Sequestro Moro, nuovi testimoni per vecchie bugie – prima puntata

Foto Istituto Luce

C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.

Nuovi testimoni e vecchie bugie
E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo.
 Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.

Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.

Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.

Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena.
«La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».

La commissione d’inchiesta “privata” del giudice Salvini sul sequestro Moro

E’ stata diffusa ieri la relazione della commissione antimafia sul sequestro Moro. Consulente il giudice Guido Salvini. Un’orgia di dietrologia

E’ stata resa pubblica la relazione prodotta nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». A conclusione della legislatura la relazione non era ancora pronta, anche se alcune indiscrezioni erano filtrate verso giornalisti amici che ne avevano subito diffuso una velina il 6 maggio 2022 e le bozze preparatorie erano state sintetizzate nel settembre successivo (senza turbare minimamente la magistratura), sempre su The post internationale.

Una commissione omnibus
Presieduta dal 5stelle Nicola Morra, la commissione aveva suddiviso le sue attività d’inchiesta in 24 sezioni che si sono occupate degli argomenti più disparati, molti dei quali distanti anni luce dalle vicende mafiose o di criminalità organizzata: la morte del ciclista Marco Pantani, il massacro di due minori a Ponticelli nel 1983, l’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma, i delitti del mostro di Firenze, la morte di Pasolini. Fatti di cronaca nera in parte rimasti irrisolti. Sulle attività mafiose invece si è lavorato sulla strage di via dei Georgofili, le infiltrazioni negli enti locali, massoneria, usura, strage di Alcamo marina, presenza e cultura mafiosa nelle università e nell’informazione. Infine, ciliegina sulla torta, non poteva mancare – come si è visto – via Fani e il rapimento Moro. Insomma una commissione omnibus, aperta a tutte le vicende giudiziarie e non, una sorta di supplemento politico dell’attività investigativa delle forze di polizia e della magistratura. Non solo, ma con ampio utilizzo discrezionale, quasi personale, dello strumento d’inchiesta, che sembra essere sfuggito al mandato e al controllo parlamentare.

Una indagine doppione
Nel caso della relazione sui fatti di via Fani appare evidente l’entrata a gamba tesa sulle inchieste in corso condotte della Procura della repubblica e dalla Procura generale di Roma che hanno ereditato dalla precedente Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, alcuni filoni d’indagine sulla vicenda Moro. Un doppione d’indagine che sembra quasi voler imporre la “giusta linea politica” all’inchiesta condotta dalla magistratura capitolina. Non solo, emergono ulteriori criticità sulla competenza territoriale: basti pensare al coinvolgimento come consulente del magistrato Guido Salvini, già collaboratore della precedente commissione Moro 2. Insoddisfatto del lavoro svolto nella precedente commissione – senza successo è bene sottolineare – Salvini si è ritrovato tra le mani una commissione tutta per sé, dando sfogo alla propria irrisolta libidine complottista che tormenta la sua esistenza. Questo magistrato, che svolge le proprie funzioni giudiziarie come Gip al settimo piano del tribunale di Milano, in questo modo è riuscito a dotarsi di una competenza sull’intero territorio nazionale per svolgere indagini, interrogatori e altro, senza possedere le dovute conoscenze e competenze sulla materia, e si vede dal risultato dei lavori. Un vero aggiramento politico delle norme e delle procedure giustificato da una sorta di stato d’eccezione complottista perseguito con fanatica voracità.

Il supermercato dei testimomi
A suscitare imbarazzo sono anche i metodi di indagine e le risorse impiegate: per esempio il tentativo di pilotare il ricordo di alcuni testimoni, trascelti perché ritenuti più comodi: tra questi Cristina Damiani che crede di vedere sei persone armate sulla scena, oltre all’agente Iozzino sceso dall’Alfetta di scorta, o ancora il ripescaggio dell’eterno ingegner Marini, uno che è riuscito a raccontare più bugie di Saviano, ricordatevi la storia del parabrezza del suo motorino. O ancora Luca Moschini che parla di una motocicletta vista prima dell’agguato cavalcata da uno dei quattro brigatisti in divisa da stewart dell’Alitalia, in contrasto con le dichiarazioni di tutti gli altri testimoni e con la moto descritta ad azione conclusa da altri due testi, Marini e Intrevado. Insomma la regola è quella del supermercato: mi scelgo i testi che meglio aggradano la mia teoria e ignoro quelli che la smentiscono e così diventa più facile far spuntare la presenza di un quinto sparatore in abiti civili, fuggito a piedi e in direzione opposta agli altri, nonostante sulla scena manchino i bossoli della sua arma, che poi sono l’unico dato obiettivo, e la sua fuga con un’arma lunga in mano (una canna di almeno 30 cm) non sia stata intercettata da nessun altro testimone che era sullo stesso lato del marciapiede nella parte alta di via Fani. E come si sarebbe allontanato dal luogo questo individuo, se non era salito in nessuna delle tre macchine del commando brigatista? Attendendo un mezzo pubblico ad una fermata dell’autobus di via Trionfale con un mitra in mano mentre vetture della polizia confluivano sul posto e l’intero quartiere si riversava in strada? Infine ci sono i soliti Pecorelli, De Vuono, Nirta, i calabresi, l’anello, persino lo stragista fascista Vinciguerra, uno dei cocchi adorati del giudice Salvini che non esita a metterlo dappertutto come il prezzemolo. Una specie di festival canoro di vecchie glorie del complottismo. Mentre chi c’era, i brigatisti, sono sempre dei bugiardi buoni a prendersi solo raffiche di ergastoli.

Il club dei dietrologi digitali
Ancora più problematico appare il ricorso ad alcune «consulenze esterne» del tutto prive di valenza scientifica: amichetti del quartierino complottista, dietrologi digitali, giornaliste da velina, amici della domenica che si dilettano del caso Moro come fosse un gioco di società. Insomma un circo Barnum, roba da avanspettacolo, un vero specchio del livello infimo della politica e delle istituzioni parlamentari attuali.

Se non sei complottista sei ancora un brigatista
Scorrendo le pagine della relazione ho scoperto persino di esser citato, il che devo dire mi suscita solo vergogna. A pagina 37 si richiama il mio ultimo libro, La polizia della storia, La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (Deriveaprodi 2021). Nel testo mi si attribuisce l’appartenenza alle Brigate rosse che rapirono Moro, di cui parlerei come un conoscitore interno, «facendo mostra di un’adesione ancora attuale al pensiero brigatista». Il 16 marzo 1978 non avevo ancora compiuto 16 anni, ero un ginnasiale e mi trovavo nel mio liceo sgarrupato di via Bonaventura Cerretti, quartiere Aurelio di Roma. Era un magazzino di un palazzo sotto il livello stradale, buio, alcune aule piene di scritte del ’77 e dei bagni da dove uscivano i topi. Non c’era altro. Mancavano laboratori, aula magna, palestra. Non era una scuola ma un cesso di periferia. L’avevamo occupato e facevamo autogestione. Eravamo a due passi da Valle Aurelia e il convoglio che portava Moro verso la prigione di via Montalcini al Portuense transitò a due passi da lì, in via Baldo degli Ubaldi. Per parlare della mia esperienza in una delle ultime branche che si separò da quel che restava delle Brigate rosse, a loro volta figlie della scissione in tre tronconi dei primi anni 80, bisogna attendere ancora otto anni. Altri tempi, altre storie.

