Nella smorfia napoletana il 48 è il morto che parla. Un numero importante che indica il defunto venuto in sogno a suggerire i numeri da giocare. La smorfia non transige, quando il morto parla e si devono puntare i suoi numeri bisogna sempre aggiungere il 48. Lo si deve al morto stesso in segno di gratitudine per il prezioso suggerimento fornito. Non si può proprio mancargli di rispetto altrimenti la puntata è persa e la jattura è assicurata. Il 48 è divenuto un numero importante anche in un’altra disciplina: la dietrologia. Il morto che parla è decisivo, senza le sue rivelazioni non riusciremmo a sapere nulla del nostro passato, la sua voce è la torcia accesa che ci illumina nel mondo oscuro dei misteri, ci permette di prevedere il tempo che fu. Il morto che parla è la fonte delle fonti, quella che ci risolve ogni problema. Gli storici non lo hanno ancora capito, sono dei ciechi che avanzano a tastoni cercando inutili documenti, prove, testimonianze, riscontri. La voce che viene dall’aldilà ci risparmia da tutte queste fatiche, soprattutto quando le nostre ipotesi non trovano maledettamente conferma. Evocare il morto che parla non costa davvero nulla e poi offre un grande vantaggio perché ci ritroviamo ad essere i soli depositari della sua verità. A quel punto siamo noi che parliamo per lui, lo testimoniano, diventiamo i suoi ventriloqui. Quanto sono belli i morti che parlano, soprattutto perché non possono ascoltarci e sentire quel che noi gli mettiamo in bocca. I morti che parlano hanno il pregio di non poter smentire né confermare. Da quando i defunti ciarlano così tanto i dietologi hanno fatto incredibili scoperte. L’ultima, in ordine di tempo, l’ha riportata Stefania Limiti sul Fatto quotidiano del 20 aprile scorso: Licio Gelli partecipava alle riunioni che si tenevano al Viminale durante il sequestro Moro. Lo avrebbe confidato Bettino Craxi a Sandra Bonsanti – nei decenni passati grande narratrice sulle pagine di Repubblica di misteri, complotti e depistaggi. Dell’intima convinzione che l’ex segretario socialista, scomparso ventuno anni fa nel suo esilio di Hammamet, avrebbe riferito alla giornalista in piazza Navona non esiste ovviamente altra prova se non la testimonianza della Bonsanti stessa. Il morto che parla, per giunta figura autorevole quando era in vita, è convocato ancora una volta per dare prova della teoria che vorrebbe Gelli stratega occulto della gestione statale del sequestro, emanazione di quel potere invisibile che avrebbe manovrato per liquidare insieme a Moro la possibilità di far entrare il Pci al governo. Che poi la strategia di Moro fosse l’esatto opposto, ovvero contenere la crescita elettorale del Pci, usurarne l’immagine presso i suoi elettori coinvolgendolo nella maggioranza di governo senza offrirgli mai responsabilità nell’esecutivo, utilizzano invece la sua capacità di calmierare l’insubordinazione sociale che ribolliva nel fabbriche e nelle piazze, questa teoria complottista non può che ometterlo. Allo stesso modo non sa spiegare perché il Pci e la P2 coabitarono tranquillamente nel Corriere della sera e i vertici piduisti dei Servizi segreti furono tutti nominati con l’assenso del maggiore partito di opposizione. Circostanze che messe insieme sollevano un unico decisivo interrogativo: i dirigenti di Botteghe oscure erano corrivi o solo degli incapaci? Le rivelazioni dalla Limiti proseguono sul filo dei ricordi della Bonsanti tratteggiando i contorni di grande e confuso complotto. Una macchinazione che deresponsabilizza le scelte fatte dai gruppi dirigenti delle maggiori forze politiche dell’epoca, allontanando lo sguardo dei lettori dalle acquisizioni storiografiche che ci descrivono le dinamiche reali che agirono in quelle settimane convulse. Il protagonismo assoluto del partito della fermezza, il blocco Pci-Dc (Moro boys in testa) ostinatamente intenzionato a fare muro contro ogni cedimento, margine di manovra, possibilità di negoziato, ricerca di un compromesso, fino a decretare l’inautenticità delle lettere che Moro inviava dalla prigione. Ancora una volta la figura di Gelli e della P2 vengono convocate attraverso le parole di un defunto per coprire l’operato di questo pezzo importante di ceto politico, la scelta voluta da Pci-Andreotti e Zaccagnini di non convocare il parlamento per lunghi mesi, tanto che nemmeno alla notizia della morte di Moro si aprì una discussione per il timore fondato che un dibattito alla Camere, dando voce ai dissenzienti che chiedevano di trattare, avrebbe scatenato una inevitabile crisi di governo sfaldando il fragile patto consociativo. Solo la pubblicazione del memoriale difensivo di Moro, il testo dattiloscritto trovato dopo l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nella base Br di via Montenevoso, costrinse il parlamento, ben cinque mesi dopo la morte del leader Dc, a discutere del rapimento e della sua morte. Si evoca Gelli per coprire Berlinguer che marcava a uomo Zaccagnini, ricondotto immediatamente all’ovile dopo il suo improvviso incontro con Craxi che aveva rotto il fronte della fermezza. Forse perché si vuole far dimenticare l’intimidazione del cugino Cossiga, quando iniziò a circolare l’idea di una possibile mediazione della Croce rossa o l’interrogatorio simil-poliziesco che Berlinguer fece a Craxi per conoscere le fonti che lo avevano portato a ritenere possibile una trattativa. Per i maggiori dirigenti del Pci Moro era morto il giorno dell’arrivo della sua prima lettera a Cossiga e venne seppellito quando arrivò la missiva contro Taviani. Si convoca la P2 per nascondere le parole ciniche pronunciate contro Moro durante le Direzioni del Pci o il biglietto di Tatò a Berlinguer, «Se […] aderissimo al principio della trattativa per salvare la vita fisica di Moro, in realtà (e senza alcuna garanzia di riaverlo vivo) faremmo credere che anche noi siamo interessati a che Moro mantenga i suoi segreti: avvaloreremmo […] la difesa dello Stato e di una Dc che vogliono tenere nascosti i loro misfatti». La morte di Moro serviva a mantenere intatta la purezza del Pci. Agitare le trame aiuta a dimenticare il viaggio di Napolitano negli Stati Uniti nei giorni del sequestro e l’ignavia dei dirigenti democristiani di fronte alle richieste del loro presidente, senza dimenticare la mancate dichiarazioni di Fanfani promesse all’esecutivo brigatista e che fecero precipitare la sorte di Moro. Invece di parlare con i morti, Sandra Bonsanti avrebbe fatto bene a ricordare le pagine del suo giornale uscite durante il sequestro, gli attacchi contro le colombe con gli artigli o l’invenzione delle torture inflitte il prigioniero, argomento sollevato per non dare credito alle parole di Moro che oggi sappiamo esser vere. Dovrebbe spiegare gli editoriali di Scalfari, compreso quello in cui si affermava che la salvaguardia dello Stato valeva la morte di un uomo. La vendetta è un piatto freddo e il direttore di Repubblica fece pagare a Moro gli omissis sulle carte del piano Solo che lo avevano portato in tribunale. Se dietro tutto ciò c’era un burattinaio, come Bonsanti e la Limiti si ostinano a dirci, e non le scelte dichiarate e le condotte palesi di un sistema politico arroccato su se stesso, allora bisogna riconoscere che gli esponenti del partito della fermezza furono delle marionette tirate per i fili, Bonsanti compresa.
