Corriere della sera indicano una crescita dal  27,6% al 30,2%. Nel frattempo la Lega avrebbe perso qualcosa (1,5%), il Pd grosso modo resterebbe stabile (meno 0,5%); in crescita Sel data al 7,5% e Udc; in calo Idv, Fli e Federazione della sinistra che rispetto ai giorni di Mirafiori passerebbe dall’1,9% all’1,2%. Il giorno prima l’Ipsos rendeva noto che sebbene il 70% dell’opinione non si beve affatto la teoria del complotto messa avanti da Berlusconi per difendersi, anzi uno sue due pensa che debba dimettersi, proprio tra i cattolici praticanti e le donne, da cui provengo le critiche più aspre sui comportamenti personali del premier, il consenso resta più stabile.
Lo scandalo sessuale non sembra dunque mobilitare l’indignazione fino al punto da dare una spallata al Palazzo. Se corretta, questa fotografia degli umori del Paese ci dice diverse cose: la flessione di Berlusconi in dicembre corrisponde all’appoggio fornito a Marchionne. In quei giorni, ha spiegato Alessandra Ghisleri di Euromedia, anche il Pd ha perso numerosi consensi senza più recuperarli. In un Paese, come spiega Marco Revelli, dove la maggioranza dell’elettorato si pone di fronte alla politica «come fosse davanti ad una puntata del Grande fratello, dove i criteri con i quali si entra o si esce non sono diversi da quelli che permettono di partecipare alle notti di Arcore», il ripresentarsi sulla scena del conflitto tra capitale e lavoro, «ha rappresentato una irruzione forte del principio di realtà che ha permesso allo stesso elettorato di destra di recuperare autonomia di giudizio». Allora se a mobilitare sono i temi più vicini alle condizioni reali dei lavoratori, dei precari e delle loro famiglie, non è forse lecito chiedersi se il sexigate serva solo a chi insegue congiure di palazzo? Non è d’accordo Revelli, che ritiene invece «la denuncia dell’oscenità che domina in alto un dovere non solo per ottenere un vantaggio politico ma soprattutto per il rispetto di sé».
Renato Mannheimer individua però un grosso limite, «le accuse al premier – dice – sono tutte sul piano morale e sulla morale gli italiani non si sono mai granché mobilitati». Siamo cattolici non puritani e poi, sottolinea, «i valori sono molto cambiati».
Non ha tutti i torti, il ’68 non è per nulla morto, come ha detto la Gelmini che semmai si presenta come una sua nuova erede rivisitando quella stagione nella forma di un neo-edonismo proprietario. Il piacere come dimensione dell’avere e non più dell’essere. Occorre prendere atto di una nuova dimensione antropologica dell’Italia, «un’antropologia esplosa» la chiama Revelli, che vede nelle notti del bunga bunga una icona se non da imitare quanto meno da sognare. Se il berlusconismo ha sfondato nel profondo e (per fortuna) il mito della magistratura rigeneratrice è svanito, l’unico modo per mascherare questa bolla, questo sorta di second life in cui vive l’Italia, non è forse quello di riposizionare l’azione politica su assi orizzontali, basso contro alto, e non su temi che dividono verticalmente come quelli incentrati su temi legalitari e moralistici?

Link
Taxi driver o Enrico IV? Quale è il mistero che si cela dietro il presunto attentato a Maurizio Belpietro
L’attentato a Belpietro era un falso: indiscrezioni annunciano la prossima incriminazione del caposcorta per procurato allarme e simulazione di reato
Aggressione a Berlusconi: ma cosa c’entrano gli anni 70? E’ guerra civile borghese
Feticci della legalità e natura del populismo giustizialista

Gelmini: «I precari? Troppi e strumentalizzati»

La ministra si rifiuta di ricevere i docenti in lotta
Presidio sotto Montecitorio