Il secondo furgone e le parole ignorate di Moretti
Gli estensori mi citano per la presenza il giorno del sequestro di un secondo furgone, un Fiat 238 di colore chiaro, tenuto di riserva e parcheggiato lungo la via di fuga nella zona di Valle Aurelia. Mezzo da impiegare per un eventuale secondo trasbordo dell’ostaggio ma poi inutilizzato e spostato da uno dei brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani. Di questa circostanza parlammo già nel libro uscito nel 2017, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera (Deriveapprodi). Ne La Polizia della storia ho solo aggiunto il nome di chi realizzò quello spostamento. Aggiungono gli autori della relazione che «la circostanza della suo mancato utilizzo proviene solo, e anche in forma impersonale, dal racconto dei brigatisti in contatto con Persichetti», ciò – proseguono ancora gli esponenti della commissione – «E’ esempio, come in altri casi, di una logica di verità a rate».
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che a rate c’è solo il cervello a fette dei dietrologi, perché del secondo mezzo aveva parlato Mario Moretti nel libro con Rossanda e Mosca nel lontano 1994, «Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina», (Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi 1994, p. 131).
Punto.

Il rapimento Moro e l’uso pubblico della storia

Una recensione a La polizia della storia di Anna Di Gianantonio apparsa su http://www.pulplibri.it – L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità (Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Derive Approdi, pp. 240)

Anna Di Gianantonio 15 luglio 2022
https://www.pulplibri.it/paolo-persichetti-la-dietrologia-sul-caso-moro-e-le-domande-a-cui-non-ce-risposta/

Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.

Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clementi e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.

Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere  all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.

La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.

Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.

La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.

Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.

Persichetti sostiene dunque che:

Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...

Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.

L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.

Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?

Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere  restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.

Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che  vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.

Sequestro Moro, dopo 44 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Quando la storia finisce all’asta. Non è il comunicato originale del sequestro Moro quello messo in vendita in questi giorni

Paolo Persichetti

Il volantino di rivendicazione del sequestro Moro messo all’incanto con base d’asta 600 euro e offerte che al momento sono già arrivate a quota 5 mila (11 mila ultimo aggiornamento), non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978 dalle Brigate rosse.
Come è noto, Bruno Seghetti, Adriana Faranda e Valerio Morucci, che si occuparono della diffusione dei primi comunicati e delle lettere scritte dal prigioniero, il giorno dopo il rapimento lasciarono in un plico nascosto dietro una macchinetta per le fototessere collocata nel sottopassaggio di piazza Argentina (oggi non più esistente) le prime 5 copie originali della rivendicazione del sequestro e la foto polaroid di Moro. Tuttavia il giornalista del Messaggero che era stato contattato per il recupero non riuscì a trovalro. Per questa ragione il primo comunicato brigatista arrivò con 48 ore di ritardo. Ricontattato nuovamente con istruzioni più dettagliate lo stesso cronista prese finalmente il plico il sabato successivo, 18 marzo. A quel punto i brigatisti diffusero altri 4 originali in piazzale Tiburtino non lontano dalla redazione di radio Onda Rossa situata in via dei Volsci e che venne allertata con una telefonata, in via Parigi sotto la sede del quotidiano Vita sera che aveva l’abitudine di pubblicare il testo integrale dei comunicati, in via Teulada dove si trovava la sede della Rai e in via Ripetta, nei pressi della sede dell’agenzia d’informanzione Adnkronos. A partire dal lunedì 20 marzo la colonna romana si mobilitò per una diffusione più larga del comunicato nel frattempo ritrascritto con un’altra macchina e ciclostilato: 96 copie vennero rinvenute in via Casilina. Il 21 marzo fu la volta delle periferie e delle scuole: 66 copie furono ritrovate nella zona di villa Gordiani (via Albona, via Pisino, via Rovigno d’Istria), 15 in via s. Igino Papa a Primavalle, 7 davanti al liceo Lucrezio Caro, 1 all’Armellini (dove evidentemente erano andate a ruba), 9 ancora a Primavalle, in via Boromeo davanti l’istituto professionale commerciale, e poi ancora centinaia di copie furono diffuse nei giorni e settimane a venire per tutta la città come si può leggere nel rapporto redatto dalla questura il 29 aprile 1978, quando la diffusione del primo comunicato lasciò il posto agli altri.

Netta è la differenza tra il testo originale scritto da Mario Moretti nella cucina di via Moltalcini, poco dopo l’arrivo con l’ostaggio nascosto in una cassa e il suo trasferimento nello stanzino prigione ricavato da una intercapedine costruita su una parete dell’appartamento. Intanto il carattere del testo in light italic, il passo differente, il numero delle righe, 81 nell’originale, anziché le 80 del testo ciclostilato diffuso nei giorni successivi dalla colonna romana e di cui una copia è ora all’asta. Altri dettagli mostrano la notevole differenza presente tra le due versioni, la presenza di una “I” maiuscola al posto del numero 1 per indicare la data del 16 marzo, mentre nell’originale in light italic, il numero è scritto correttamente.

Di seguito una copia della rivendicazione originale diffusa il 18 marzo 1978, Acs, Migs busta 2

La copia messa all’asta

Copia identica a quella messa in vendita presente in Acs, Migs busta 1

Quanto basta anche per trarre alcune considerazioni:

Non è la prima volta che della case d’asta mettono all’incanto dei volantini o materiale scritto dalle Brigate rosse. Già nel 2012 la Bolaffi ricavò 17 mila euro per 17 volantini acquistati da Marcello Dell’Utri per la sua biblioteca privata di via Senato a Milano. Si trattava di volantini noti, presenti in molteplici copie nella certe processuali e negli archivi di Stato. In Acs presso il fondo Russomanno si trova una intera collezione della pubblicistica brigatista che arriva fino al 1981. Molto più interessante era l’origine di quel piccolo archivio, i volantini infatti presentavano dei fori da catalogatore che lasciavano pensare ad una raccolta messa su da qualche apparato di monitoraggio dell’attività brigatista, forse di origine sindacale e di qualche forza politica che una volta dismessa la propria attività se ne era liberata.

