Brigit Kraatz, l’Italia a giudizio davanti alla corte europea per colpa della commissione Moro 2

Negli anni Settanta Brigit M. Kraatz era la corrispondente a Roma di Der Spiegel. Negli atti parlamentari viene definita una terrorista coinvolta nel sequestro Moro. Non era vero ma, per ottenere giustizia, si è dovuta rivolgere alla Cedu che ora ha ammesso il suo ricorso. Questo blog ha denunciato già nel maggio 2020 questa storia (puoi leggere qui) di cui ha continuato e continuerà a occuparsi (leggi qui 1,2, 3).
La vicenda è anche all’origine di una querela contro l’ex membro della commissione parlamentare Gero Grassi. All’origine delle accuse mosse contro la corrispondente della stampa tedesca c’è una indagine promossa da un consulente della Commissione Moro 2. Massimo Giraudo – sulla scorta di una ricca letteratura complottista presente sull’argomento – si è mosso per dimostrare che un condominio romano, ex Ior, situato nella zona della Balduina ebbe un ruolo decisivo nelle prime fasi del sequestro del persidente democristiano. L’inchiesta, infarcita di confidenze originate da persone oggi defunte, passate di bocca in bocca, scenari suggestivi e congetture iperboliche è stata rilanciata con grande enfasi anche nella puntata di Report del 7 gennaio scorso.
Definire la signora Kraatz attivista del movimento tedesco 2 giugno, «Bewegung 2 Juni», è un po’ come dire che Lilli Gruber sia stata un membro delle Brigate rosse. Ora che una persona come il tenente colonnello dei Cc, Massimo Giraudo, insignito nel 1988 anche del titolo di cavaliere, ordine al merito della repubblica per il lavoro svolto in diverse indagini, nato nel 1960, non sapesse o non sia stato in grado di verificare con un semplice giro sul web che la signora Kraatz fosse una importante giornalista tedesca, insignita per altro di vari premi per i suoi articoli, autrice di un libro con Willy Brandt e di interviste con i vertici delle istituzioni e dei partiti degli anni 70 e 80, collaboratrice di Rai tre nei giorni in cui cadeva il muro di Berlino (su internet si trova con facilità una sua foto accanto ad Agnelli), accreditata presso il Vaticano mentre seguiva il pontefice nei suoi viaggi intercontinentali, insomma una figura pubblica molto nota negli ambienti della stampa e non solo, solleva inquietanti interrogativi sulla natura cialtronesca, o forse sarebbe meglio dire bantitesca, dei lavori condotti dalla commissione parlamentare sul sequestro Moro, condotti sotto la guida e la responsabilità dell’allora presidente Giuseppe Fioroni. Come se non bastasse, quanto scritto negli atti resi pubblici dalla commissione è poi finito nella sentenza Bellini sulla strage di Bologna. E’ bastato un semplice copia-incolla. Come un virus le affermazioni indimostrate della Cm 2 si sono propagate, riprese come verità, in realtà politica ma dai più confusi con quella storica, sono migrate in una sentenza che nulla c’entra con le vicende del sequestro Moro. E così la brillante giornalista che per un trentennio ha raccontato le vicende italiane al pubblico tedesco si è ritrovata coinvolta nel sequestro Moro e nella strage di Bologna.

Quale è il nesso, vi chiederete? I servizi segreti ovviamente, quei poteri occulti: la Cia, il Secret team, il Mossad, la P2 e la massoneria che tutto reggevano e disfacevano, ovvero la favola che ci ha propinato Report.
Ora il ricorso presentato dai legali della Kraatz davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ultima possibilità che le restava dopo i tentativi andati falliti di far correggere i grossolani errori, e le prese in giro ricevute da parte dei vertici istituzionali, dal presidente della commissione al Quirinale, ha superato il vaglio dell’ammissibilità legale. La squallida montatura di via dei Massimi assume così una rilevanza internazionale e diplomatica dalle molteplici conseguenze che difficilmente potranno essere ignorate.