Paolo Persichetti
Liberazione
3 settembre 2010

Possono anche crepare di fame. La ministra della scuola, Mariastella Gelmini, una specie di Sarah Palin italiana, ma più sbiadita, si rifiuta di incontrare i precari. «Non incontrerò chi è venuto a protestare davanti a Palazzo Chigi», ha detto nel corso della conferenza stampa sull’apertura del nuovo anno scolastico tenuta ieri mattina nella sede del governo. «Protestano – ha spiegato – senza ancora sapere se sono stati esclusi. Non si tratta di persone che sono state licenziate. Presumono di non avere un posto di lavoro, ma il ministero non ha ancora completato le operazioni». Per la responsabile del ministero di viale Trastevere la vasta mobilitazione nazionale di questi giorni sarebbe un fatto del tutto strumentale, «alcuni di quelli che protestano in piazza non sono precari ma esponenti di Italia dei valori». Così la Flc Cgil, il Coordinamento precari della scuola, i Cobas e le Rappresentanze di base hanno avuto il ben servito. La ministra, che per l’esame di abilitazione alla professione forense si recò nel 2001 da Brescia a Reggio Calabria (dove le statistiche dicono che non viene bocciato nessuno), nemmeno distingue l’abissale differenza che passa tra sigle sindacali, movimenti di base dei lavoratori e forze politiche che hanno l’abitudine di reclamare più manette per tutti e nulla sanno di sociale e di lavoro. Purtroppo siamo in tempi di Onagrocrazia, come diceva Benedetto Croce riferendosi al «potere degli asini raglianti». L’anno scolastico parte con 50 mila classi prive d’insegnanti, 1600 senza presidi, 8 miliardi di euro in meno in tre anni e 170 mila docenti e dipendenti lasciati per strada dopo anni di lavoro, ma per la ministra tutto ciò non esiste. Le cose vanno benissimo. Durante la conferenza stampa ha snocciolato una lunga serie di cifre che, a suo dire, segnano in positivo la «svolta epocale» introdotta con la riforma della scuola secondaria. Secondo i calcoli del ministero citati dalla Gelmini, la riforma del reclutamento degli insegnanti ridurrebbe il precariato, il taglio «vero» effettuato dal governo sarebbe quest’anno soltanto di 2000 cattedre a fronte della 10 mila dello scorso anno, per uno smantellamento complessivo di 87 mila posti in tre anni, di cui 67 mila fino ad oggi. L’introduzione dei licei linguistici e musicali avrebbe riscontrato un buon successo come il tempo pieno nelle scuole elementari, che sarebbe cresciuto del 3%. Anche per i disabili, secondo la ministra, sarebbero aumentati i posti di sostegno, mentre sui precari sarebbe pronto un decreto che darebbe priorità nell’attribuzione delle supplenze a coloro che hanno perso la cattedra. Altri precari “tagliati” verrebbero recuperati grazie ad accordi con le regioni e l’uso di fondi Ue. Insomma un quadro della scuola assolutamente roseo dove l’unico neo verrebbe dal passato: «Duecentomila precari sono il frutto di decenni di politica in cui si sono distribuiti posti che la scuola non era in grado di assorbire». Il passato per Gelmini è un’ossessione, in particolare quel Sessantotto che «ha propagandato un egalitarismo falso e profondamente deleterio. Ha svuotato di significato i principi di merito e di autorità», come ha spiegato in un’intervista al Messaggero di sant’Antonio per concludere che il «merito è l’unico criterio veramente democratico». E così per tutelare una didattica ispirata sempre più all’ordine e alla disciplina, ha terminato la conferenza stampa annunciando che «non si potranno più superare i cinquanta giorni di assenza, pena la bocciatura». Dura la risposta venuta dal presidio dei precari posto sotto Montecitorio, «Troppo facile accusarci di essere militanti politici. Così si aggira il problema per il quale chiediamo un confronto: la qualità della didattica, la qualità del lavoro, la ricaduta dei tagli sul personale della scuola e sulla società civile». Alle accuse della ministra i lavoratori rispondono che non c’è bisogno di attendere le chiamate per sapere che non ci sarà un lavoro quest’anno, «basta guardare le disponibilità pubblicate dai provveditorati e i numeri dei convocati: chi è fuori sa già di esserlo, molti lo sono sin dallo scorso anno». Diecimila assunzioni sono irrisorie, – fanno sapere – a fronte di 67 mila posti a tempo indeterminato tagliati e delle 130 mila cattedre tuttora vacanti. Anche sul tempo pieno «diverse famiglie si sono viste rifiutare il tempo pieno per i loro figli; nel solo Lazio 2800 bambini non vi sono stati ammessi».

Link
I ricercatori: “Non cediamo al ricatto, difendiamo l’università pubblica”
I grembiulini della Gelmini