La copia messa in vendita dalla Bertolani Fine Art non ha grande rilevanza storica, esistono negli archivi centinaia di copie del medesimo volantino. Si tratta di una classica operazione commerciale di materiali e oggetti divenuti cimeli del passato. Fortemente segnata da ipocrisia appare invece la polemica sollevata da questa vendita, non risulta che suscitino analogo scandalo i cimeli fascisti, i busti di Mussolini, la pubblicistica del ventennio in vendita nei mercati dell’antiquariato. Siamo nella società della merce, perché dovrebbe stupire se oggetti che datano quasi cinquant’anni si trasformano in materiale d’antiquariato per cultori e feticisti? Sorprende invece l’insipienza storica di quegli specialisti che hanno chiesto l’intervento del ministero della Cultura per l’acquisizione di copie di volantini che esistono già in grande quantità negli archivi statali.

L’unico aspetto interessante che – a nostro avviso – mette in luce questa vicenda è l’attualità che ancora riveste la storia degli anni 70, quella delle Brigate rosse e del sequestro Moro in particolare. Un’attenzione ancora tormentata: sembra che il mezzo secolo che ci separa da quelle vicende non sia mai trascorso. Siamo in presenza di una presentificazione permanente che annulla ogni tentativo di prospettiva storica. Emerge sistematicamente da parte delle istituzioni una postura di disapprovazione etica, la tabuizzazione di un’epoca condannata all’anatema perenne. Un tentativo di esorcismo che non riesce a cancellare l’interesse, la curiosità, la voglia di conoscere che non trovando però una corretta sintassi storiografica, sfocia nel feticismo.

La lettera del giudice Guido Salvini a Insorgenze, «non credo al complotto nel rapimento Moro, ma non tutto è chiaro»

Video

Il dottor Guido Salvini, attualmente Gip presso il tribunale di Milano mi ha inviato questa lettera. Autore quando era giudice istruttore della nuova inchiesta sulla strage di Piazza Fontana (Milano 1969), che ha finalmente individuato gli autori dell’attentato, e un’altra indagine sulla strage di piazza della Loggia (Brescia 1974). Esperto di quel complesso mondo di relazioni e intrecci tra destra, ordinovista e avanguardista, e apparati dello Stato, ha condotto inchieste anche sul fronte opposto: l’omicidio del militante di estrema destra Sergio Ramelli, 1975, da parte del servizio d’ordine di Avanguardia operaia e sui fatti di via De Amicis a Milano nel 1977, che portarono all’uccisone dell’agente Antonio Custra.  Il dottor Salvini contesta il giudizio negativo da noi espresso nel corso di una intervista (leggi qui) sulla sua attività di consulente della seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Pubblico il suo testo accompagnato da una mia replica ringraziando il giudice Salvini per l’attenzione mostrata

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Vi scrive Guido Salvini giudice del Tribunale di Milano. Ho letto la vostra intervista a Matteo Antonio Albanese autore del libro Tondini di ferro e bossoli di piombo. Ho trovato interessanti le riflessioni sui rapporti tormentati che vi furono tra il Pci e il mondo delle Brigate rosse ai suoi inizi e sull’intuizione da parte di queste ultime del fenomeno della globalizzazione. In una domanda posta dall’intervistatore mi sono però attribuite, anche in modo inutilmente sgarbato, opinioni sul sequestro Moro che non ho mai avuto e che non ho mai espresso e che al più possono essere proprie di qualche parlamentare componente della seconda Commissione Moro per la quale ho lavorato in completa autonomia come consulente. Infatti non ho mai pensato né scritto, come è facile verificare, che il sequestro Moro sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60- ‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose. Queste sono opinioni di altri che l’articolo non cita

Credo tuttavia che soprattutto negli ultimi giorni del sequestro vi siano state in entrambe le parti, lo Stato e le Brigate Rosse, incertezze e imbarazzi su come affrontare la possibile liberazione dell’ostaggio da un lato e come portare a termine l’operazione dall’altro e che questa situazione, in cui i due attori dovevano necessariamente compiere scelte di interesse e forse auspicate anche da realtà esterne al sequestro, abbia in entrambi provocato in alcuni passaggi un’amputazione della narrazione di quanto avvenuto. Mi riferisco, ad esempio, per quanto riguarda lo Stato, all’incertezza se fare di tutto perché Moro fosse recuperato vivo e alla contemporanea assillante ricerca dei memoriali dello statista giudicati pericolosi per gli equilibri dell’epoca. Per quanto concerne le Brigate Rosse mi riferisco alle non convincenti versioni in merito al luogo o ai luoghi ove l’ostaggio fu tenuto prigioniero e alle modalità con le quali, mentre erano ancora in corso contatti ed iniziative, ha trascorso le ultime ore e con le quali è stato ucciso. Su questi passaggi vi sono probabilmente ancora alcune verità e forse il ruolo di alcune persone da proteggere. Spero di essermi spiegato in queste poche righe e forse la lettura del libro potrà spingermi a tornare in modo più ampio sull’argomento sul mio sito guido.salvini.it

Vi ringrazio per l’attenzione.
cordialità
Guido Salvini

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Dott. Salvini,
Registro con favore il giudizio anticomplottista da lei espresso sul sequestro Moro, cito le sue parole: «il sequestro Moro non sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60-‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose».

La mia valutazione negativa del suo lavoro di consulente nella commissione Moro 2 era tuttavia fondata sull’analisi delle sue attività: escussioni di testimoni, indagini perlustrative, proposte di piste da indagare che manifestavano un consolidato pregiudizio dietrologico. Mi riferisco all’endorsement del libro di un personaggio imbarazzante come Paolo Cucchiarelli (20 giugno 2016, n. prot. 2060 e 682/1), nel quale si individuavano almeno 4 spunti di indagine da seguire, tra cui le dichiarazioni di un pentito della ‘ndrangheta Fonti, anche lui replicante di fake news, come la presenza di Moro nell’angusto monolocale di via Gradoli in una fase del sequestro (circostanza smentita dalle evidenze genetiche delle analisi sulla tracce di Dna, condotta dalla stessa commissione), oppure su un presunto ruolo di Giustino De Vuono in via Fani e nella esecuzione del presidente del consiglio nazionale della Dc. O ancora l’articolo fiction dello scrittore Pietro De Donato apparso nel novembre 1978 su Penthause, rivista glamour notoriamente specializzata sul tema. E ancora la richiesta di sentire, protocollo 519/1, il collaboratore di giustizia, sempre della ‘ndrangheta, Stefano Carmine Serpa che nulla mai aveva detto sulle Brigate rosse e il rapimento Moro, ma in una deposizione del 2010 aveva riferito dei rapporti tra il generale dei Cc Delfino e Antonio Nirta, altro affiliato alle cosche ‘ndranghestite. L’ulteriore sostegno ai testi (28 dic 2018, prot. 2497 – e 844/1) di Mario Josè Cerenghino, autore di libri in coppia con Giovanni Fasanella, la cui ossessione complottista non ha bisogno di presentazioni, o ancora di Rocco Turi, autore di una storia segreta del Pci, dai partigiani al caso Moro, sostenitore di una tesi dietrologica diametralmente opposta alla precedente, che intravede nelle Repubblica popolare cecoslovacca una funzione promotrice dell’attività delle Brigate rosse, fino fantasticare l’addestramento in campi dell’Europa orientale dei militanti Br. Potrei continuare, ma non serve.