Si sa, l’utilizzo pubblico della storia è spesso cosa ben diversa dalla storia come disciplina scientifica. Ciò perché da sempre la politica (soprattutto quella al potere) tende a volersene appropriare, distorcendo, occultando, inventando eventi, situazioni, contesti, per fini di preservazione dello status quo. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, nella primavera del 1978 è forse l’evento del secondo dopoguerra italiano a essere oggetto di una continua campagna basata su ricostruzioni senza alcuna aderenza documentaria e su interpretazioni fantasiose e mistificatorie. La scorsa estate gruppo di storici e storiche, ricercatori e ricercatrici, studiosi e studiose della storia politica italiana del tempo recente hanno redatto un appello teso non solo a demistificare l’alone di complottismo che avvolge il discorso pubblico sul caso Moro, ma anche a ripristinare il dibattito e il confronto sul piano della rigorosità metodologica. Sul tema abbiamo deciso di intervistare uno degli estensori della lettera aperta, lo scrittore e giornalista Paolo Persichetti
Machina-Deriveapprodi.com, 25 novembre 2020 Intervista di Alberto Pantaloni a Paolo Persichetti
1.Com’è possibile che a distanza di oltre quarant’anni dai fatti di via Fani e via Caetani, in un contesto politico enormemente mutato, ci sia ancora chi è ossessionato dai complotti e dalle dietrologie? Il passato, quando è ritenuto scomodo, subisce in genere un processo di rimozione: viene dimenticato, seppellito per poi riemergere qui e là se ne è rimasta traccia. Nel caso della lotta armata degli anni ’70 è avvenuto un processo radicalmente diverso: quella vicenda è stata sottoposta a una ipermemorizzazione fabbricata dai poteri pubblici. Sappiamo che la memoria è un impasto di ricordo e oblio che nel caso delle memorie private risponde a dei processi di selezione psichica legati alla singola storia del soggetto. Nella memoria pubblica, invece, i processi di selezione sono politici.
2.Spiegaci in che modo ha preso forma questo uso pubblico del passato. Tra i momenti decisivi ci sono certamente i ripetuti interventi del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, per altro uno dei protagonisti della linea della fermezza che volò negli Usa proprio nelle settimane del sequestro Moro. In più occasioni tra il 2007 e il 2008, fino all’editto pronunciato dal Quirinale il 9 maggio di quell’anno, decretò il divieto di parola pubblica degli ex appartenenti delle formazioni armate degli anni ’70, i quali – sosteneva – «non avrebbero dovuto avvalersi per cercare tribune da cui esibirsi, dare le loro versioni dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni». Al tempo stesso l’istituzione nel 2007 di una giornata nazionale della memoria delle vittime del terrorismo che si tenne la prima volta il 9 maggio dell’anno successivo, data significativa che relegava lo stragismo con le sue complicità statali negli sgabuzzini della memoria ponendo al centro dei rituali commemorativi il sequestro Moro, mischiando e confondendo l’iperviolenza statuale e atlantica delle stragi con le insorgenze armate provenienti da gruppi sociali oppressi. Un altro aspetto importante è stata l’attribuzione di un ruolo di amministrazione della memoria pubblica all’associazionismo che si era visto riconosciuto lo status di vittima legittima. Da qui l’elaborazione di discorsi fondati sulla stigmatizzazione etica, l’anatema morale a scapito di un approccio fondato sull’impiego delle discipline dell’analisi sociale, politica ed economica. La conseguenza è stata l’oblio dei fatti e delle condizioni sociali che determinarono quegli eventi, per altro figli di un modello di società e di produzione nel frattempo superati e dimenticati. Questa memoria svuotata dalle sue matrici causali ha assunto le sembianze di un spettro che si proietta ancora oggi, oltre il millennio, un po’ come lo spettro marxiano, rinviandoci sbiadite immagini in bianco e nero di una violenza politica irragionevole e manipolata che cancella i colori della storia. L’eredità, il condensato di questa chimica della memoria statuale sono stati il complottismo (la dietrologia) e il vittimismo.
3.Alla fine di agosto una serie di esponenti (sessanta) del mondo della ricerca storica e dell’inchiesta politica hanno firmato un documento di denuncia del crescente peso che la visione complottistica sul rapimento e l’uccisione del Presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro da parte delle Brigate rosse ha nel discorso pubblico, dalle dichiarazioni della politica agli editoriali degli organi d’informazione. Lo storico Marco Clementi, fra i firmatari, ha affermato che questa presa di posizione costringe tutti «a misurarsi con il principio di realtà». È il vecchio problema della contraddizione fra verità storica e uso pubblico (cioè politico) della storia. Un problema che non riguarda solo gli anni Settanta della nostra storia (si pensi alle polemiche sulla Resistenza o sulle Foibe nel nostro Paese, o a quelle sulla Guerra Civile americana negli Usa). Come mai siete usciti con questo documento ad agosto scorso? L’offensiva complottista è cosa che va avanti da diversi decenni… L’innesco è stato l’ennesimo fake che accostava le vicende legate alla strage di Bologna dell’agosto 1980, che stando alle sentenze della magistratura hanno una matrice di destra, in ogni caso opposta per movente, obiettivi e pratiche operative al fare dei gruppi della sinistra rivoluzionaria armata e delle Brigate rosse, geneticamente antistragiste. Ma aldilà della ragione specifica, credo che sia stato un segnale importante di cambiamento, la prova di una maturazione del mondo della ricerca, di una nuova consapevolezza e anche della presenza di un maggiore coraggio degli studiosi dovuto forse all’arrivo di nuove generazioni non più embedded, slegate cioè da vincoli e condizionamenti che potevano esercitare fino a ieri le vecchie baronie legate culturalmente al catechismo dell’emergenza e della fermezza tramandato dalla Prima Repubblica. C’è un clima nuovo a cui ha certamente contribuito la maggiore socializzazione delle fonti di provenienza statale. Recenti aggiornamenti normativi hanno reso più democratico l’accesso agli archivi. Oggi è possibile consultare quei documenti che un tempo erano appannaggio solo della magistratura, delle commissioni parlamentari e dei loro consulenti. Una circostanza che in passato ha favorito una certa opacità e anche la manipolazione delle fonti stesse. È accaduto che carte scomode venissero ignorate o citate solo in parte. Quel tempo è finito! C’è una nuova generazione di studiosi che non è più disposta ad accettare narrazioni che ignorano i canoni storiografici: la confusione di tempi e luoghi, l’uso dei de relato spesso attribuiti a defunti, le correlazioni arbitrarie, le affermazioni ipotetiche, i sillogismi e le false equazioni, le suggestioni e molto altro ancora condito con un approccio paranoico che rifugge ogni confutazione. Per decenni l’accesso riservato alle carte è stato un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, per tracciare una narrazione ostile alla storia dal basso, con l’obiettivo di negare la capacità dei soggetti di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale. Così si è finiti in una sorta di nuovo negazionismo storiografico.