Tienanmen 1989, socialismo di mercato contro comunismo

L’uomo e il carrarmato

Oreste Scalzone
l’Altro
5 giugno 2009

Un uomo, solo, camicia bianca su calzoni neri, ripreso di spalle. Dritto, fragile e possente, armato di niente, niente di concreto ma molto di più, come transumano si erige contro una colonna di carrarmati. Non sappiamo chi sia, come la pensi e cosa voglia. Rispetto all’essenziale, questo è relativamente un dettaglio – la scena lo trascende. Un esemplare di specie umana, specie di esseri parlanti e perciostesso “pericolosa”. Nel fondo del fondo comune, di specie, potremmo dire paroletari. Un uomo, astratto-eguale e al contempo singolare, unico, è il segno forte di chissà quante migliaia. Uno, tiennamen1centomila, nessuno. Lui può essere tutto, e tutt’altro. Questo, nella nostra percezione indélébile, viene dopo, specificazione ulteriore. Un carrarmato è cosa complicatissima. Si può adattare ad esso la definizione marxiana della merce, plesso di relazioni invisibili eppur materialmente costituenti il suo ontos. Carrarmato ha un fondo eguale ad altro, ogni altro carrarmato, come merce con ogn’altra, in ultima analisi. Implica, traduce, incarna reca in sé – condizione d’esistenza, essere, qualità, natura e funzione – una complessità énorme di relazioni, traduce rapporto sociale, un’intera sistemica. Abbiamo visto che innanzitutto è una merce. Come un flacone di penicillina che può salvare. Cambia il valore d’uso, ma sul piano del Valore, ovverossia valore-di-scambio, questa è la primordiale qualità. In quanto merce, sottende, implica denaro, accumulazione, lavoro, mercato del lavoro (della forza-lavoro), estrazione di plusvalore, profitto. Eppoi, un carrarmato ha altri caratteri essenziali sul piano di altre economie politiche. È mezzo di distruzione, di riproduzione allargata di essa. È dispositivo e funzione dello Stato. Un padrone, uno statista, un colonialista, un monarca, un tiranno, un gerarca, un rappresentante, un “democratòcrate”, sono tutti compatibili con la forma-carrarmato. Un comunista, nel senso etimologico del termine, coniato e/o ripescato all’altezza dei tempi del diluvio rivoluzionario – come diceva Marx – dilagato in Europa attorno al 1848, un comunista, nel senso che questa parola aveva nell’Associazione internazionale dei lavoratori, quella che i suoi becchini avevano poi etichettato come Prima internazionale ; un comunista, nel senso che il termine aveva all’epoca della Comune di Parigi, «la forma finalmente scoperta che mostra come il proletariato non possa che liberarsi da sé » – cioé un comunardo, un comun’autonomo (autonomia e comunanza essendo consustanziali, reciprocamente costitutivi), non potrebbe che essere incompatibile con la forma-carrarmato. La forma-carrarmato è infatti intrinsecamente statale. E comunismo statale è perfetta contraddizione in termini, come comunismo capitalistico, padronale, nazionale, ideologico, governante, governativo, politico, identitario – cioè proprietario –, razzistico, moralista – penale. Comunismo critico è agli antipodi di comunismo cratico. A meno del verificarsi di una situazione per cui un’insurrezione si trovasse ad aver requisito carrarmati per rivolgerli contro le forze armate dell’oppressione, come i cannoni presi dalla Guardia repubblicana all’Armée nei giorni della Comune, i carrarmati, come gli aerei o le portaerei… non possono essere – come non può mai esserlo un Libertador, soggetto individuale o corporazione, casta, gerarchia che pretende autonomizzarti in tuo nome e per tuo conto – un mezzo, una forma, un’arma liberatrice. Se la semantica non fosse stata violentata, se i fatti e le cose, la loro interpretazione, la loro costruzione, non fossero stati distorti da malinteso e concatenamenti di vere e proprie alienazioni, contraffatti, resi mutanti mutageni mostruosi, questo non potrebbe che essere il nòcciolo primordiale, semplice e chiaro. Si discute tanto di mezzi e fini, di violenza, di terrorismo… Non avremo mai abbastanza disprezzo – stavolta sì– per tutti quegli ipocriti o, peggio, sfrontati che mostrano di considerare mostruosa una sassaiola, impensabile ogni rivolta e qualsivoglia spunto di violenza se non come, addirittura, provocazione, frutto di manipolazione, mossa da marionettisti e pupari, ma ritengono più che compatibile comunismo e violenza statale.
Un thank è un thank è un thank… Non può esserci un carrarmato “Compagno”. Se questo accade, se una colonna di carrarmati – contro uno solo o contro una folla di operai scioperanti in tumulto, come a Berlino ’53, come a Budapest ’56, come a Tienanmen nell’’89 – si avanza inalberando la bandiera rossa, lo stesso colore di quella de la Sociale che, accanto a quelle nere degli anarchici – nere come i grembiuli dei tessitori Canuts delle rivolte degli anni ’30 dell’Ottocento alla Croix rousse di Lione – è stata un vessillo degli insorti comunardi, vuol dire che è avvenuta una sorta di catastrofica e mostruosa mutazione di ogni parametro e termine della questione. Che il termine comunismo è stato sottoposto ad una serie di stupri semantici a catena. Se una vertigine identitaria, cioè la peggior forma della patrimonialità, della proprietarietà, fa pensare a tanti rivoltosi, a tanti antagonisti, che il colore e i simboli facciano la differenza e contino più della natura, della natura dei rapporti sociali, inter-umani che fatti e cose rivelano, questo è segno che c’è qualcosa di profondamente insensato e malato sotto tutto questo, che dura da più di un secolo, e che rischia di esser mortale.
Ha scritto su queste colonne Piero Sansonetti che «noi sessantottini avevamo fatto della Cina un’icona, e avevamo visto nel maoismo non un’orrenda variante dello stalinismo e del comunismo di Stato oppressivo, ma al contrario una forma di rinnovamento del cupo socialismo sovietico, un modo per restituire potere al popolo il potere espropriato dalla nomenclatura di partito […] Avevamo visto nel maoismo, e nella Cina, una forma libertaria di comunismo. I carrarmati di Deng hanno sotterrato definitivamente questa speranza».
Vorrei segnalare a Piero, e a chi legge, alcune obiezioni cominciando col dire che il Sessantotto non è certo stato tutto dominato dall’ideologia maoista o da altre varianti consimili di un’idea comunque statalista, post-giacobina e lassalliana più che, certo non solo anarchica, ma anche marxiana. Dovrei ricordare tutta una cartografia dei comunismi “altri”, che non sono piccole élites, ma – per esempio negli anni ‘20 – hanno condotto una durissima guerra su due fronti, due fronti della controrivoluzione, quello statal-padronale diretto, classico, e quello del socialismo reale staliniano, conseguenza estrema di quello che qualcuno ha chiamato il “kautsko-bolscevismo”. Il discorso diverrebbe, qui e ora, lunghissimo. Si può dire piuttosto che i Viet-cong, sì, sono stati un mito sessantottesco largamente condiviso. Ma, chi avrebbe potuto aver una pre-scienza, allora, per capire come sarebbe andata a finire? Non conoscevamo le pagine straordinarie dell’operaio rivoluzionario Ngo Van, Vietnam 1920-45, rivoluzione e contro-rivoluzione sotto la dominazione coloniale. Mi limito dunque a dire che, per tanti come me, il comunismo come non ha una data e luogo di nascita per questo non può avere un certificato di morte. Comunismo non è un’invenzione, o un regime da instaurare. Come istanza, come figura della potenza nel senso spinoziano, cioè dell’etica, esso è sempre vissuto nelle pieghe del reale, venendo a tratti allo scoperto. Vale quello che vale per la facoltà della parola, l’amore, la rivolta. Forse che possono avere una territorializzazione, una forma di Stato, un luogo e certificazione di nascita e dunque di morte? Quello che è morto (e voglio dire: sempre troppo tardi!) è una radicale contraffazione – derivante da malinteso, da omologia – del comunismo come movimento, movimento della critica radicale, teorico/pratica. Nel mio piccolo, vorrei ricordare il poster che nell’89 – dopo la caduta del Muro e prima di Tienanmen – chiedemmo a Mario Schifano di illustrare (e lo fece, con una bellissima faccia di Marx che era confusa con la cartografia di un globo terracqueo). Lo slogan stampigliato sopra era: Marx 1989, finalmente libero! Certo che la previsione era sognante e quella riapertura che ci sembrava di intravedere e speravamo non si è prodotta. Ma come arrivare a dire che la partita sia chiusa? Non è forse idea da “fine della Storia” alla Fukujama? Il comunismo non l’ha inventato nessuno, è una virtualità, che c’è, come la potenza di vita. Non è un articolo di fede, una giaculatoria. Ma, forse, il comunismo potrà riemergere solo quando, e se, il suo “doppio” mostruosamente contraffatto avrà finito di esser dimenticato per sempre.