Nella seconda parte della lettera, contradicendo quanto affermato all’inizio, solleva nuovi dubbi sugli ultimi momenti del sequestro. Convengo con lei che da parte dello Stato, ed in modo particolare delle due maggiori forze politiche protagoniste della linea della fermezza, Democrazia cristiana e Partito comunista, vi siano ancora moltissime cose da scoprire sulla decisione ostinata e sui comportamenti messi in campo per evitare, fino a sabotare, qualsiasi iniziativa di mediazione e negoziato in favore della liberazione dell’ostaggio. Mi riferisco, per esempio, all’impegno preso e non mantenuto dal senatore Fanfani di intervenire il 7 maggio 1978, con un messaggio di apertura all’interno di una dichiarazione pubblica. 
Ritengo che da parte brigatista i dubbi da lei espressi non trovino fondamento. Cosa c’è di poco chiaro e non trasparente nella telefonata del 30 aprile realizzata da Mario Moretti alla famiglia Moro? Consapevole della necessità di uscire dal vicolo cieco in cui si era infilata la vicenda, il responsabile dell’esecutivo brigatista tentò una mediazione finale che ridimensionava le precedenti rivendicazioni, la liberazione di uno o più prigionieri politici, e chiedeva un semplice segnale di apertura, che nella trattativa che sarebbe seguita dopo la sospensione della sentenza poteva vertere nel miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Perché questo aspetto continua ad essere evitato, sottovalutato e poco studiato, avvalorando contorte ipotesi di trattative parallele, somme di denaro o altro, rifiutate in principio dalle Br? Forse perché la responsabilità di chi si è sottratto a tutto ciò non è ancora politicamente sostenibile?
Ed ancora, sull’ipotesi dello spostamento dell’ostaggio, la invito a studiare tutti i sequestri, politici o a scopo di finanziamento, realizzati dalle Brigate rosse. Mi dica se c’è un solo caso dove l’ostaggio viene traslocato durante la prigionia? Approntare una base-prigione è cosa molto complessa e se non si comprende qual era il modo di approntare la logistica nelle Br si può cadere in facili giochi di fantasia.
Infine, tra i temi che la commissione ha rifiutato di affrontare c’è quello della tortura, verità indicibile di questo Paese. Un commissario aveva presentato un’articolata richiesta di approfondimento della vicenda di Enrico Triaca, il tipografo di via Pio Foà arrestato e torturato il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro, con una lista di testimoni da ascoltare, tra cui Nicola Ciocia, il funzionario dell’Ucigos soprannominato “dottor De Tormentis”, esperto in waterboarding. Sorprende che lei non se ne sia interessato sollecitando spunti d’inchiesta, audizioni o proponendo materiali e sentenze della magistratura presenti sulla questione? Dottor Salvini, ha perso davvero una grande occasione.
Cordialmente, Paolo Persichetti

Scalzone, «Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti»

Due date raccolte in un arco di 10 anni: 16 marzo 1968, 16 marzo 1978. In mezzo c’è tutto. Scalzone ritorna sui luoghi e racconta la mattinata di scontri sulla scalinata della facoltà di architettura a Roma, un topos del ’68. I fascisti che fallirono il tentativo di infiltrare il movimento, Almirante che rischiò il linciaggio, Pasolini che non aveva capito nulla di quella rivolta, Mussolini e la vera essenza del fascismo italiano, «la guerra alle organizzazioni operaie, dalle più riformiste alle più soversive, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni», il razzismo attuale. Dieci anni più tardi l’assemblea convocata sul piazzale della Minerva, alla Sapienza, subito dopo la notizia del sequestro di Aldo Moro: «Quel del giorno – spiega – vissi una lacerazione, mi sentivo estraneo alla “condanna” espressa dagli Autonomi e pensai di interferire con le Br prima che fossero sospinte all’epilogo atteso e come prescritto in una sentenza». Poi venne il complottismo, divenuto la grande tragedia culturale della sinistra. Resta la conoscenza, destino che ci distingue dalle altre specie e quel futuro che non esiste, divenuto «narrazione dei dominanti» al quale si deve contrapporre il presente, vissuto fino in fondo


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 23 marzo 2018

Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco ( lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria».
Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione
del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?
Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando po- tevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbiego una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno.

Cosa intendi?
Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?

Pasolini si sbagliava dunque?
Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare.

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita
Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte.

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
Mi vengono in mente ( oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabii nel combattimento e misericordiosi nella vittoria».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto
Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social-confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal-liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno.

L’antisemitismo era connaturato al regime?
No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto.

Prego
I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime.

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
Prendiamo il caso Traini, lo pisicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci piscopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne- mi- ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”.

Qual è il più grande nemico della sinistra?
È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula ( di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere.

Il destino degli esseri umani è la ribellione?
Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?
Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti.

 

16 marzo 1978, un gruppo di operai e precari rapisce Moro. Erano le Brigate rosse

A quarant’anni di distanza nell’immaginario riprodotto dalle narrazioni complottiste la mattina del 16 marzo 1978 via Fani appare un luogo spettrale presidiato dai servizi segreti, un segmento di città privo di vita urbana dove si aggirano misteriose presenze. Eppure la documentazione storica in nostro possesso ci dice che la realtà di quella mattina è molto diversa. Intorno alle nove, in quel piccolo quadrante residenziale di Roma transitavano numerosi passanti e in strada circolavano diversi veicoli, tanto che alle varie fasi dell’azione brigatista, avvicinamento, assalto e sganciamento, assistono da posizioni diverse più di trenta testimoni. Nella stragrande maggioranza confermano la ricostruzione fatta dai militanti delle Brigate rosse che vi parteciparono. Di seguito il racconto di quella mattina ripreso dal capitolo 6 del libro, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Derviveapprodi, marzo 2017


da
Campagnadiprimavera.wordpress.com

Br frontaleEra ancora l’alba quando a Roma, il 16 marzo del 1978, un gruppo di dieci brigatisti si immerse nel traffico per raggiungere il luogo dell’appuntamento. Si trattava di un contadino, un tecnico, un assistente di sostegno, un artigiano, uno studente, due disoccupati, un commerciante e due operai. Appartenevano alle Colonne di Roma, Milano, Torino ed erano intenzionati a compiere un’azione armata senza precedenti: il rapimento di Aldo Moro come massima esemplificazione dell’«attacco al cuore dello Stato». L’appuntamento era all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa. Il piano prevedeva l’annientamento della scorta di Moro composta da tre poliziotti e due carabinieri: gli agenti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e il caposcorta Francesco Zizzi, il maresciallo Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci (1).
Tutto era stato meticolosamente pianificato in mesi e mesi di preparazione. Quel commando di dieci militanti, di età compresa tra i 20 e i 32 anni, diede prova di una notevole determinazione nel condurre a termine un’operazione che segnò la storia del Paese, un’operazione il cui investimento economico, per paradosso, non superò le 700.000 lire, appena l’equivalente di tre salari di allora di un operaio metalmeccanico (2).