Non si tratta solo di ripristinare l’onorabilità di una persona tacciata di essere stata altro da quella che era effettivamente; in ballo ci sono le procedure che conducono alla costruzione delle “verità politiche deliberate” all’interno delle commissioni parlamentari e del loro rapporto con la verità storica.
Il tema è quello della intangibilità delle asserzioni contenute nelle relazioni parlamentari una volta deliberate con il voto dei commissari e del parlamento. Se delle successive acquisizioni storico-documentali vengono a smentire quanto affermato all’interno di queste relazioni perché mai queste non possono essere corrette?

di Paolo Morando, Domani, 19 gennaio 2024

La commissione parlamentare d’inchiesta “Moro 2” l’ha definita «già attiva nel movimento estremista “Due giugno”». Che però era qualcosa di più: un vero e proprio gruppo di lotta armata che, nella Germania Ovest degli anni Settanta, si rese protagonista di svariati attentati e rapimenti, anche con la morte del presidente della Corte federale tedesca Günter von Drenkmann durante le concitate fasi del sequestro.
Ma lei, la giornalista tedesca Birgit Kraatz, oggi ottantacinquenne ma negli anni Settanta firma di punta e corrispondente da Roma per importanti testate (i settimanali “Der Spiegel” e “Stern” e la televisione pubblica Zdf, ha scritto pure un libro intervista con l’allora cancelliere Willy Brandt pubblicato anche in Italia), terrorista non lo è mai stata.
Le ha provate tutte in questi anni per cercare di farsi togliere di dosso quella infamante definizione, ma senza riuscirci. Tanto che si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che, è notizia di queste ore, ha accettato il suo ricorso e ora se ne occuperà formalmente, per giungere a una sentenza che in ipotesi potrebbe portare anche a pesanti sanzioni contro lo Stato italiano, in termini di multe e risarcimenti. E chi conosce l’attività della Cedu, sa bene che nell’80 per cento dei casi l’accoglimento del ricorso (questo è infatti lo scoglio maggiore dal punto di vista procedurale) porta poi nella stragrande maggioranza delle volte a un pronunciamento favorevole al ricorrente.

Una vicenda kafkiana
Quella frase è contenuta nella relazione conclusiva dell’attività 2017 della commissione, depositata dal presidente Giuseppe Fioroni. Fu anche l’ultima. E da allora, come sempre accade in questi casi, non si fermò lì. Di citazione in citazione è finita infatti addirittura in una sentenza, e non di scarsa importanza, anzi: è infatti quella della Corte d’assise di Bologna che nell’aprile 2022 ha condannato all’ergastolo l’estremista di destra Paolo Bellini per la strage alla stazione (il processo d’appello inizierà tra l’altro a fine mese), con la giornalista citata nelle motivazioni depositate lo scorso aprile, nei termini già formulati dalla Commissione Moro 2.
È una vicenda davvero kafkiana, perché invece i fatti parlano chiaro. Si tratta di due comunicazioni del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 del Bundeskriminalamt (Bka), l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, nei quali si certifica che il nome di Birgit Kraatz non risulta mai essere stato menzionato in alcun documento della struttura, attestando così la totale estraneità della donna al movimento «2 giugno».
Ha scritto testualmente il direttore del Bka, Jürgen Peter: «Va dato per scontato che la signora Kraatz non ha avuto alcun contatto o altri legami con il gruppo “2 Giugno” che vadano al di là dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento terrorismo di sinistra in Germania e in Italia». E ancora: «Allo stato degli atti del Bundeskriminalamt non è accertabile nessun contatto o altro legame con il gruppo “2 Giugno” che abbiano a che fare con la signora Kraatz».

La commissione Stragi
Sono documenti che i legali della giornalista spedirono a suo tempo allo stesso presidente Fioroni, senza però che fosse possibile ottenere una rettifica della relazione, avendo la Commissione parlamentare d’inchiesta già concluso i propri lavori e chiuso i battenti per via della fine della legislatura. E quelle relazioni, in quanto approvate dal Parlamento, sono ora del tutto intangibili. Peraltro, appunto in quanto parlamentari, tutti gli allora componenti della commissione sono coperti da immunità. Non lo sono però per affermazioni successive al mandato politico: e infatti l’ex deputato Gero Grassi, tra i più attivi componenti di quella commissione, è già stato raggiunto da una querela della giornalista, querela ancora pendente.
Come una palla di neve che rotolando a valle diventa valanga, quell’evidente errore contenuto nella relazione di Fioroni è figlio di un altro atto parlamentare di addirittura ventiquattro anni fa, rimasto a lungo sottotraccia. Si deve infatti tornare al 2000 e alla allora Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In quella sede, i parlamentari di Alleanza nazionale Vincenzo Fragalà e Alfredo Mantica presentarono una relazione in cui veniva appunto fatto il nome di Birgit Kraatz come esponente del gruppo “2 Giugno”.
Così ha ricostruito la vicenda il ricercatore Paolo Persichetti: «A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo “2 giugno”, la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo del Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo “2 giugno”».