Link
Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene

Università della Sapienza: il seminario sugli anni 70 della Pantera

Libri – Esilio e Castigo, Paolo Persichetti, La città del sole 2005

I seminari sugli anni 70 (estratti dal capitolo 12 )

Agli inizi degli anni 90, gli apparati dell’emergenza mostrarono una notevole insofferenza e palesi timori di fronte al venir meno della ragione logo_pantera1 sociale che aveva giustificato l’esorbitanza del ruolo da loro assunto, il forte potere di supplenza acquisito. Orfani della lotta armata, nostalgici di quel conflitto, come i giapponesi sperduti nelle isole del Pacifico, esercitarono il massimo potere d’interdizione e di minaccia che era loro possibile. Ne sanno qualcosa quei militanti usciti temporaneamente dal carcere sul finire degli anni 80, dopo lunghe detenzioni preventive, e che tentarono di mettere in pratica la discontinuità politica annunciata. A metà del gennaio 1990 erano state avviate numerose occupazioni universitarie, fenomeno che si estese progressivamente a tutto il paese per circa tre mesi, dando vita al primo movimento del genere dopo la fine degli anni 70. Una coincidenza che colpì l’immaginario di molti commentatori e attori istituzionali, i quali vi avevano intravisto il rischio di una riedizione dei fatti del 1977. Una previsione più che azzardata, senza dubbio, ma estremamente rivelatrice dei timori di chi guardava a quegli avvenimenti. D’altronde la simbolicità dei luoghi e di alcuni riti sembrava rievocare la gioventù di molti giornalisti che scrivevano su quegli eventi. Contenuti e modalità erano, in realtà, profondamente differenti, ma l’evocazione del passato tornava a ogni passo realizzato da quell’acerbo movimento, molto poco ideologizzato, con riferimenti culturali confusi e che stentava ad elaborare richieste precise.
Il confronto col passato veniva nel contempo riproposto da minoranze nostalgiche, come un riferimento da emulare; dalla pressione quotidiana dei media e degli apparati di polizia, come un modello da evitare. Continue prove d’affidabilità democratica, di rifiuto della violenza, di fedeltà istituzionale, venivano richieste a quei giovani prim’ancora che essi si fossero dati una forma, una identità, un progetto. L’ombra di un passato volutamente tenuto aperto agiva come un ricatto continuo sul presente, un’ipoteca su ogni possibile futuro.