La pianificazione
Una brigatista posizionata nella parte alta di via Fani avrebbe dovuto segnalare l’arrivo del convoglio di Moro alzando un mazzo di fiori per poi allontanarsi dal luogo. Di conseguenza un altro brigatista, fermo con la sua auto poco dopo l’incrocio con via San Gemini si sarebbe immediatamente mosso con la sua auto per posizionarsi davanti all’automobile che trasportava Moro e a quella della scorta che seguiva. Allo stop con via Stresa si sarebbe normalmente fermato. In quel momento altri quattro brigatisti divisi in due sottonuclei sarebbero entrati in azione sparando di sorpresa per eliminare gli agenti che proteggevano Moro. Mentre una brigatista tra via Stresa e via Fani doveva bloccare l’accesso al luogo dell’assalto (il «cancelletto inferiore»), un altro brigatista doveva entrare a marcia indietro da via Stresa in via Fani per caricare l’ostaggio. Gli ultimi due dovevano chiudere via Fani nella parte alta, operando il cosiddetto «cancelletto superiore», per tenere lontano dall’azione chiunque fosse sopraggiunto. I sottonuclei del gruppo di fuoco avevano compiti prestabiliti: il primo doveva colpirei carabinieri che accompagnavano Moro, il maresciallo Leonardi, ritenuto pericoloso per la sua esperienza, e l’autista, l’appuntato Ricci. Il secondo sottonucleo doveva attaccare la scorta della Pubblica sicurezza che occupava la seconda auto (Zizzi, Iozzino e Rivera). Contemporaneamente, il conducente della macchina ferma allo stop sarebbe sceso per rinforzare il «cancelletto inferiore». Alla fine della sparatoria i brigatisti avrebbero prelevato Moro e lasciato immediatamente la zona su tre auto dirette in una stessa direzione. La macchina ferma allo stop sarebbe stata abbandonata all’incrocio della sparatoria assieme a una quinta vettura dell’organizzazione, che serviva come riserva, parcheggiata poco più avanti su via Stresa.

Il primo progetto
In un primo momento le Brigate rosse avevano pensato di prelevare Moro all’interno della chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giochi Delfici. Il piano, «al quale era molto affezionato Morucci» (3), venne scartato perché il rischio di innescare un conflitto a fuoco in una zona che vedeva la presenza di una scuola elementare venne considerato troppo alto. La scorta infatti mostrava di essere molto vigile e reattiva quando Moro era fuori dalla sua macchina. Durante l’inchiesta una delle militanti dell’organizzazione che poi partecipò all’azione di via Fani si era introdotta nella luogo di culto fingendo di essere una devota recatasi a pregare. Inginocchiata a pochi passi dal Presidente del Consiglio nazionale della Dc aveva potuto osservare il comportamento degli agenti che proteggevano Moro. Abbandonati i banchi di preghiera per guadagnare l’uscita si era accorta che il poliziotto posizionato all’entrata della chiesa aveva subito portato la mano alla pistola. Agendo in quel luogo difficilmente i brigatisti avrebbero potuto avvalersi dell’effetto sorpresa.
Anche se misero da parte il piano iniziale, come vedremo più avanti i brigatisti preservarono lo stesso criterio che aveva ispirato la loro prima ipotesi di via di fuga: la scelta di un itinerario fuori dalle vie principali, su strade utilizzate solo dal traffico locale o addirittura private. Lo sganciamento sarebbe dovuto avvenire percorrendo via Riccardo Zandonai, una via chiusa da un condominio con due cancelli e una zona interna carrabile, che avrebbe permesso alle auto del commando di scomparire dalla vista, arrivando dopo il secondo cancello fino all’imbocco con via della Camilluccia, «a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese e via dei Colli della Farnesina», e da qui arrivare successivamente in via Trionfale, percorrendo un itinerario opposto a quello, ritenuto prevedibile, di eventuali inseguitori (4).

Via Fani, una vecchia conoscenza (il progetto di attentato a Pino Rauti)
Il punto stradale successivamente scelto per l’azione, l’incrocio tra via Fani e via Stresa, era conosciuto da due militanti della Colonna romana presenti la mattina del 16 marzo 1978 che avevano avuto modo di studiarlo poco meno di quattro anni prima in occasione di una inchiesta condotta contro Pino Rauti, figura di spicco della destra neofascista della capitale. Nel giugno del 1974 un gruppo di militanti provenienti da Potere operaio romano e che avviava i primi passi verso la lotta armata, meditava di compiere un attentato contro Rauti. L’azione era stata concepita come rappresaglia perla strage compiuta il 28 maggio precedente in piazza della Loggia a Brescia, nel corso di una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal locale Comitato antifascista, che costò la vita ad 8 persone e ne ferì 102 (5). L’esponente missino abitava in via Stresa, a ridosso dell’incrocio con via Fani, tanto che il 16 marzo 1978 fu tra i primi a telefonare al centralino della questura per dare l’allarme: alle 9.15 dichiarò di aver sentito alcune raffiche di mitra e visto due uomini in divisa da ufficiali dell’aeronautica e una Fiat 132 blu allontanarsi dal luogo dell’agguato (6). Osservando i movimenti di Rauti, il gruppo aveva notato che quando lasciava la propria abitazione percorreva via Stresa nel breve tratto che si immette su via della Camilluccia, dove a causa di uno stop la sua automobile era costretta a sostare. Di fronte allo stop, sul lato opposto della via, era fissato un grosso cartellone pubblicitario dietro al quale uno del gruppo si sarebbe appostato con un fucile di precisione Sig Sauer. L’attacco, preparato nei minimi dettagli, era giunto fino alla fase operativa ma il giorno previsto, arrivato sul luogo di raduno nel quartiere Prati, il responsabile militare del commando informò gli altri componenti che l’azione era stata annullata. Non sappiamo quanto l’inchiesta del 1974 abbia significato nell’economia del piano per rapire Moro, ma è un fatto che gli esponenti della Colonna romana erano già pratici della zona.