4.Diversi studi sui documenti delle Commissioni Moro avevano già evidenziato in passato la natura assolutamente endogena del fenomeno brigatista e dell’operazione Moro, penso ai volumi di Clementi e Satta, che sono stati i pionieri del ristabilimento della verità storica… Insomma la situazione era già chiara decenni fa… Senza dubbio «La pazzia di Aldo Moro» di Marco Clementi e «L’odissea nel caso Moro» di Vladimiro Satta, apparsi rispettivamente nel 2001 e nel 2003, hanno segnato una svolta metodologica decisiva. Finalmente due studiosi, per altro di matrice culturale diversa, riportavano sui dei corretti binari storiografici l’analisi del sequestro Moro. Quanto a dire che quei due lavori furono sufficienti per rendere la situazione chiara, ce ne corre. I loro studi hanno senza dubbio aperto una nuova strada, seguita poi da altre pubblicazioni e altri autori cresciuti negli ultimi anni ma in misura sempre inferiore rispetto alla mole della pubblicistica complottista, al peso delle narrazioni dietrologiche diffuse sulla stampa, nel cinema e nei grandi format televisivi. Non c’è competizione: l’industria editoriale è orientata sul tema del cold case,anche perché paga in termini di mercato. Cerca testi sensazionalistici spacciati per inchieste che promettono scoop, garantiscono rivelazioni, spacciano soluzioni agli eterni misteri che per definizione restano insolubili, inarrivabili altrimenti il gioco finisce e il circo chiude. I grandi format televisivi, se osserviamo quel che è accaduto in occasione del quarantennale del sequestro Moro, hanno riprodotto questo schema. La lettera firmata dai sessanta storici e ricercatori è stata un sasso lanciato in questo stagno putrido, un acquitrino insalubre dove hanno trovato la loro ragion d’essere una pletora di cialtroni, un circo Barnum di pagliacci e mitomani dietro cui si celano figure senza scrupoli.
5.Esponenti di area Pci (penso a Sergio Flamigni e a Miguel Gotor) continuano imperterriti nella loro crociata sulla presunta «verità»: Flamigni è arrivato addirittura ad accusare Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro del Presidente Dc dal 2014 al 2017, di avere gestito i lavori della Commissione in modo «autocratico e disordinato» per nascondere la verità. Anche la dietrologia non è più quella di una volta. I lavori dell’ultima commissione Moro presieduta dal democristiano Giuseppe Fioroni, oggetto ora di diverse querele rivolte contro uno dei suoi ex membri (l’ex commissario Gero Grassi), hanno scatenato la balcanizzazione della dietrologia, una sorta di tutti contro tutti. Rivalità, concorrenza nel mercato delle fake news, logica mercantile dello scoop, di chi la spara più grossa tanto poi nessuno verifica e nessuno risponde (ma anche qui le querele ci dicono che qualcosa sta cambiando e un principio di realtà e responsabilità sta per essere introdotto), fiorire di tesi complottiste che si annullano a vicenda divorandosi tra loro, hanno condotto al parossismo il discorso dietrologico. Una iperbole che lo mette al passo con gli altri cospirazionismi che traversano il pianeta in questo momento e mobilitano le interiora della destra più conservatrice e reazionaria. A Flamigni, che ha campato per decenni sul monopolio dell’accesso ai documenti e su risultanze peritali incerte, non va giù che questa commissione abbia disposto ingenuamente nuove perizie scientifiche su via Fani, via Gradoli e via Montalcini. Accertamenti che hanno definitivamente sepolto ogni possibilità di utilizzare imprecisioni, limiti ed errori che in passato consentivano di insinuare ricostruzioni complottiste. La commissione Fioroni, convinta che le acquisizioni storiografiche, le testimonianze dei protagonisti e le ricostruzioni cui erano giunte le cinque precedenti inchieste giudiziarie sulla vicenda Moro fossero inesatte, fuorvianti o patteggiate, con l’enfasi supponente di chi avrebbe finalmente disvelato la verità a tutti nascosta, ha disposto nuove perizie che si avvalevano delle moderne tecniche forensi inesistenti quando vennero condotte le prime indagini. Da un presupposto errato è scaturito così un risultato virtuoso che oggi è a disposizione di tutti i ricercatori ma che ha scandalizzato Fioroni e gli altri commissari (meno uno), i quali totalmente spiazzati hanno cercato in tutti i modi di ridimensionarle. In fondo la commissione ha lavorato tre anni per cercare di smontare quello che involontariamente le risultanze scientifiche andavano accertando. Uno spettacolo surreale che tuttavia non è riuscito a cancellare la conferma che in via Fani le cose sono andate come hanno sempre raccontato i brigatisti: nessun attacco è stato mosso da destra, non c’erano superkiller professionisti, agenti segreti, motociclette coinvolte nell’operazione, nessuno ha sparato contro il parabrezza del teste Marini. Abbiamo anche la certezza genetica che sfata la leggenda di Moro tenuto o passato in via Gradoli e sappiamo che l’esecuzione del presidente Dc all’interno del box di via Montalcini è compatibile con il luogo, le risultanze balistiche, l’analisi splatter (le gocce di sangue) e audiometrica degli spari. Insomma è calato il sipario sulla dietrologia in via Fani.
6.Miguel Gotor, lo storico delle eresie membro della commissione, ha parlato nel suo ultimo libro di «Verità “concordate” tra poteri dello Stato e i militanti armati». Polemica che forse verrà rinfocolata dopo la pubblicazione di stralci del carteggio fra l’ex Presidente della repubblica Cossiga e alcuni esponenti delle Brigate rosse… ll «patto di omertà», come lo ha chiamato Flamigni, il «patto segreto» tra «complici» come hanno scritto altri competitor dell’arcigno custode della verità politica del Pci sul sequestro Moro è una costruzione finalizzata a esportare la parte di responsabilità politica che pesa sui partiti che sostennero la linea della fermezza. A quarant’anni di distanza invece di interrogare le ragioni che spinsero Dc e Pci a rifiutare la trattativa, sacrificando un uomo per non perdere lo Stato, come recitava il famoso editoriale di Scalfari apparso su «la Repubblica» del 21 ottobre 1978, si insinua l’esistenza di un accordo sotterraneo tra prigionieri delle Br e vertice democristiano suggellato dal cosiddetto memoriale Morucci-Faranda. Nulla ci dicono sulla dimensione psicologica e culturale che mosse i dirigenti dei due maggiori partiti, come riuscirono a dire che le lettere di Moro erano manipolate, circostanza smentita dall’ultimo lavoro scientifico curato da Michele Di Sivo. Resta ancora inspiegato il silenzio di Fanfani che venendo meno ad accordi presi non pronunciò il discorso di apertura promesso. Perché tacque? Fu bloccato? Questioni che si cerca di occultare inventando un patto attorno a un memoriale che raccoglie le deposizioni di Morucci e Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani prima indicati solo con dei numeri. Un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista. Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del memoriale vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono. Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali. Inesistenti i rapporti tra loro, segnati da rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della colonna romana) e ostilità per la scelte dissociative e collaborative. Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze? Un abisso logico senza risposta.