I seminari
In omaggio all’apparizione misteriosa di un felino nelle campagne laziali, che le autorità avevano inutilmente tentato di catturare, quel movimento assunse il nome di Pantera. «La Pantera siamo noi», gridarono oltre esilio_castigoit centomila studenti scesi in strada. Le analisi del sangue non finivano mai, e forse proprio per questo venne dal suo interno la curiosità di conoscere e capire gli anni 70, quel passato prossimo così stregato e maledetto. Dietro quella domanda non c’era tanto la volontà di apprendere la grammatica di altre rivolte, quanto il desiderio di misurare distanze e differenze, potersi sentire finalmente diversi e assolti. Così a metà febbraio venne organizzato un ciclo di seminari itineranti all’interno dell’Università romana della Sapienza, uno dei centri più attivi delle occupazioni. Erano stati invitati a parteciparvi protagonisti, con o senza pendenze giudiziarie, semplici partecipanti degli anni 70, insieme a docenti, avvocati, giornalisti.
Il primo incontro si tenne del tutto casualmente (disponibilità immediata dell’aula) presso la facoltà di scienze politiche. Relatori della giornata erano Rina Gagliardi, all’epoca giornalista del Manifesto; Edoardo Di Giovanni, avvocato e figura storica del “Soccorso Rosso”, nonché membro del comitato che condusse la controinchiesta sulla strage di piazza Fontana; Raul Mordenti, docente universitario ed esponente del 77 romano.

Domande e risposte dal pubblico
Dopo la conferenza, al momento del dibattito col pubblico, tra le cui fila erano presenti giornalisti di diverse testate, uno studente rivolse un quesito sulle dinamiche che avevano portato alla scelta della lotta armata settori di movimento e sulle ripercussioni che ciò ebbe in gruppi come Lotta continua. Tra le varie risposte, tutte estremamente pacate e caratterizzate da analisi retrospettive, ce ne fu una proveniente da un imputato del processo Moro ter, scarcerato per decorrenza dei termini di detenzione preventiva, seduto tra gli spettatori. mini_zavoli
Il mattino successivo, Repubblica aprì con un richiamo in prima pagina: “Brigatisti all’Università, lezione di mitra in aula”. Ovviamente lo sconsiderato titolo ad effetto e buona parte dell’articolo interno, con tanto di foto, stravolgevano quanto era accaduto e lo spirito stesso dei seminari. Quell’uscita, che suscitò anche malumori nel quotidiano di piazza Indipendenza, perché aggrediva un movimento che al suo interno conteneva forti elementi di critica della stagione craxiana e della cultura commerciale delle televisioni berlusconiane, temi tradizionalmente cari alla redazione di quel giornale-partito, innescava un artificiale clima d’allarme. Si alludeva, infatti, ad un progetto d’infiltrazione e controllo del movimento da parte d’esponenti degli «anni di piombo». I quotidiani di destra, invece, ignorarono completamente l’episodio per ritornarvi sopra pesantemente solo dopo l’artificioso scandalo sollevato da Repubblica. I “liberal” di piazza Indipendenza potevano essere soddisfatti per aver scatenato la canea e tratto in salvo il governo del «Caf», la famosa alleanza della roulotte stipulata nell’ultima stagione della “Prima Repubblica” tra Craxi, Andreotti e Forlani, a cui non sembrava vero di poter uscire dall’angolo in cui erano stati messi dalla fortissima mobilitazione studentesca, utilizzando come capro espiatorio i «terroristi in libertà».

“Terroristi all’università”
Quello di Repubblica non fu un autogol, un atteggiamento irrazionale e suicidario, bensì il risultato d’un intrigato reticolo di connivenze che la rendevano punto d’arrivo e cassa di risonanza degli umori e delle opinioni di quella realtà composita che sono gli “imprenditori dell’emergenza”. Secondo questi ambienti, quel navigare alla luce del sole in situazioni di massa da parte d’imputati di banda armata o di persone appena scarcerate, accusate di reati di «terrorismo», non era altro che la prova di un doppio linguaggio, un doppio livello, una strategia dei due tempi, che ripiegava nei movimenti d’agitazione sociale per riacquistare forza e tornare a colpire. In assenza di formazioni armate in attività, di gruppi che agitassero la propaganda armata, esponenti delle procure antiterrorismo, confortati dal Ros dei carabinieri, imbastivano processi ad intenzioni attribuite, costruivano teoremi sul subconscio. scary
Le simbologie erano fortissime, tant’è che un incauto Giuliano Amato non esitò a evocare la volontà di una fredda provocazione, un agguato premeditato per oltraggiare la memoria di Vittorio Bachelet, vicepresidente del consiglio superiore della magistratura, ucciso anni addietro dalle Brigate rosse all’interno della facoltà di giurisprudenza, prossima al luogo della conferenza. Da settimane circolavano nelle redazioni e nelle sedi di partito alcune veline della questura romana che segnalavano, con nome e cognome, la presenza nelle facoltà occupate di decine di «personaggi implicati in fatti d’eversione». Ovviamente le informative dimenticavano di precisare che nella maggioranza dei casi queste presenze erano più che legittime, trattandosi di studenti regolarmente iscritti a corsi di laurea e non d’intrusi.

Autorità e dissociati al Rettorato
In risposta ai seminari, si tenne al Rettorato una solenne cerimonia, con la partecipazione del senato accademico, del rettore e delle autorità, insieme all’immancabile sfilata di vetture blindate, televisioni e bodygard, per esprimere una «sdegnata condanna del terrorismo». Vi parteciparono anche alcuni dissociati della lotta armata, sempre in prima fila quando occorre prendere parte al rito dell’esportazione della colpa e dell’autocritica degli altri e garantire le cambiali firmate in pegno della propria libertà. A dire il vero, libertà è parola fin troppo grossa in questi casi. Citando La Boétie dovremmo chiamarla «servitù volontaria».