La preparazione

Schizzo Moretti

Schizzo di Mario Moretti

Nel pomeriggio del 15 marzo 1978 vennero disposte lungo la via di fuga prescelta le vetture necessarie per effettuare il cambio macchine, più i due furgoni previsti per i trasbordi del rapito. Il furgoncino 850 Fiat color beige con doppio portellone laterale (per fare fronte a ogni evenienza e caricare il rapito da ambo i lati), pensato per il primo trasbordo da effettuare in piazza Madonna del Cenacolo, fu rubato da Bruno Seghetti in piazza dell’Orologio (Morucci nel suo “Memoriale” commette un errore di memoria e parla di piazza San Cosimato, luogo dove invece fu lasciato dopo l’azione). Tale furgone venne parcheggiato in via Bitossi, angolo via Bernardini, strada che taglia trasversalmente via dei Massimi. Si tratta di un quadrante tuttora estremamente appartato e tranquillo con circolazione prevalentemente locale. La Citroën Dyane azzurra che doveva aprire la strada al furgoncino Fiat 850 con a bordo Moro fu parcheggiata sul lato sinistro di via dei Massimi, dopo l’incrocio con via Bitossi. Il furgone previsto per il secondo trasbordo, probabilmente un Fiat 238 di colore chiaro, fu parcheggiato nella seconda parte della via di fuga, in zona Valle Aurelia, in uno slargo tra le vie Moricca, via Gaudino e via Vitelli. Anche le due Fiat 128 (una bianca ed una blu) furono lasciate in via Fani nel pomeriggio precedente l’azione, ciò perché si sarebbe corso il rischio di non poterle mettere nella giusta posizione la mattina successiva (7). La sera del 15 marzo furono distribuiti i giubbotti antiproiettile, i soprabiti da pilota, le mostrine, i berretti e le armi (8). Seghetti e Fiore si recarono sotto l’abitazione del fioraio Antonio Spiriticchio, in via Brunetti 42, per squarciare le gomme del suo furgone Ford Transit e impedirgli così di essere presente in via Fani, nei pressi dell’angolo con via Stresa al momento dell’azione. La Braghetti, in attesa nella base di via Montalcini che sarebbe diventata la prigione di Moro, ha scritto che non le era stato comunicato alcun piano di riserva:

«[…] sapevo solo che dovevo restare a casa, e tenermi pronta. Però avevo intuito che, nel caso di un esito parzialmente disastroso per noi, qualcuno, Valerio Morucci o Bruno Seghetti, avrebbe caricato Moro su una macchina e l’avrebbe portato in un altro appartamento dell’organizzazione, meno sicuro del nostro ma comunque “coperto” abbastanza per reggere un giorno e una notte. La mattina dopo avrebbero recuperato me in ufficio, dove mi era stato detto di tornare in qualunque circostanza, e Moro sarebbe infine arrivato dove ora si trovava .Una volta nascosto Moro, un compagno dell’esecutivo brigatista sarebbe arrivato a riempire i posti rimasti vacanti» (9).

La base di riserva
In effetti, un piano del genere esisteva. La base era quella di via Chiabrera 74 (soprannominato “l’Ufficio”), l’appartamento dove durante il sequestro si tennero tutte le riunioni di Colonna (10).

L’avvicinamento
I brigatisti giunsero in via Fani per strade diverse. L’Autobianchi A112 con cui Morucci e Bonisoli si recarono sul posto fu presa dopo un cambio macchina nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria, dove erano giunti partendo dalla base di via Chiabrera a bordo di una 127 (11). La A112, lasciata senza persone a bordo, serviva come mezzo di riserva nel caso fosse sorto un problema con le altre autovetture previste per lo sganciamento. La Fiat 128 Giardinetta bianca con targa diplomatica fu portata da Moretti e Balzerani intorno alle 7.00 (12). Usciti dalla base di via Gradoli passarono davanti all’abitazione di Moro per accertarsi che la scorta fosse sul posto, quindi l’auto venne parcheggiata con Moretti alla guida «sulla destra di via Fani subito dopo via Sangemini, venendo da via Trionfale e con il muso dell’auto in direzione dell’incrocio con via Stresa» (13). Da quel punto di osservazione l’ingresso in via Fani è visibile perché dopo via Sangemini la strada va in discesa. Sulla Fiat 132 blu che avrebbe portato via Moro giunsero Seghetti e Fiore provenienti dalla base di Borgo Pio. L’auto era stata rubata nei giorni precedenti tra via Cola di Rienzo e via Crescenzio. Fiore scese prima e Seghetti posizionò la 132 in via Stresa sull’angolo sinistro, a qualche metro dall’incrocio di via Fani, di fronte al bar Olivetti, con la posizione di guida rivolta verso l’alto di via Stresa, pronto a portarsi con una manovra di retromarcia accanto alla Fiat 130 di Moro. Dopo le prime raffiche riuscì a vedere Morucci intento a disinceppare il mitra e l’autista della Fiat 130 che tentava con ripetute manovre di trovare un varco, quindi scorse la raffica mortale (14). La Fiat 128 bianca con Casimirri al volante e Loiacono al suo fianco era posizionata sul lato destro di via Fani, poco più avanti della Fiat 128 targata Corpo diplomatico, con la direzione di guida rivolta verso il basso della via in modo da poter attivare la posizione di «cancelletto superiore» al momento dell’attacco (15). I due erano irregolari e arrivarono separatamente sul luogo con i mezzi pubblici. La Fiat 128 blu si trovava sul lato destro di via Fani, nella parte bassa, in prossimità dello stop «superato l’incrocio con via Stresa e in direzione contraria, con il muso dell’auto rivolto verso la direzione di provenienza delle auto di Moro» (16). Al suo interno c’era la Balzerani, pronta a uscire appena scattata l’azione per attivare il «cancelletto inferiore». Anche Gallinari arrivò sul posto con i mezzi pubblici. Da rilevare che per l’attacco e il primo allontanamento furono impiegate solo autovetture italiane di marca Fiat, più una eventuale di scorta modello Autobianchi. Dal momento del trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo le vetture impiegate nel proseguimento dell’operazione, fatta eccezione per i furgoni che non erano in via Fani, sarebbero state solo modelli francesi: una Citroën Dyane e una Ami 8. La cosa fu pensata per depistare possibili segnalazioni di testimoni.