7.Richiami spesso la responsabilità del Pci nella costruzione delle tesi complottiste. È senza dubbio la forza politica che grazie al suo importante bacino culturale ha più di ogni altra contribuito a costruire e consolidare questa narrazione. Il 1984 è stato un anno di svolta per il Pci. La prematura scomparsa di Enrico Berlinguer precipita il partito in uno stallo politico. In crisi di strategia dopo il naufragio del compromesso storico, il Pci imprime una svolta anche sulla vicenda Moro. Con una mozione presentata il 9 maggio 1984 alla Camera e al Senato prende le distanze dalla relazione di maggioranza che aveva appoggiato l’anno precedente in chiusura dei lavori della prima commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro, e dal primo processo in corte d’assise che si era concluso nel 1983. La stampa del partito e i suoi intellettuali si mobilitano per produrre da quel momento una intensa letteratura che darà vita a categorie come quella di «doppio Stato», «Stato parallelo» anche sulla scia di un precedente lavoro sui «poteri invisibili» di Bobbio. Nasce la stagione del complottismo. Il nodo storico-politico che tormenta il Pci è dimostrare che la vita di Moro non venne sacrificata in nome della ragion di Stato, cioè di una linea di fermezza che avrebbe precluso ogni possibilità di trattativa con le Br. Il Pci tenta di tirarsi fuori dalla responsabilità di aver contribuito, sacrificando Moro, alla disfatta della propria strategia. Una consapevolezza che spinge i dirigenti di Botteghe oscure ad avviare la lunga stagione vittimista e recriminatoria della dietrologia: la neolingua del complotto. Un paradigma consolatorio che ha creato una vera malattia del pensiero.
8.Non ti sembra che in questa epoca di teoria debole c’è spesso confusione tra esercizio della critica e letture complottiste della realtà. L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile, è divenuto il nuovo modo di giustificare una sorta di contronarrazione che si pretende autonoma, libera e indipendente dai «poteri».È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni: uno schema cognitivo che riporta all’epoca dell’inquisizione, ai paradigmi interpretativi che i frati domenicani impiegavano individuando il disegno del maligno nei fenomeni incompresi o inaspettati che la società presentava. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade, i luoghi di lavoro, lì dove scorre la vita e si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, è il segno tragico di una malattia della conoscenza. Una sorta di incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali, siano essi grandi o piccoli, possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una via rivoluzionaria. La dietrologia, il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, pensare in piena autonomia. Il complottismo è un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione degli assetti di potere del capitalismo attuale. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.
* Su questi argomenti si vedano le pubblicazioni di DeriveApprodi: Sergio Bianchi e Raffaella Perna (a cura di), Le polaroid di Moro, 2012 Andrea Casazza, Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse, 2013 Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», 2017 Barbara Balzerani, Perché io perché non tu, 2009 Barbara Balzerani, Compagna luna, 2013 Salvatore Ricciardi, Maelstrom, 2011
C’erano una volta un onorevole, una giornalista ed un pentito… anzi no, c’era prima una commissione d’inchiesta parlamentare, non era le prima ma una riedizione, che indagava sul sequestro e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro… vabbé leggetevi questa storia
L’onorevole Da una parte c’è l’onorevole, uno che rivendica solide radici democristiane: suo padre Giuseppe era stato assessore comunale a Terlizzi, mentre lo zio, Giuseppe Colasanto, fu sindaco di Andria, assessore regionale ai trasporti e presidente della regione Puglia. Già vicepresidente del gruppo parlamentare del Pd, dopo aver abbandonato Renzi è entrato a far parte della Direzione in quota Emiliano. Pur di mantenere in vita la commissione Moro è stato tra i deputati piddini, insieme al presidente della commissione Moro Giuseppe Fioroni, che hanno votato l’emendamento che ha affossato la nuova legge elettorale. Pizzicati dal cartellone che per un disguido ha reso palese il voto segreto. Si dichiara ancora oggi un moroteo, verso la figura del leader democristiano professa una vera e propria venerazione, anche se in Commissione è stato maltrattato da Nicola Rana, che di Aldo Moro fu segretario particolare. In Puglia è un ras nella sua provincia d’origine, Barletta, Andria, Trani, ma vanta molti amici anche a Bari. Oltre ad un pedigree da tipico notabile meridionale, il nostro parlamentare vanta altre qualità: come recita la sua bio in Wikipedia, ha raggiunto traguardi importanti nel tennis da tavolo, campione provinciale di singolo e doppio nel 1973, da allenatore ha portato la squadra giovanile di ping-pong alle finali nazionali di Cecina. Anche per lui c’è stato un momento di frenesia giovanile, nel febbraio 1978 ha fondato con degli amici radio Terlizzi Stereo. Possessore di una tessera da giornalista è autore di un libro il cui titolo, Il ministro e la terrorista, se messo in relazione con la sua ossessione per il sequestro Moro, divenuto una delle ragioni della sua impresa politica, lascia emergere la singolare traccia di un inconscio irrisolto.
La giornalista Dall’altra troviamo la giornalista, molto vicina all’onorevole. Un passato negli ambienti del partito del primo secondino d’Italia, quell’Oliviero Diliberto che ripristinò i Gom durante la sua permanenza dietro la scrivania di Togliatti al ministero della Giustizia, poi avvicinatasi al mondo del professionisti dell’antimafia, oggi al libro paga del Pd alla Camera, scrive di trame, complotti, anelli, trattative e patti segreti (Complici. Caso Moro. Il patto segreto tra DC e Br) che racconta nei suoi libri di genere scandalistico.
Il pentito In mezzo c’è il pentito. Ex militante delle Br divenuto collaboratore di giustizia nonché dell’ex senatore Sergio Flamigni che non perde occasione di raschiare i fondi di barile ogni volta che se ne presenta l’occasione (anche Flamigni è autore di un volume dal titolo Patto di omertà, sui presunti silenzi e menzogne che le Br avrebbero concordato con lo Stato nella vicenda Moro).
La storia La storia è semplice, persino banale: il pentito si rivolge all’onorevole per il tramite della giornalista, che definisce «sua dipendente», per chiedere un favore: risolvere una situazione assai brutta in cui è venuto a trovarsi un suo conoscente in quel di Puglia. Conoscente che già in precedenza si era rivolto all’onorevole, senza esito. Alla fine l’onorevole interviene positivamente e il pentito ringrazia, mettendosi a disposizione.
Non ci saremmo occupati di questa vicenda se non fosse che l’onorevole e la giornalista sono strenui sostenitori della tesi del patto del silenzio, ovvero di uno scambio che sarebbe intercorso tra le Brigate rosse e lo Stato (o non meglio specificati settori di questo) per dare vita ad una verità di comodo sul sequestro e l’uccisione del presidente del consiglio nazionale della Dc, Aldo Moro, in cambio di non meglio specificati vantaggi (la mistificatoria teoria non è mai stata in grado di identificare il supposto momento della trattativa, il contenuto e tantomeno l’esito, per altro smentito dalle evidenze fattuali, processuali e penitenziarie: ergastoli a go go, anche per semplice responsabilità morale, carcere speciale e articolo 90, una sorta di 41 bis di massa per intenderci).
Ora è davvero singolare che lo scambio tanto deprecato si palesi sotto i nostri occhi in ben altra forma e sostanza: quella di un membro della commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro che viene meno alla neutralità che lo dovrebbe distinguere per il ruolo istituzionale che riveste rispetto ad un testimone, audito dalla commissione, intrecciando una relazione fatta di scambi e favori per il mezzo di una giornalista, anch’essa entrata in relazione con il teste a suo tempo intervistato per dare manforte alla tesi dietrologiche, che porta il testimone-collaboratore di giustizia a dichiararsi in debito e mettersi a disposizione dell’onorevole.