Si scatenò una ferocissima campagna politico-mediatica, una caccia alle streghe che prevaricava, schiacciava, annichiliva, terrorizzava dei ragazzi spesso alla loro prima esperienza politica. Impressionante era la portata dell’attacco sferrato, il peso del sospetto sollevato, commisurato alla realtà delle fragili spalle di quei giovani che scoprivano sulla loro pelle come anche la memoria poteva essere una colpa. Ci sono “passati” che non è bene conoscere, se non nella forma delle versioni ufficiali. Ci sono pagine di storia che devono restare tabù. L’altra lezione che quell’episodio proponeva, riguardava coloro che in diversa misura erano stati coinvolti nelle vicende della lotta armata. Avere tracce di un tale percorso nella propria biografia sottraeva l’accesso pieno ai diritti, come quello di esprimere la propria opinione in un pubblico consesso, salvo recitare il rosario della colpa, trasfigurando la propria esperienza nella rappresentazione del male assoluto. centogiorni1

“Devono tornare in carcere”
Durante le riprese di una delle puntate della “Notte della Repubblica” di Sergio Zavoli, un livido Antonio Gava, ministro degli Interni, tuonò contro quei brigatisti in libertà che andavano ricacciati in carcere in qualunque modo. Detto fatto: in ossequio alla separazione dei poteri e all’autonomia della magistratura, un servile giudice istruttore confezionò per la bisogna un mandato di cattura contro uno dei presenti ai seminari. Il povero Gava era l’emblema di un ceto politico alla frutta. Imbevuto di supponenza, ebbro d’arroganza, stracolmo d’un potere costruito sul modello dello “scambio occulto”, consenso elettorale in cambio di crediti a pioggia, finanziamenti a fondo perduto, appalti a reti d’imprenditori amici, speculazioni, malaffare, clientelismo pubblico, accordi con gruppi di potere e camorre locali, era incapace di percepire il salto di paradigma che rendeva obsoleta la sua politica. Il nemico che l’avrebbe abbattuto era altrove ma non sapeva avvedersene. Di lì a poco, con aria mesta anch’egli dovette allungare i polsi e lasciarsi ammanettare, finendo come quegli odiati brigatisti che aveva fatto incarcerare. Gli strascichi della campagna nata attorno ai seminari, giunsero fino al processo d’appello alle Br-Udcc, apertosi un anno dopo. Un fondo di Giorgio Bocca annunciava l’esito di una sentenza-ritorsione scritta in anticipo. «Questi sono i peggiori – tuonava l’opinion maker – i più sanguinari, quelli che nel Sessantotto portavano ancora i pantaloni corti». Non facevano parte della meglio gioventù.

I provocatori di piazza Indipendenza
Dopo l’articolo di Repubblica contro i seminari, un adirato corteo di studenti si diresse verso piazza Indipendenza (allora sede della Repubblica) al grido di «venduti!», ma arrivati sotto le finestre della nave ammiraglia del moralismo editoriale italiano, memori delle cronache di quei giorni che raccontavano del grande scontro editorial-imprenditoriale tra De Benedetti e Berlusconi, preferirono passare allo slogan «compràti!». Pare che Eugenio Scalfari, ferito nel suo incommensurabile ego, accolse l’episodio malissimo con sommo gaudio della plebe studentesca.

I centri di potere dell’emergenza contro la soluzione politica
I fatti di quel periodo mostrano come gli apparati dell’emergenza preferivano di gran lunga il perdurare di un lottarmismo residuale, dottrinario e velleitario, fragile e contenibile, ma sufficientemente rumoroso per suscitare allarme sociale e alimentare ricatti emergenziali, risorsa strategica utile a condizionare perennemente i nuovi movimenti e le nuove radicalità, piuttosto che la chiusura dell’epoca precedente e il recupero di quadri e militanti in nuovi percorsi politici. Ciò spiega l’ostilità nei confronti di una soluzione politica e la persecuzione mirata di tutti quegli attori che ne potevano essere il vettore. Il fantasma della lotta armata doveva restare l’antidoto ad ogni fermento critico, l’alibi per non abbandonare la cultura dell’eccezione. Le accuse di «doppio gioco» e «dissimulazione», lanciate da alcuni magistrati, come Armando Spataro, servirono a chiudere definitivamente ogni ipotesi d’amnistia. Liberate da questa scomoda presenza, cullate dalla rimozione, le culture più catacombali hanno trovato campo libero, suscitando all’inizio solo un logorroico verbalismo lottarmista. Col tempo però, l’esorcismo degli apprendisti stregoni istituzionali ha sortito i suoi mirabili effetti ed alla fine degli anni 90 il brusio cospirativo ha lasciato il posto a degli imprevisti passaggi all’atto.