Richieste vane
Il documento di Mantica e Fragalà peraltro non venne mai né discusso né tanto meno approvato. E di errore in errore, come detto, l’appartenenza di Birgit Kraatz al movimento terroristico è finito addirittura nelle motivazioni della sentenza Bellini. E va detto che la giornalista, nei mesi scorsi, si è rivolta anche ai magistrati bolognesi, affinché correggano nei successivi gradi di giudizio quell’infamante definizione.
Sul fronte Commissione Moro 2, invece, le sue doglianze sono state recepite ma senza apporre correzioni alla relazione Fioroni, per i motivi già citati. Gli uffici del parlamento hanno in effetti protocollato il materiale inviato da Kraatz, ma ad oggi non risulta che siano stati allegati agli atti nel portale della commissione. E quei documenti del Bka sono stati invece catalogati “fisicamente” in una sezione non accessibile al pubblico.
La citazione di Birgit Kraatz da parte della Commissione Moro 2 riguardava le palazzine di via Massimi, anche al centro pochi giorni fa di un ampio servizio della trasmissione di Rai3 “Report” sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse: palazzine indicate come uno dei possibili luoghi in cui lo statista democristiano sarebbe stato tenuto prigioniero.
Questa la citazione completa contenuta nella relazione Fioroni: «Si è in particolare riscontrato che in quelle palazzine abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta. La stessa Kraatz ha ricordato la sua relazione con il Piperno, ma ha escluso che si trattenesse nel condominio».
Piperno, come noto, era stato dirigente di Potere operaio. E venne contattato dal Partito socialista (in particolare dall’allora vicesegretario Claudio Signorile) nel tentativo di giungere a una liberazione dello statista democristiano. Ironia della sorte, in quel servizio di “Report” è comparsa anche la fotografia della stessa Birgit Kraatz, peraltro correttamente indicata solo come giornalista. Ma si diceva, lanciando una suggestione: «Kraatz e Piperno si sono visti anche durante il periodo del sequestro Moro?».

Le palazzine di via Massimi
A questo proposito, ancora nel febbraio 2018 al presidente Fioroni la giornalista aveva scritto così: «L’insinuosa descrizione che il mio amico, il professore Franco Piperno, avrebbe sorvegliato dalla mia casa, oppure in qualche modo con la protezione della mia casa, lo scambio delle vetture durante il sequestro Moro nel garage che apparteneva a due palazzi in via Massimi 91 (ipotesi peraltro mai provata – né tantomeno affrontata – in alcuna sede giudiziaria, ndr), è falsa: questo non sarebbe stato nemmeno tecnicamente possibile perché dalle finestre della mia casa l’entrata del garage non era né visibile né raggiungibile come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo. Inoltre al garage io non avevo mai accesso».
E sono tutte circostanze che la giornalista aveva riferito in precedenza anche al colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo, consulente della commissione, senza la presenza di un avvocato «perché non ho nulla da nascondere». C’è comunque da scommettere che la questione sarà destinata ad avere altre puntate. Sempre che nel frattempo la Corte europea dei diritti dell’uomo non gli dia un taglio netto.

La colonna sonora di via Fani. Nuovi documenti smontano la storia della Honda e le fantasie del supertestimone Marini

Esclusiva – da pochi giorni è nelle librerie Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, aprile 2015. Un saggio da non perdere assolutamente se volete liberarvi il cervello da decenni di scorie complottiste. L’autore, Gianremo Armeni, ha trovato documenti ignorati per decenni da magistrati, membri delle commissioni d’inchiesta, complottisti d’ogni risma e colore, mettendo in luce come i dietrologi hanno impunemente arrangiato le loro ricostruzioni deformando la realtà. La storia torna a prendersi la sua grande rivincita. Ecco come andarono veramente le cose in via Fani