A voler proprio misurare le parole, questo traffico tra commissari cospirazionisti e testimoni della commissione, giornalisti che pendono per scrivere i loro pezzi complottisti e le loro agenzie dietrologiche dalle confidenze di alcuni suoi membri, non dovrebbe sollevare qualche seria domanda sulla natura della commissione stessa, il suo funzionamento e i suoi obiettivi?
Esclusiva – da pochi giorni è nelle librerie Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, aprile 2015. Un saggio da non perdere assolutamente se volete liberarvi il cervello da decenni di scorie complottiste. L’autore, Gianremo Armeni, ha trovato documenti ignorati per decenni da magistrati, membri delle commissioni d’inchiesta, complottisti d’ogni risma e colore, mettendo in luce come i dietrologi hanno impunemente arrangiato le loro ricostruzioni deformando la realtà. La storia torna a prendersi la sua grande rivincita. Ecco come andarono veramente le cose in via Fani
Paolo Persichetti Il Garantista, 23 aprile 2015
16 marzo 1978, via Fani. Le tre vetture del commando brigatista con Moro a bordo stanno risalendo via Stresa. La scena dell’assalto, ormai alle loro spalle, è avvolta da improvviso silenzio, una sorta di tempo sospeso dopo il crepitìo degli spari, il rombo dei motori e lo strepitìo delle gomme che partono in accelerazione.
Un minuto, forse due e sul posto arriva una volante con a bordo gli agenti Di Berardino e Sapuppo. Si mettono immediatamente in contatto via radio con la centrale operativa per fornire le prime informazioni. Mentre gran parte dei testimoni prendono coraggio e si avvicinano ai corpi riversi all’interno delle vetture colpite, uno di loro punta diretto verso i poliziotti. La sua è un’ansia di parola, è convinto di aver visto tutto, di sapere ogni cosa, lui deve dire, indirizzare subito le indagini. Quel che è accaduto si invera nel suo racconto, egli ne è il depositario. Inizia così il vangelo dei misteri del caso Moro, attraverso il verbo primigenio dell’ingegner Alessandro Marini che, contrariamente a quello che si è voluto lasciar credere fino ad oggi, non ha mai illuminato di verità la storia del rapimento Moro, a cominciare da quel che è realmente accaduto quella mattina: la corretta dinamica dell’assalto brigatista; la presunta funzione attiva svolta da una moto Honda durante le fasi del rapimento; i presunti colpi sparati da uno dei passeggeri contro il parabrezza del suo motorino.
Tutto sommato dettagli difronte alla vicenda politica del rapimento, alla portata storica dell’episodio, al rilievo internazionale che esso ha avuto. Nonostante ciò questi aspetti hanno assunto un rilevo centrale, sono divenuti l’architrave originario della dietrologia sul rapimento, oggetto di una sterminata pubblicistica complottista, di ripetute indagini giudiziarie e processi, dell’attività ultradecennale di ben due commissioni d’inchiesta parlamentare e della recente costituzione di una terza, ma soprattutto hanno reso senso comune la superstizione del complotto.
Trentasette anni dopo Gianremo Armeni, una laurea in sociologia, collaborazioni con Limes, un libro su Dalla Chiesa, un volume dedicato alle regole della lotta clandestina, Vademecum del brigatista, e un romanzo d’iniziazione sul nucleo storico delle Brigate rosse, fa piena luce sulla inattendibilità del super testimone con un saggio spietato appena uscito nelle librerie, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri, aprile 2015, 16 euro).
Quella di Armeni è innanzitutto una grande prova di metodologia storica. Alla stregua di quelli che considera i suoi maestri, Giovanni Sabbatucci, Marco Clementi e Vladimiro Satta (quest’ultimo autore della prefazione), per districarsi dal ginepraio di ricostruzioni cospirazioniste fondate nella migliore delle ipotesi su presupposti che fanno capo al metodo indiziario e deduttivo, dove il soccorso delle prove è carente o inesistente, le fonti trascurate, travisate, omesse o peggio manipolate, Armeni è andato alla ricerca dei fatti, alla sorpresa che riserva l’incontro sempre imprevedibile con le fonti. Cinque anni di lavoro, una ricerca imponente che non trova eguali sulla materia: oltre alle monografie sulla vicenda Moro, ha studiato l’intero complesso di carte processuali e istruttorie che hanno dato corpo ai cinque processi sul rapimento, documentazione conservata presso l’aula bunker di Rebibbia. Per ben tre volte ha riletto i 130 volumi della commissione Moro e scandagliato con maniacale attenzione l’intero filone “caso Moro” della commissione Stragi. Un lavoro mastodontico che non ha tradito le aspettative: cercando «l’ago nel pagliaio», come lui stesso scrive, ha scovato tre documenti fondamentali più altre circostanze che radono al suolo la tesi della funzione attiva della moto in via Fani, gli spari contro il parabrezza del motorino di Marini, mettendo in serio dubbio il corretto operato di alcuni giudici istruttori, sostituti procuratori, presidenti di corte d’assise e membri delle commissioni d’inchiesta che hanno avuto un ruolo nell’accreditare la storia della moto.
Ne fuoriesce un’autopsia implacabile di quella che è la genesi del discorso dietrologico: basta riandare ai minuti successivi dell’agguato quando l’ingegner Marini si avvicina ai poliziotti della volante per raccontare loro di aver visto una moto seguire la Fiat 132 che portava via Moro. Armeni ricostruisce nel dettaglio il percorso compiuto da quella prima e originaria informazione, subito registrata nei brogliacci della centrale operativa che dirama a tutte le volanti l’avviso di ricerca di quella misteriosa Honda, mai vista da nessuno degli altri testimoni che assistono lungo via Stresa alla fuga del commando brigatista. Il brogliaccio della centrale operativa e il successivo rapporto dei due agenti, che riprende le parole di Marini, finisce in una relazione di sintesi che il questore De Francesco invia in quelle prime ore alle massime autorità dello Stato. Nel testo si cita la presenza di una moto senza riferirne la fonte. Nel 2002, uno dei consulenti della commissione Stragi, Silvio Bonfigli, scova la relazione del questore e la pubblica in un libro scritto insieme a Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni. Prende forma così la leggenda della presenza, certificata da un’autonoma acquisizione della polizia, di una moto nell’azione di via Fani. Informazione – sostengono gli autori – di cui la magistratura non avrebbe tenuto conto aderendo invece alle smentite dei brigatisti. Falso anche questo perché alla fine del primo processo Moro, tra le condanne inflitte contro i componenti del commando che agirono quella mattina, ce ne fu una per complicità nel tentato omicidio dell’ingegner Marini assieme ai due presunti passeggeri della moto mai identificati. Ma che importa, il presupposto della dietrologia è ignorare le refutazioni alimentando una mondo di verità parallele, una controrealtà virtuale che mescola senza scrupoli credenze, suggestioni, incantesimi, malafede e menzogne, spesso a scopo di lucro.