I grembiulini della Gelmini

Una scuola in uniforme

Paolo Persichetti
Liberazione
27 agosto 2008 (versione integrale)

La scuola è in crisi. Surclassata dalla velocità degli strumenti tecnici che si moltiplicano fuori delle sue aule non riesce più a reggere il confronto con la società. Modelli d’apprendimento educativo, ruoli sociali, flussi d’informazione (uniformata), cultura (conformista), abbondano in grande quantità all’esterno di una istituzione che appare troppo arcaica e priva d’attrattiva. Assistiamo ad una crisi delle tradizionali forme di trasmissione del sapere, dell’apprendimento e dell’educazione che con sempre maggiore difficoltà vengono veicolati dai luoghi tradizionali, come la famiglia, l’istituzione scolastica, gli oratori. I tempi dell’insegnamento operano sul medio-lungo termine per questo non riescono a tenere il passo con la velocità del web, dei nuovi scambi tecnologici tanto rapidi quanto effimeri. Se in passato le aule scolastiche erano i luoghi dove s’infrangevano i silenzi del mondo rurale, oggi il frastuono dei flussi d’informazione sommerge quel che si dice nelle classi. Era già successo, alcuni decenni fa, con l’avvento della televisione che in misura molto maggiore dei maestri elementari ha contribuito a uniformare il paesaggio linguistico di un’Italia ancora dialettale.

Preti, camicie nere e scolarescheCamicie nere e scolaresche

Per arginare questo smottamento la ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha avuto la bella idea di proporre la reintroduzione della divisa scolastica negli istituti che lo vorranno. Uniforme che non sarà però il vecchio “grembiulino” ma un vestito fashion. Pare, infatti, che vi sia la disponibilità di alcune case di moda a cimentarsi con la divisa. Evidentemente l’attuale compagine di governo deve in qualche modo ricompensare il blocco sociale che l’ha sostenuta, mettendo a disposizione ghiotte occasioni per lauti guadagni. E così viene creato dal nulla un apposito mercato per il grembiulino griffato. Miracoli della mano invisibile.
Insieme alla divisa verrà ripristinata anche la bocciatura per motivi disciplinari, l’esame di riparazione per i crediti insufficienti, il ritorno allo studio dell’educazione civica. Tutte misure che s’ispirano a modelli educativi di stampo conservatore, tanto arcaici quanto stupidi. Per le destre la crisi verticale di credibilità ed efficacia dell’istituzione scolastica troverebbe un argine soltanto reintroducendo alcuni dispositivi gerarchici e disciplinari, come il principio d’autorità o la meritocrazia (da sempre un pretesto per reintrodurre criteri di selezione classista). Ridicole misure che potrebbero suscitare sarcasmo se non fosse che dietro questo affannoso arrancare si evidenzia una tragica inadeguatezza, un passatismo che lascerebbe di stucco anche il povero maestro Perboni, quello del libro Cuore. Pensare che la degradazione dei rapporti sociali (“bullismo”), alimentata da un ritorno in forza d’ideologie portatrici d’odio, prevaricazione, intolleranza, razzismo, ignoranza, sdoganate dalle discariche della storia, dovrebbe subire un arresto davanti alle note disciplinari e al grembiule… è come esser convinti di riuscire a svuotare l’Oceano trasportando l’acqua con le orecchie. Un po’ come i soldatini messi agli angoli delle strade.
La scuola purtroppo, siapur tra lenti processi d’ammodernamento e rotture critiche venute dai grandi momenti di contestazione generale e acculturazione di massa come il Sessantotto, è rimasta quella vecchia istituzione ottocentesca, da noi novencentesca, che ha accompagnato la nazionalizzazione delle masse, l’educazione del popolo, l’istruzione delle élites in società ancora rurali che andavano velocemente industrializzandosi. Con la crisi della società fordista è declinata anche la scuola di massa. La dissoccupazione giovanile prima, la società del precariato oggi, hanno incrinato quel modello virtuoso cui aveva sempre fatto fede la cultura repubblicano-democratica ereditata dai movimenti socialisti e comunisti. Certo gli anni 70, con la scuola di massa e la rottura di alcune tradizionali barriere di classe, misero fine all’analfabetismo che ancora perdurava aprendo anche l’accesso agli studi universitari per tutti. Istituti scolastici e università tenevano le luci accese fino a tardi la sera grazie ai corsi serali e alle lezioni per studenti-lavoratori. Erano anni davvero di piombo: quello che colava nelle linotype delle tipografie. I libri andavano a ruba, nel senso che si rubavano per quanto erano letti e le case editrici s’inventarono le edizioni tascabili pur di abbattere i prezzi e approffittare del nuovo mercato.
Poi la restaurazione neoliberale ha svilito la scuola riducendola a mero strumento dei flussi di mercato. Educazione di base per le masse, istruzione di alto livello solo per le élites grazie alla reintroduzione del numero chiuso nelle università. Alla scuola non è stato più demandato il compito di costruire personalità critico-riflessive ma appendici del mercato, individui serializzati, consumatori modellati. D’altronde nella società della flessibilità permanente e della precarietà a vita non esiste più un tempo fisso per l’educazione e l’istruzione legato all’età dei banchi di scuola. La formazione personale diventa permanente, una sfida continua anche in età adulta.
Problemi enormi che dovrebbero richiedere scelte politiche strategiche trovano come risposta il grembiulino. La scienza demografica dimostra che la freschezza e la dinamicità di una società poggia su parametri come il tasso di fecondazione e quello d’istruzione. Siano ormai un paese vecchio e decadente di fronte alla massa sovrastante di diplomati e laureati sfornati annualmente dell’India e della Cina. Ma per la ministra Gelmini l’importante è garantire «ordine e decoro» nelle aule. Ossessione antica quella del corpo degli allievi. Presenza ingombrante che da sempre si è cercato d’occultare e modellare. Le scuole cattoliche sono state sicuramente delle antesignane. Nei loro istituti le tenute vestimentarie non dovevano suscitare indecenza tantomeno incitare alla compiacenza. L’importante era ricoprire ogni ornamento superfluo facendo salva la modestia, perché l’abito è sempre un rivestimento della coscienza.
La tradizione laica non è stata da meno. La rivoluzione francese attribuiva all’educazione e all’istruzione un posto centrale tanto che anche l’abbigliamento infantile divenne un problema politico. Fu lo stesso Robespierre che, ispirandosi a un libro di Michel Lepelletier De Saint-Fargeau, chiese al comitato per l’istruzione pubblica d’introdurre una uniforme obligatoria per tutti i bambini che «sotto la santa legge dell’uguaglianza riceveranno gli stessi abiti, lo stesso cibo, la stessa istruzione, le stesse cure». La rivoluzione non doveva essere solo politica ma anche vestimentaria. Circolavano teorie pedagogiche, come quella di un certo dottor Faust, che denunciavano i rischi di una maturazione troppo precoce per i fanciulli vestiti come gli adulti a causa di abiti sessuati che «riscaldano gli organi e incitano alla masturbazione», oppure facilitano il diffondersi di malattie e evidenziano l’ineguaglianza sociale che «magnifica pochi fortunati e getta nel disprezzo i poveri». Tuttavia è sempre il giovane corpo femminile che desta le maggiori attenzioni, per questo «le bambine devono essere spogliate degli ultimi orpelli d’Eva prima di cancellare con un severo abbigliamento le manifestazioni fisiche più imbarazzanti della loro femminilità».
Ma è con la Terza repubblica che si diffonde in modo stabile la tradizione dell’uniforme scolastica, quando lo Stato laico assume un ruolo educativo, etico e spirituale al tempo stesso, riappropriandosi della morale sottratta al monopolio della religione. Il maestro diventa così una sorta di ministro del culto repubblicano, un militante del credo laico opposto al prete. In Italia sarà il fascismo ad imporre il grembiule nero e il crocifisso in classe. Negli anni 60 il grembiule nero diverrà bianco per le femmine e blu per i maschi. Ma l’idea che l’uniformità vestimentaria potesse davvero occultare le differenti origini sociali e culturali degli scolari, garantendo un’apparente eguaglianza, viene contestata negli anni 70. Prevale allora la convinzione che il grembiule copre proprio ciò che l’insegnante al contrario dovrebbe conoscere per meglio lavorare contro le disuguaglianze sociali e culturali. Il grembiule era visto come un manto d’ipocrisia che nascondeva «uno spazio e un tempo inopportuni». Quegli stessi spazi che oggi si vuole tornare a oscurare.