Paolo Persichetti
Il Garantista, 23 aprile 2015

armeni-copertina-moro16 marzo 1978, via Fani. Le tre vetture del commando brigatista con Moro a bordo stanno risalendo via Stresa. La scena dell’assalto, ormai alle loro spalle, è avvolta da improvviso silenzio, una sorta di tempo sospeso dopo il crepitìo degli spari, il rombo dei motori e lo strepitìo delle gomme che partono in accelerazione.
Un minuto, forse due e sul posto arriva una volante con a bordo gli agenti Di Berardino e Sapuppo. Si mettono immediatamente in contatto via radio con la centrale operativa per fornire le prime informazioni. Mentre gran parte dei testimoni prendono coraggio e si avvicinano ai corpi riversi all’interno delle vetture colpite, uno di loro punta diretto verso i poliziotti. La sua è un’ansia di parola, è convinto di aver visto tutto, di sapere ogni cosa, lui deve dire, indirizzare subito le indagini. Quel che è accaduto si invera nel suo racconto, egli ne è il depositario. Inizia così il vangelo dei misteri del caso Moro, attraverso il verbo primigenio dell’ingegner Alessandro Marini che, contrariamente a quello che si è voluto lasciar credere fino ad oggi, non ha mai illuminato di verità la storia del rapimento Moro, a cominciare da quel che è realmente accaduto quella mattina: la corretta dinamica dell’assalto brigatista; la presunta funzione attiva svolta da una moto Honda durante le fasi del rapimento; i presunti colpi sparati da uno dei passeggeri contro il parabrezza del suo motorino.
Tutto sommato dettagli difronte alla vicenda politica del rapimento, alla portata storica dell’episodio, al rilievo internazionale che esso ha avuto. Nonostante ciò questi aspetti hanno assunto un rilevo centrale, sono divenuti l’architrave originario della dietrologia sul rapimento, oggetto di una sterminata pubblicistica complottista, di ripetute indagini giudiziarie e processi, dell’attività ultradecennale di ben due commissioni d’inchiesta parlamentare e della recente costituzione di una terza, ma soprattutto hanno reso senso comune la superstizione del complotto.

11 Motorino01 copiaTrentasette anni dopo Gianremo Armeni, una laurea in sociologia, collaborazioni con Limes, un libro su Dalla Chiesa, un volume dedicato alle regole della lotta clandestina, Vademecum del brigatista, e un romanzo d’iniziazione sul nucleo storico delle Brigate rosse, fa piena luce sulla inattendibilità del super testimone con un saggio spietato appena uscito nelle librerie, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri, aprile 2015, 16 euro).
Quella di Armeni è innanzitutto una grande prova di metodologia storica. Alla stregua di quelli che considera i suoi maestri, Giovanni Sabbatucci, Marco Clementi e Vladimiro Satta (quest’ultimo autore della prefazione), per districarsi dal ginepraio di ricostruzioni cospirazioniste fondate nella migliore delle ipotesi su presupposti che fanno capo al metodo indiziario e deduttivo, dove il soccorso delle prove è carente o inesistente, le fonti trascurate, travisate, omesse o peggio manipolate, Armeni è andato alla ricerca dei fatti, alla sorpresa che riserva l’incontro sempre imprevedibile con le fonti. Cinque anni di lavoro, una ricerca imponente che non trova eguali sulla materia: oltre alle monografie sulla vicenda Moro, ha studiato l’intero complesso di carte processuali e istruttorie che hanno dato corpo ai cinque processi sul rapimento, documentazione conservata presso l’aula bunker di Rebibbia. Per ben tre volte ha riletto i 130 volumi della commissione Moro e scandagliato con maniacale attenzione l’intero filone “caso Moro” della commissione Stragi. Un lavoro mastodontico che non ha tradito le aspettative: cercando «l’ago nel pagliaio», come lui stesso scrive, ha scovato tre documenti fondamentali più altre circostanze che radono al suolo la tesi della funzione attiva della moto in via Fani, gli spari contro il parabrezza del motorino di Marini, mettendo in serio dubbio il corretto operato di alcuni giudici istruttori, sostituti procuratori, presidenti di corte d’assise e membri delle commissioni d’inchiesta che hanno avuto un ruolo nell’accreditare la storia della moto.