Anche la verità giudiziaria non è da meno: da decenni sentiamo arguire che moto e spari contro Marini sono realtà storica poiché lo ha stabilito un giudicato processuale. Ma se il magistrato deve attenersi a questa regola, lo storico ha la felice libertà di ribaltare l’assunto rimettendo al centro l’indagine sui fatti realmente accaduti, lasciando sullo sfondo le chiacchiere di una sentenza che si è limitata a trascrivere, per altro in parte, una delle tante versioni di un testimone. Questa regola aurea della buona ricerca storica conduce Armeni a nuove sconcertanti scoperte, come la falsa storia della presunta inversione effettuata dolosamente dalla magistratura, quella relativa alla posizione occupata dai due centauri sulla moto, un aspetto questo che ha veicolato l’ennesima ipotesi di complotto; oppure i ripetuti cambi di versione forniti dal supertestimone nelle sue 11 deposizioni, che lo portano persino a cambiare il colore della moto e mettere in dubbio che qualcuno gli abbia sparato. Ritrattazioni mai attenzionate dalle roccaforti cospirazioniste. Anche qui il libro riserva la sorpresa di un documento eccezionale, sottolineato con inchiostro rosso presumibilmente dalle autorità giudiziarie dell’epoca.
Osservato da vicino Marini è un vero vaso di Pandora: il 16 marzo riferisce d’aver visto la moto ma solo il 5 aprile, 20 giorni dopo, racconterà degli spari contro di lui. Ecco perché – nota Armeni – la polizia scientifica non poté sequestrare il parabrezza del motorino, lasciato incustodito in via Fani la mattina del 16 marzo (come è possibile vedere in alcune foto pubblicate su questo blog), che ritraggono un ciclomotore con il parabrezza nastrato accanto al muretto, sul lato sinistro del marciapiede da dove era sbucato il commando brigatista). Nel settembre successivo, sentito dal giudice istruttore Imposimato, torna sull’episodio e fornisce una fantasiosa mappa dell’agguato. I membri del commando raddoppiano e stranamente manca il cancelletto inferiore. Non c’è la donna armata che pure altri testimoni indicano. In sede processuale ribadirà di non aver mai visto la donna che presidiava l’incrocio tra via Fani e via Stresa. Armeni non molla la presa, viviseziona le parole dell’oracolo Marini fino ad accorgersi di un dettaglio rimasto inosservato: secondo il supertestimone il passeggero della moto avrebbe impiegato il braccio sinistro per esplodere i colpi di pistola diretti contro di lui. Una singolare incoerenza che assomiglia tanto ad un lapsus rivelatore: Marini, infatti, si sarebbe dovuto trovare sul lato basso di via Fani, quindi a destra della moto al momento del suo passaggio. Anche qui Armeni mette in crisi la ricostruzione ufficiale ripescando una testimonianza, sempre ignorata, che solleva forti dubbi sulla posizione dichiarata dall’ingegnere sul motorino quella mattina, per offrirci alla fine una ulteriore chicca che chiude il cerchio sulla natura vertiginosa del personaggio. Il lettore capirà, allora, perché l’autore abbia scelto come titolo del suo saggio, Questi fantasmi, una delle più celebri commedie di Eduardo di Filippo, l’artista napoletano convocato sulla scena del rapimento Moro dallo stesso Marini.
Uno dei pezzi forti del libro è la documentazione, scovata in un particolare ufficio giudiziario, che ricostruisce la storia del parabrezza, fulcro dell’intera narrazione dietrologica. Si scopre che Marini, dopo averlo sostituito, ne aveva conservato solo due frammenti (circostanza assai singolare per un reperto di quella importanza), presi in consegna dalla Digos il 27 settembre 1978. Da quel giorno rimarrà chiuso nell’ufficio corpi di reato, dove lo spedisce il giudice istruttore Imposimato senza mai farlo periziare fino alla sua distruzione il 9 ottobre 1997. Non risponde al vero, dunque, la relazione del senatore Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, che il 23 febbraio 1994 inspiegabilmente scrive di una perizia e di un colpo d’arma da fuoco che avrebbe attinto il parabrezza. In realtà il reperto non era mai uscito dal deposito dei corpi di reato e la sua esistenza era del tutto ignorata dai periti, come lamenterà uno di essi difronte ai giudici. Soltanto il 31 marzo 1994 e il successivo 17 maggio la magistratura si accorgerà della sua esistenza. Il reperto viene prelevato per non più di 24 ore, quando il pm Marini (omonimo del supertestimone) lo sottoporrà in visione al suo ex proprietario, il quale riconoscendolo rivela con estremo candore che non furono dei colpi di pistola a danneggiarlo ma una caduta del ciclomotore dal cavalletto nei giorni precedenti il 16 marzo (vedi qui, il Garantista del 12 marzo 2015).
Quanto basta per concludere che la funzione attiva della Honda nel rapimento è un ectoplasma processuale, che la magistratura giudicante volle inizialmente accreditare per mettere nel cassetto due ergastoli supplementari, divenuta in seguito uno dei cavalli di battaglia delle teorie complottiste a scapito anche della stessa corporazione togata che non avrebbe certo immaginato un giorno di essere all’origine di tanti danni. Nonostante ciò il procuratore generale Antonio Marini si è recentemente opposto all’archiviazione dell’inchiesta, ed ha riconvocato tutti i membri del commando brigatista presenti in via Fani, convinto che la fantomatica moto sia ricomparsa nel 1983 per compiere il ferimento di Gino Giugni, rivendicato dalle Br-pcc.
Ha fatto bene, allora, Gianremo Armeni a portare il colpo conclusivo alla fine del suo saggio. Partendo da alcuni studi sulla memoria uditiva, più affidabile di quella visiva, e dalla constatazione che tutti i testi hanno assistito solo ad alcune sequenze dell’azione, mentre la percezione dei rumori è rimasta ininterrotta, ha ricostruito con un esperimento innovativo la colonna sonora dell’assalto in via Fani. L’esito della prova è di una efficacia sorprendente: riemerge la traccia coerente del «fragore degli spari» e del momento preciso in cui essi hanno avuto termine. L’esame non lascia più spazio alle interpretazioni, alle ipotesi, alle suggestioni: la storia si riappropria di ciò che le era stato sottratto. Finita l’azione cala il silenzio, i testimoni si affacciano, rialzano la testa, escono dai loro momentanei ripari, scopriamo allora che è venuto il tempo di separare la storia dalla farsa.
Postscritum: una volta provato che nel modulo operativo del commando brigatista non era presente alcuna moto, e che nessun’altra ha interferito nell’azione, la questione della Honda diventa superflua. Tuttavia, poiché l’indagine di Armeni non smentisce affatto il passaggio di una motocicletta quella mattina (ne circolano migliaia a Roma ogni giorno), resta legittima la curiosità del lettore sul momento esatto in cui essa si è affacciata sulla scena. Armeni con estremo rigore ricostruisce anche questo, correggendo alcune ricostruzioni circolate in passato. Gli elementi per scoprirlo c’erano già tutti, bastava rimontare i pezzi con un po’ di logica scevra da retropensieri, pregiudizi e strumentalizzazioni. Chi c’era sopra? Questo è stato già scritto (vedi qui). Ora leggete il libro, poi ne riparleremo.
Secondo Gero Grassi, attuale vice presidente del gruppo parlamentare Pd alla camera dei deputati, la persona raffigurata nella foto qui sotto, come si può leggere nella didascalia, sarebbe Germano Maccari e non Prospero Gallinari.