In fila per tre

di Edoardo Bennato

Presto vieni qui, ma su, non fare così,
ma non li vedi quanti altri bambini
che sono tutti come te, che stanno in fila per tre,
che sono bravi e che non piangono mai

è il primo giorno però domani ti abituerai
e ti sembrerà una cosa normale
fare la fila per tre, risponder sempre di si
e comportarti da persona civile

Vi insegnerò la morale, a recitar le preghiere,
ad amar la patria e la bandiera
noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori
e discendiamo dagli antichi Romani

E questa stufa che c’è basta appena per me
perciò smettetela di protestare
e non fate rumore, quando arriva il direttore
tutti in piedi e battete le mani

Sei già abbastanza grande, sei già abbastanza forte,
ora farò di te un vero uomo
ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l’onore,
ti insegnerò ad ammazzare i cattivi

e sempre in fila per tre, marciate tutti con me
e ricordatevi i libri di storia
noi siamo i buoni e perciò abbiamo sempre ragione,
andiamo dritti verso la gloria

Ora sei un uomo e devi cooperare,
mettiti in fila senza protestare
e se fai il bravo ti faremo avere
un posto fisso e la promozione
e poi ricordati che devi conservare
l’integrità del nucleo familiare
firma il contratto, non farti pregare
se vuoi far parte delle persone serie

Ora che sei padrone delle tue azioni,
ora che sai prendere decisioni,
ora che sei in grado di fare le tue scelte
ed hai davanti a te tutte le strade aperte
prendi la strada giusta e non sgarrare se no
poi te ne facciamo pentire
mettiti in fila e non ti allarmare perchè
ognuno avrà la sua giusta razione

A qualche cosa devi pur rinunciare
in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere
perciò adesso non recriminare
mettiti in fila e torna a lavorare
e se proprio non trovi niente da fare,
non fare la vittima se ti devi sacrificare,
perché in nome del progresso della nazione,
in fondo in fondo puoi sempre emigrare

ehi ehi, ehi, avanti, ehi avanti in fila per tre…

Link
Gelmini: “I precari sono troppi e strumentalizzati”
I ricercatori: “Non cediamo al ricatto, difendiamo l’università pubblica”