8 Motorino nastrato-1 copiaNe fuoriesce un’autopsia implacabile di quella che è la genesi del discorso dietrologico: basta riandare ai minuti successivi dell’agguato quando l’ingegner Marini si avvicina ai poliziotti della volante per raccontare loro di aver visto una moto seguire la Fiat 132 che portava via Moro. Armeni ricostruisce nel dettaglio il percorso compiuto da quella prima e originaria informazione, subito registrata nei brogliacci della centrale operativa che dirama a tutte le volanti l’avviso di ricerca di quella misteriosa Honda, mai vista da nessuno degli altri testimoni che assistono lungo via Stresa alla fuga del commando brigatista. Il brogliaccio della centrale operativa e il successivo rapporto dei due agenti, che riprende le parole di Marini, finisce in una relazione di sintesi che il questore De Francesco invia in quelle prime ore alle massime autorità dello Stato. Nel testo si cita la presenza di una moto senza riferirne la fonte. Nel 2002, uno dei consulenti della commissione Stragi, Silvio Bonfigli, scova la relazione del questore e la pubblica in un libro scritto insieme a Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni. Prende forma così la leggenda della presenza, certificata da un’autonoma acquisizione della polizia, di una moto nell’azione di via Fani. Informazione – sostengono gli autori – di cui la magistratura non avrebbe tenuto conto aderendo invece alle smentite dei brigatisti. Falso anche questo perché alla fine del primo processo Moro, tra le condanne inflitte contro i componenti del commando che agirono quella mattina, ce ne fu una per complicità nel tentato omicidio dell’ingegner Marini assieme ai due presunti passeggeri della moto mai identificati. Ma che importa, il presupposto della dietrologia è ignorare le refutazioni alimentando una mondo di verità parallele, una controrealtà virtuale che mescola senza scrupoli credenze, suggestioni, incantesimi, malafede e menzogne, spesso a scopo di lucro.

4. Motorino 1 copiaAnche la verità giudiziaria non è da meno: da decenni sentiamo arguire che moto e spari contro Marini sono realtà storica poiché lo ha stabilito un giudicato processuale. Ma se il magistrato deve attenersi a questa regola, lo storico ha la felice libertà di ribaltare l’assunto rimettendo al centro l’indagine sui fatti realmente accaduti, lasciando sullo sfondo le chiacchiere di una sentenza che si è limitata a trascrivere, per altro in parte, una delle tante versioni di un testimone. Questa regola aurea della buona ricerca storica conduce Armeni a nuove sconcertanti scoperte, come la falsa storia della presunta inversione effettuata dolosamente dalla magistratura, quella relativa alla posizione occupata dai due centauri sulla moto, un aspetto questo che ha veicolato l’ennesima ipotesi di complotto; oppure i ripetuti cambi di versione forniti dal supertestimone nelle sue 11 deposizioni, che lo portano persino a cambiare il colore della moto e mettere in dubbio che qualcuno gli abbia sparato. Ritrattazioni mai attenzionate dalle roccaforti cospirazioniste. Anche qui il libro riserva la sorpresa di un documento eccezionale, sottolineato con inchiostro rosso presumibilmente dalle autorità giudiziarie dell’epoca.

Ciao MariniOsservato da vicino Marini è un vero vaso di Pandora: il 16 marzo riferisce d’aver visto la moto ma solo il 5 aprile, 20 giorni dopo, racconterà degli spari contro di lui. Ecco perché – nota Armeni – la polizia scientifica non poté sequestrare il parabrezza del motorino, lasciato incustodito in via Fani la mattina del 16 marzo (come è possibile vedere in alcune foto pubblicate su questo blog), che ritraggono un ciclomotore con il parabrezza nastrato accanto al muretto, sul lato sinistro del marciapiede da dove era sbucato il commando brigatista). Nel settembre successivo, sentito dal giudice istruttore Imposimato, torna sull’episodio e fornisce una fantasiosa mappa dell’agguato. I membri del commando raddoppiano e stranamente manca il cancelletto inferiore. Non c’è la donna armata che pure altri testimoni indicano. In sede processuale ribadirà di non aver mai visto la donna che presidiava l’incrocio tra via Fani e via Stresa.
Moro: Honda con due persone anche in Armeni non molla la presa, viviseziona le parole dell’oracolo Marini fino ad accorgersi di un dettaglio rimasto inosservato: secondo il supertestimone il passeggero della moto avrebbe impiegato il braccio sinistro per esplodere i colpi di pistola diretti contro di lui. Una singolare incoerenza che assomiglia tanto ad un lapsus rivelatore: Marini, infatti, si sarebbe dovuto trovare sul lato basso di via Fani, quindi a destra della moto al momento del suo passaggio. Anche qui Armeni mette in crisi la ricostruzione ufficiale ripescando una testimonianza, sempre ignorata, che solleva forti dubbi sulla posizione dichiarata dall’ingegnere sul motorino quella mattina, per offrirci alla fine una ulteriore chicca che chiude il cerchio sulla natura vertiginosa del personaggio. Il lettore capirà, allora, perché l’autore abbia scelto come titolo del suo saggio, Questi fantasmi, una delle più celebri commedie di Eduardo di Filippo, l’artista napoletano convocato sulla scena del rapimento Moro dallo stesso Marini.