La chicca si trova nel dossier Moro che il deputato di Terlizzi, grigio esponente politico pugliese di scuola democristiana, ha raccolto (circa 400 pagine) selezionando materiale presente presso l’archivio storico del Senato dove è digitalizzata tutta la documentazione relativa alle due commissioni parlamentari che hanno indagato per diverse legislature, inizialmente sul rapimento del leader democristiano realizzato dalle Brigate rosse per poi allargare il loro raggio d’interesse sull’intero fenomeno della lotta armata e delle stragi in Italia.
Gallinari spacciato per Maccari
Germano Maccari
Raffaella Fanelli, autrice del falso scoop sul rapimento Moro apparso nel giugno scorso sulle pagine del settimanale Oggi, ha preannunciato in questi giorni un’azione di risarcimento nei confronti dell’avvocato Davide Steccanella. Secondo quanto asserisce la stessa giornalista freelance il settimanale della galassia Rcs l’avrebbe scaricata dopo l’uscita delle false rivelazioni. Nel pezzo oggetto del contenzioso, per altro scomparso dall’archivio di Oggi e assente dall’archivio web della stessa giornalista, la signora Fanelli riportava una conversazione avuta con uno dei membri del commando delle Br che il 16 marzo 1978 rapirono Moro in via Fani. Con un virgolettato d’apertura, attribuito all’intervistato, lasciava intendere che quella mattina ad attaccare il convoglio del presidente della Democrazia cristiana non ci fossero soltanto militanti delle Brigate rosse ma anche degli sconosciuti.
Le presunte rivelazioni erano state subito smentite dal diretto interessato, l’ex brigatista Raffaele Fiore, su questo blog (leggi qui) e in un articolo apparso sul Garantista.
Altre incongruenze e singolari circostanze contenute nell’intervista erano state segnalate in un articolo, apparso sul sito web Satisfiction (leggi qui), scritto dall’avvocato Davide Steccanella, appassionato osservatore delle vicende di quegli anni ed autore di una efficace cronologia della lotta armata, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Bietti editore 2013.
Le false rivelazioni della Fanelli
La smentita dell’ex Br Raffaele Fiore
La nuova commissione
Se la Fanelli è una giornalista che agisce in modo spregiudicato come tanti suoi colleghi (qualche esempio), Gero Grassi (per altro anche lui giornalista), oltre ad avere un importante incarico politico è il promotore del disegno di legge che ha portato all’istituzione di una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro. I giornali scrivono anche che potrebbe esserne il futuro presidente, sempre che Miguel Gotor sia d’accordo. Ciò, in via teorica, gli dovrebbe conferire una qualità ed una responsabilità ben diversa: detto in altri termini, dovrebbe sapere di cosa parla, capacità che tuttavia sembra mancargli del tutto.
Grassi ha fatto del sequestro Moro la ragione della sua impresa politica. E’ persino l’autore di un libro il cui titolo, Il Ministro e la terrorista, lascia emergere la presenza di un inconscio tormentato da una recondita fascinazione. Oltre al voluminoso dossier ed alla proposta di legge che ha portato sulla carta all’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta dalle dimensioni pletoriche (60 membri) e il budget striminzito, ancora ben lontana dall’essere insediata (leggi qui), ha avviato un lungo tour nel Paese (in programma ci sarebbero un centinaio di incontri) sul tema “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”, dove a quanto pare le domande hanno già tutte una risposta.
A sentirle, queste risposte suscitano grande imbarazzo. Emerge una dietrologia fantasmagorica fatta d’approssimazioni, confusione e ignoranza che per giunta considera fallaci o peggio reinventa precedenti acquisizioni della magistratura, delle passate commissioni e dei lavori di ricerca storica più seri (ce ne sono anche se troppo pochi).
Al cospetto la vecchia scuola dietrologica giganteggia di fronte a tanta asineria e la figura di Sergio Flamigni si staglia come una vetta insuperata dell’intossicazione storica.
Così accade di vedere riscritte sentenze e perizie (qui), «In via Fani – afferma Grassi – in base a quanto sostiene la magistratura, con sentenze definitive, c’erano persone non riconducibili alle Brigate rosse». Nell’attesa che un giorno arrivino gli estremi della citazione, sorvoliamo.
Come se non bastasse il presidente in pectore della futura commissione aggiunge: «Poi penso vada chiarita la morte di Moro che non è avvenuta per mano di Prospero Gallinari, come lui stesso ha raccontato prima di morire [sic!] e come il senatore Sergio Flamigni sostiene sin dagli anni novanta»… Per la cronaca, la vicenda è stata affrontata in un processo, il Moro quinques, e ripresa dalla commissione stragi presieduta da Pellegrino con diverse audizioni, tra cui quella di Maccari (leggi qui).
Ed ancora, per la disperazione dell’ex giudice Imposimato, «la prigione di Moro che non è unica, come dicono i brigatisti, perché i rilievi medico-scientifici sul corpo di Moro lo hanno accertato ed escluso».
Il Grassi-pensiero è un condensato delle superstizioni della rete, un wikisapere, una pentola dell’alchimista dove chi ha letto male e capito peggio può dire quel che crede. Vulgata di nuova generazione delle teorie del complotto elaborate all’epoca dei meetup e del newage politico di marca grillina dove il passato non si scava ma si prevede.
Cambiano i personaggi ma l’ordito che tesse il discorso del complotto resta lo stesso: acquisizioni parziali, ricostruzioni lacunose, errori, manipolazioni, invenzioni, sentito dire, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni. Dettagli travisati e aneddoti inventati diventano le pietre miliari del racconto, mentre si perdono i fatti sociali e i processi storici che agiscono sullo sfondo scompaiono. La dietrologia resta il modo migliore per non farsi domande.
E’ questa la miseria del complottismo attuale, abitato da una genia di millantatori, arruffoni, e politici di terza categoria. Messo ormai alla berlina dai suoi stessi esponenti, non più tollerato nemmeno dalla magistratura che a differenza del passato ha cominciato a considerare le sortite dietrologiche dei veri e propri depistaggi, indagando per calunnia gli improbabili personaggi che di volta in volta annunciano rivelazioni, come è accaduto per Giovanni Ladu, l’ex finanziere le cui presunte rivelazioni sulla mancata liberazione di Moro in via Montalcini avevano dato luogo ad un grottesco scoop editoriale attorno al libro dell’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato (qui), oppure a Vitantonio Raso, l’ex artificiere che raccontò del ritrovamento anticipato e poi tenuto nascosto del corpo di Moro in via Caetani (qui).
Anche se il sottomercato della dietrologia attuale riempie ancora gli scaffali delle librerie è ormai allo sbando.