L’attacco
Via Fani, poco dopo le 9.00. «Marzia» (nome di battaglia di Rita Algranati) vide giungere le due macchine con Moro e la scorta (una Fiat 130 e un’Alfa Romeo). Segnalò ai suoi compagni l’arrivo dell’obiettivo con il gesto convenuto – il movimento di un mazzo di fiori – e lasciò la sua postazione su una Vespa 50. «Maurizio» (Mario Moretti) si immise come previsto con la sua auto (una Fiat 128 Giardinetta con targa Corpo diplomatico) nella careggiata, ponendosi alla testa del convoglio di Moro nel frattempo sopraggiunto. Scendendo lungo via Fani si trovò davanti una Fiat 500 che procedeva lentamente. Prima che le macchine del convoglio, abituate a viaggiare a velocità sostenuta, decidessero di superare entrambi, «Maurizio» effettuò la manovra di sorpasso e lo stesso fecero le due auto di Stato. Quel gesto forse facilitò la riuscita dell’azione: la naturalezza di quel sorpasso ingannò la scorta, fugando il sospetto sulla vera funzione che la Giardinetta avrebbe svolto qualche attimo dopo. L’effetto sorpresa fu determinante (17). Giunto allo stop «Maurizio» si fermò, così come fecero la Fiat 130 e l’Alfa Romeo. Immediatamente i quattro brigatisti in attesa, «Matteo» (Valerio Morucci), «Marcello» (Raffaele Fiore), «Giuseppe» (Prospero Gallinari) e «Luigi» (Franco Bonisoli) aprirono il fuoco, mentre la brigatista addetta al «cancelletto inferiore», «Sara» (Barbara Balzerani) fermava con il mitra una Fiat 500 appena sopraggiunta dalla parte bassa di via Fani guidata, lo si seppe poi, dal poliziotto Giovanni Intrevado, in quel momento fuori servizio. Contemporaneamente, sulla parte alta della via veniva formato il «cancelletto superiore»: «Camillo» (Alessio Casimirri) e «Otello» (Alvaro Loiacono) – che si era calato un sottocasco del tipo «mephisto» sul volto perché in passato era stato arrestato e il suo viso era fotosegnalato – bloccavano con una Fiat 128 ogni accesso armati di un fucile M1 Winchester. I primi spari colpirono l’autista dell’Alfetta che fece un balzo in avanti andando a tamponare la 130. L’appuntato Ricci, alla guida della 130, cominciò a suonare all’auto di «Maurizio» ferma davanti alla sua affinché ripartisse. Nel frattempo il mitra che doveva sparare a Ricci si inceppò (18), così come si inceppò anche l’altro che pochi istanti prima aveva ucciso il maresciallo Leonardi. Ricci ebbe il tempo di tentare una disperata manovra per portare in sicurezza la macchina, cercando di passare alla destra della 128. Per ostacolare quel tentativo «Maurizio», invece di scendere dall’auto come previsto per rafforzare il «cancelletto inferiore», rimase sull’auto premendo il piede sul freno e impedendo così alla 130 di forzare la morsa nella quale era finita. Poi anche Ricci venne raggiunto da alcuni colpi. Nel frattempo si inceppò anche un terzo mitra che stava sparando contro l’Alfetta e ciò permise a un componente della scorta, l’agente Iozzino, probabilmente già ferito, di scendere e tentare una reazione. Sparò verso un brigatista, ma venne ripetutamente colpito e cadde (19). Quando gli spari cessarono, «Maurizio» scese dalla 128 e prelevò Moro insieme a Matteo dalla 130 (secondo il piano doveva essere solo «Matteo» a farlo) trasferendolo poi nell’auto giunta in retromarcia da via Stresa guidata da «Claudio» (Bruno Seghetti) (20).

Da quel momento cominciò la seconda fase dell’operazione, la fuga, la cui pianificazione era stata affidata alla Colonna romana che aveva elaborato un itinerario fuori dagli assi di circolazione principali, su strade poco trafficate, viottoli, vie private.

1/continua

Note

1 Il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera morirono in via Fani. Il capo scorta Francesco Zizzi fu ricoverato in ospedale gravemente ferito, ma spirò alle 12.35 al Policlinico Gemelli. Si veda il referto medico in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 327, f.to Giuliano Pelosi. Mario Moretti, Bruno Seghetti e Barbara Balzerani hanno ricostruito con gli autori del libro i momenti del sequestro nel corso di una serie di conversazioni tra il 2010 e il 2016.

2 Valerio Morucci, Memoriale Morucci, ACS, MIGS, busta 20, p. 34: «Il costo dell’azione di via Fani, escluso il costo dell’appartamento di via Montalcini, già in dotazione delle Brigate rosse, può farsi ammontare a circa700.000 lire. Esso risulta in parte dal biglietto, ritrovato in via Gradoli intestato a Fritz. In quel biglietto sono riportate le spese effettuate per le sirene, le tronchesi, le borse, gli impermeabili, i berretti e il resto necessari all’azione». Fritz era il nome convenzionale per indicare Moro tra coloro che si occuparono del sequestro.

3 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.

4 Ecco il racconto dettagliato del piano fatto da Valerio Morucci, Memoriale, op. cit., p. 22: «La macchina con Moro e quella di appoggio avrebbe dovuto percorrere via Zandonai che è una strada senza uscita (o meglio che ha un fondo cieco dopo una o due traverse laterali). In fondo a via Zandonai c’è un complesso residenziale con una porta metallica a scorrimento elettrico che consentiva il passaggio all’interno del complesso e lo sbocco successivo in via della Camilluccia, a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese evia dei Colli della Farnesina. Per l’accesso al residence era stata fatta una chiave falsa, ricavata da una chiave di lucchetto del telefono. La chiave serviva ad aprire la porta automatica del residence. Una volta superato, con le due auto, l’ingresso del residence dalla parte di via Zandonai, il cancello si sarebbe richiuso automaticamente impedendo il passaggio degli inseguitori, e si sarebbe arrivati (una volta usciti dall’altro cancello del residence), percorrendo via della Camilluccia, in via Trionfale; in una direzione opposta a quella prevedibile (da parte di eventuali inseguitori, e che sarebbe dovuta logicamente essere) via Zandonai, via del Nuoto, via Nemea, proseguendo fino a ponte Milvio».

5 Colloquio con Bruno Seghetti, 3 maggio 2016. Si tratta di quell’area politica che nei mesi successivi avrebbe dato vita a sigle come Fca (Formazioni comuniste armate) e Lapp (Lotta armata per il potere proletario) che operavano all’ombra del Comitato comunista centocelle (Cococe).

6 In una interrogazione parlamentare, la n. 3-02549, depositata il 17 marzo 1978 presso la Camera dei deputati, Pino Rauti riferiva di essere stato testimone oculare dopo la sparatoria della ««fuga» di un’auto ad altissima velocità lungo via Stresa, auto sulla quale poi – come subito dopo si è appreso – era stato «caricato» l’onorevole Moro», per poi lamentare la difficoltà riscontrata nel riuscire a mettersi in contatto con il 113 e la sala operativa della questura, intasate dalle numerose chiamate che pervenivano in quel momento.

7 Sulla Fiat 128 blu Valerio Morucci fornisce una versione diversa, come si può leggere più avanti, V. Morucci, Memoriale, cit., p. 27.

8 Ivi, p. 28, «Ogni componente del nucleo arrivò in via Fani munito dell’arma da fuoco personale e del mitra. Ai due irregolari partecipanti all’azione le armi furono consegnate la mattina stessa del 16 marzo (da Seghetti)». Versione confermata anche dagli altri componenti dell’azione.