Iter parabrezza 1Uno dei pezzi forti del libro è la documentazione, scovata in un particolare ufficio giudiziario, che ricostruisce la storia del parabrezza, fulcro dell’intera narrazione dietrologica. Si scopre che Marini, dopo averlo sostituito, ne aveva conservato solo due frammenti (circostanza assai singolare per un reperto di quella importanza), presi in consegna dalla Digos il 27 settembre 1978. Da quel giorno rimarrà chiuso nell’ufficio corpi di reato, dove lo spedisce il giudice istruttore Imposimato senza mai farlo periziare fino alla sua distruzione il 9 ottobre 1997. Non risponde al vero, dunque, la relazione del senatore Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, che il 23 febbraio 1994 inspiegabilmente scrive di una perizia e di un colpo d’arma da fuoco che avrebbe attinto il Iter parabrezza 2parabrezza. In realtà il reperto non era mai uscito dal deposito dei corpi di reato e la sua esistenza era del tutto ignorata dai periti, come lamenterà uno di essi difronte ai giudici. Soltanto il 31 marzo 1994 e il successivo 17 maggio la magistratura si accorgerà della sua esistenza. Il reperto viene prelevato per non più di 24 ore, quando il pm Marini (omonimo del supertestimone) lo sottoporrà in visione al suo ex proprietario, il quale riconoscendolo rivela con estremo candore che non furono dei colpi di pistola a danneggiarlo ma una caduta del ciclomotore dal cavalletto nei giorni precedenti il 16 marzo (vedi qui, il Garantista del 12 marzo 2015).

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994Quanto basta per concludere che la funzione attiva della Honda nel rapimento è un ectoplasma processuale, che la magistratura giudicante volle inizialmente accreditare per mettere nel cassetto due ergastoli supplementari, divenuta in seguito uno dei cavalli di battaglia delle teorie complottiste a scapito anche della stessa corporazione togata che non avrebbe certo immaginato un giorno di essere all’origine di tanti danni. Nonostante ciò il procuratore generale Antonio Marini si è recentemente opposto all’archiviazione dell’inchiesta, ed ha riconvocato tutti i membri del commando brigatista presenti in via Fani, convinto che la fantomatica moto sia ricomparsa nel 1983 per compiere il ferimento di Gino Giugni, rivendicato dalle Br-pcc.

Ha fatto bene, allora, Gianremo Armeni a portare il colpo conclusivo alla fine del suo saggio. Partendo da alcuni studi sulla memoria uditiva, più affidabile di quella visiva, e dalla constatazione che tutti i testi hanno assistito solo ad alcune sequenze dell’azione, mentre la percezione dei rumori è rimasta ininterrotta, ha ricostruito con un esperimento innovativo la colonna sonora dell’assalto in via Fani. L’esito della prova è di una efficacia sorprendente: riemerge la traccia coerente del «fragore degli spari» e del momento preciso in cui essi hanno avuto termine. L’esame non lascia più spazio alle interpretazioni, alle ipotesi, alle suggestioni: la storia si riappropria di ciò che le era stato sottratto. Finita l’azione cala il silenzio, i testimoni si affacciano, rialzano la testa, escono dai loro momentanei ripari, scopriamo allora che è venuto il tempo di separare la storia dalla farsa.

Postscritum: una volta provato che nel modulo operativo del commando brigatista non era presente alcuna moto, e che nessun’altra ha interferito nell’azione, la questione della Honda diventa superflua. Tuttavia, poiché l’indagine di Armeni non smentisce affatto il passaggio di una motocicletta quella mattina (ne circolano migliaia a Roma ogni giorno), resta legittima la curiosità del lettore sul momento esatto in cui essa si è affacciata sulla scena. Armeni con estremo rigore ricostruisce anche questo, correggendo alcune ricostruzioni circolate in passato. Gli elementi per scoprirlo c’erano già tutti, bastava rimontare i pezzi con un po’ di logica scevra da retropensieri, pregiudizi e strumentalizzazioni. Chi c’era sopra? Questo è stato già scritto (vedi qui). Ora leggete il libro, poi ne riparleremo.

Per saperne di più
Rapimento Moro, la ricostruzione dell’azione di via Fani disegnata da Mario Moretti
Ecco la prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
Su via Fani un’onda di dietrologia. Ecco chi c’era veramente sulla Honda

La dietrologia nel caso Moro
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia
2a puntata  – Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol
3a puntata – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
4a puntata – La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
5a puntata – Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
I dietrologi dell’isis su Moro
La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro interrogato già 7 volte
Povero Moro ridotto a “cold-case”
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc?
La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

Armeni pag 12

 Armeni pag 13