Libri trash – Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica, Chiarelettere editore 2009
Marco Clementi L’Altro 18 luglio 2009
Il dibattito che si è sviluppato sul cosiddetto doppio stato, che sulle pagine di questo giornale ha ospitato già alcuni contributi, si è arricchito da poche settimane di un nuovo tassello grazie a un libro pubblicato dall’editore Chiarelettere, L’Anello della Repubblica, scritto da Stafania Limiti. Il volume sarebbe dedicato, almeno stando al titolo, a un servizio segreto “clandestino”, chiamato “Anello” o “Noto Servizio” che, creato ancora nel 1943 dal generale Roatta, avrebbe gestito alcuni casi della recente storia italiana (la fuga di Kappler, il caso Moro e il caso Cirillo). Nella postfazione di Paolo Cucchiarelli si legge che il servizio “alle informali dipendenze della Presidenza del Consiglio e impegnato a condizionare la vita interna dei partiti e quella del libero gioco democratico”, rappresenta “in pieno quell’organizzarsi nell’ombra per operare in parallelo rispetto alle strutture dello Stato” (p. 298). Purtroppo, nulla di tutto ciò si trova nel libro, e la stessa organizzazione clandestina, lungi dall’essere presente a tutto tondo, emerge raramente nella confusione generale della narrazione. Prima di spiegare quello che intendo, devo premettere che un servizio segreto è una cosa seria; si tratta di un’organizzazione strutturata e gerarchica, dove esistono precisi livelli di segretezza, con relativi accessi. Tanto per essere chiari, non basta appartenere al Kgb per poter conoscere tutti i segreti del Cremlino. Anzi, non esiste proprio un agente onnisciente (il più delle volte è vero esattamente il contrario, un agente sa solo ciò di cui si occupa direttamente) e soltanto in pochissimi hanno accesso ai livelli più alti di segretezza. Se questo è vero, nel servizio clandestino chiamato “Anello” tutto ciò sembrerebbe mancare, se mai il “noto servizio” sia esistito. Perché tutte le informazioni dirette che lo riguardano, nascita, nome, competenze, dipendenze, sono confuse e contraddittorie. Per quanto riguarda la nascita, infatti, esistono diverse versioni. Secondo la prima, il “noto servizio” sarebbe stato creato per volontà dell’ex capo del Servizio militare fascista, il generale Mario Roatta, alla fine del 1943. Destituito il quale, sarebbe stato preso in mano da un generale ebreo polacco, tale Otimsky, giunto in Italia sempre alla fine del 1943 al seguito della delegazione sovietica presso il governo di Badoglio. Roatta fu capo di Stato Maggiore italiano fino al 12 novembre 1943, quando venne destituito perché accusato di non aver difeso adeguatamente Roma. Arrestato nel 1944, riuscì a fuggire in Spagna, mentre in Italia il processo contro di lui si concludeva con la condanna all’ergastolo per l’assassinio dei fratelli Rosselli. L’oscuro generale Otimsky non poteva essere giunto in Italia con i sovietici alla fine del 1943, perché non esisteva alcuna delegazione sovietica presso il nostro governo a quella data, dato che le relazioni dirette tra il governo italiano e quello sovietico furono stabilite solo nel marzo del 1944. Tanto per non fare torto a nessuno, comunque, oltre che con i sovietici, Otimsky viene anche dato come giunto al seguito delle truppe del contingente polacco del generale Anders (p. 59), nonché di un tale Arazi, incaricato nel 1945 di “impiantare e dirigere la locale stazione del Mossad”, cosa definita “un’ipotesi molto seria” (p. 63). La seconda versione sulla genesi di Anello fa risalire la sua nascita agli anni Settanta per volontà di Andreotti (pp. 24/25) che a capo del governo voleva creare una struttura in grado di rimediare al caos dei servizi e fungere da anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo durante la riforma del 1977-78. Esiste, infine una terza versione, che pone la nascita del servizio “nel vuoto istituzionale e politico dell’immediato dopoguerra”, quando, è bene ricordarlo, anche il Pci era al governo (p. 419). Le tre versioni sono offerte al lettore senza ulteriori commenti, né ci si preoccupa di metterne in luce le contraddizioni. Sul nome la questione non migliora: “magari fin dalla nascita questo nome è stato ‘Anello’, oppure un altro che non è filtrato mai da testimonianze e documenti. Nel gergo delle spie ‘noto servizio’ è un termine utilizzato per riferirsi a una precisa ‘cosa’ e si presuppone che l’interlocutore la conosca o che, altrimenti, è bene non capisca”. (p. 24). Se data di nascita, paternità e nome non sono chiari, nessuna luce neanche sullo status del servizio. Esso è chiamato “struttura illegale” (p. 24), “gruppo parapolitico” (p. 124) e nel corso del libro genericamente “servizio segreto occulto”; dato che fin dall’inizio del racconto si chiarisce che era alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio, addirittura fino a Craxi, perché definirlo illegale o parapolitico? Per quanto riguarda le sue dotazioni, poi, siamo vicini al surrealismo: “Il ‘noto servizio’ – leggiamo a p. 101 – contava su parecchi mezzi: disponeva anche di un aereo e di un elicottero. Non risulta però che avesse una propria dotazione di armi: sarebbe stata un ‘ingombro’ e avrebbe accresciuto solo i rischi che qualche ficcanaso ne chiedesse conto. E poi, probabilmente, non c’è n’era quasi bisogno. In moltissime caserme c’erano […] i cosiddetti Magazzini Dit, destinati alla difesa interna del territorio: grandi quantità di materiale bellico, custodite in stanze ben chiuse nelle caserme dei Carabinieri sparse sul territorio. È molto probabile che lì si rifornissero anche gli agenti del ‘noto servizio’ ”. Ovviamente, un servizio segreto non può funzionare in questo modo macchinoso, ma comunque si tratta, come ci dice la chiosa del brano citato, di una mera ipotesi.
Ora, quale che ne fu la genesi, il nome, il padre, lo status e gli attributi, “Anello” sarebbe intervenuto in tre episodi importanti della storia recente italiana: la fuga del criminale nazista Herbert Kappler dal Celio di Roma, il rapimento di Aldo Moro e quello di Ciro Cirillo, entrambi operati dalla Br, anche se all’epoca del secondo ormai non esisteva più un’organizzazione unitaria e chi prese Cirillo e poi lo liberò per denaro (le future Br Partito Guerriglia di Senzani e dei capi storici ancora in carcere) fu aspramente criticato dalle vecchie Br morettiane. Ebbene, in tutti e tre i casi l’Anello, secondo quanto si afferma nel libro, non solo non agì in modo occulto, ma eseguì in modo assolutamente leale gli ordini che avrebbe ricevuto dalla presidenza del Consiglio. Nel primo caso l’ordine era proprio organizzare la fuga del criminale delle Fosse Ardeatine, nel secondo caso, dopo aver svolto egregiamente il proprio lavoro, ossia trovato la prigione di Moro, il capo dell’Anello sarebbe stato fermato da Andreotti, che avrebbe detto “Moro vivo non serve più a nessuno” (p. 196), mentre nel terzo avrebbe avviato e concluso le trattative con le Br attraverso il capo della camorra, Raffaele Cutolo, riuscendo a far rilasciare l’assessore democristiano Cirillo. Alla fine della lettura, lungi dal trovarci di fronte alla soluzione dei nostri problemi, si ha come l’impressione che il “noto servizio” non sia mai esistito e che quanti ne hanno rivendicato l’affiliazione siano stati, forse, dei millantatori. Un’altra ipotesi, è che gli scarsi documenti a disposizione degli studiosi siano stati creati illo tempore per un’operazione di depistaggio e per questo poi dimenticati nella “discarica dei servizi” di via Appia, a Roma, dove Aldo Giannuli li trovò più di dieci anni fa. Sarà stato davvero così? È un’ipotesi credibile? Mistero.