9 Anna Laura Braghetti con Paola Tavella in, Il prigioniero, Feltrinelli 2003 (prima edizione Mondadori1998), pp. 8-9.

10 Colloquio di Bruno Seghetti con gli autori.

11 Si veda in particolare la ricostruzione di Valerio Morucci: «Ci siamo spostati con la 127 bianca, che era inmia dotazione, con targa e documenti duplicati da un’auto appartenente ai servizi commerciali della Sip. I primi numeri di targa erano R2… Con questa auto arrivammo nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria. Qui lasciata la 127, prendemmo la A 112 con la quale ci recammo direttamente in via Stresa»; V. Morucci, op. cit., p. 27.

12 Valerio Morucci riferisce una versione contrastante corretta da Balzerani: «Il n. 1 (Moretti) arrivò in via Fani con la Fiat 128 blu assieme a Barbara Balzerani e risalì a piedi, senza fare alcun cenno e senza dare a vedere di conoscere gli altri, tutta via Fani controllando che tutti i componenti del nucleo fossero presenti»; Valerio Morucci, Memoriale, p. 27.

13 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.

14 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori.

15 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori. Una ricostruzione analoga viene fatta da Valerio Morucci, Memoriale, p. 29.

16 Le commissioni parlamentari d’inchiesta, compresa l’ultima, per spiegare il successo dell’attacco brigatista hanno a nostro giudizio sopravvalutato l’effetto del volume di fuoco proveniente da uno dei quattro mitra, l’ultimo in alto, nonostante l’imprecisione dei colpi da esso sparati. La circostanza, è stato ipotizzato, dimostrerebbe la presenza nel commando di un tiratore professionista, un «superkiller», la cui identità di volta in volta è stata attribuita ai Servizi, alla criminalità organizzata o alla Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca. Il fatto che nella fase conclusiva dell’attacco, quando i primi tre brigatisti avevano cessato il fuoco, il quarto componente del sottonucleo superiore abbia aggirato il retro dell’Alfetta, portandosi sulla parte destra di via Fani, dove ha continuato a esplodere colpi con la sua pistola, ha fatto ipotizzare anche la presenza di un quinto sparatore addirittura «addestrato al tiro incrociato». Al contrario, elementi quali l’effetto sorpresa, il camuffamento della Fiat 128 Giardinetta con targa diplomatica che ha bloccato lo stop, la mimetizzazione dei quattro uomini del nucleo di fuoco sono stati sottovalutati.

17 R. Fiore, L’ultimo brigatista, con A. Grandi, Rizzoli, Milano 2007, p. 121.

18 Una chiazza di sangue venne rinvenuta sul sedile occupato dall’agente.

19 Conversazione degli autori con Mario Moretti tra il 2010 e il 2014. Un disegno dell’azione di via Fani realizzato da Moretti è agli atti della seconda Commissione di inchiesta sul Caso Moro; risale al 2006. Altri tre militanti ebbero un ruolo fondamentale nel sequestro: «Alexandra», (Adriana Faranda), che oltre alle fasi preparatorie, all’«inchiesta» e al logistico, fu insieme a Morucci la «postina» che recapitò i Comunicati dell’organizzazione e le lettere di Moro; «Camilla» (Anna Laura Braghetti), intestataria dell’appartamento di via Montalcini 8 nel quale venne imprigionato Moro nei 55 giorni del sequestro e «Gulliver» (Germano Maccari), il «quarto uomo» che prese parte alla logistica del sequestro, presidiò l’appartamento durante i 55 giorni interpretando il ruolo di marito della Braghetti, e prese parte alla esecuzione del presidente Dc nel garage dell’abitazione.

20 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori.

Il sequestro Moro, i fasti del quarantennale e i mostri della lingua italiana

Mancano solo 59 giorni al 16 marzo 2018, giorno in cui le autorità pubbliche e i media celebreranno il quarantennale del sequestro Moro. L’evento, che rappresentò uno spartiacque nella storia della repubblica italiana, darà vita ad innumerevoli manifestazioni ed iniziative, cerimonie ufficiali, convegni, pubblicazioni di libri. Si annunciano programmi televisivi e fiction. Mentre Ezio Mauro, Michele Santoro e Marco Bellocchio si contenderanno la scena e lo share, romanzi e saggi di stampo prevalentemente dietrologico raffigureranno scenari molto lontani da quel che accadde quella mattina in via Fani, quando un commando brigatista composto da giovani operai, studenti e disoccupati portò a termine un’impresa fino ad allora impensabile. Si profila una copertura mediatica totale, un’orgia di complotti e vittimismo. Da mesi i brigatisti ancora in carcere, liberi o all’estero, che parteciparono all’azione vengono sollecitati e avvicinati. Una commissione parlamentare d’inchiesta li ha ripetutamente convocati nelle questure nella vana speranza di poterli ascoltare o tentare di avere il loro dna. Tutti dicono di voler sentire le loro parole ma nei fatti nessuno ascolta quel che raccontano, tantomeno credono nei riscontri che forniscono. Motivo che ha spinto questi ultimi a non riconoscere alcuna legittimità alle diverse commissioni d’inchiesta parlamentari che si sono occupate della questione, sempre con finalità dichiaratamente politiche e intenti unicamente strumentali lontani anni luce da qualunque volontà di affrontare in modo serio e onesto un lavoro di ricostruzione storica dei fatti.
Il 9 gennaio scorso, Barbara Balzerani, che partecipò all’azione di via Fani ed era nell’esecutivo della colonna romana che gestì materialmente il sequestro, ha postato sulla sua bacheca fb una frase che in qualche modo riassumeva l’insofferenza verso tutto ciò: «chi mi ospita oltreconfine per i fasti del 40ennale?».

Una battuta secca ma chiara dove l’ex brigatista chiedeva ironicamente ospitalità per sottrarsi all’ondata dietrologica facilmente prevedibile che accompagnerà le celebrazioni.

I fasti diventano feste
Nel frattempo qualcuno, non proprio in buona fede, avverte Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, l’appuntato dei carabinieri che conduceva la 130 sulla quale viaggiava Aldo Moro, ucciso la mattina del 16 marzo 1978 insieme agli altri uomini della scorta. Giovanni Ricci non prende bene quella frase, si lascia influenzare troppo da chi gli propone una lettura rovesciata del testo. Si abbandona ad un vero e proprio processo ad intenzioni del tutto attribuite, tanto che scrive un post molto duro in cui accusa Balzerani di voler «festeggiare “oltre confine”».
I «fasti» evocati dalla Balzerani diventano improvvisamente della «feste». Ricci prende dal vocabolario il significato del termine “fasto”, scambiandolo per il singolare del sostantivo plurale “fasti” che invece non ha singolari. In questo modo l’antico etimo latino che indicava i giorni dell’anno liberi da impedimenti religiosi, distinti da quelli nefasti, e che nel significato corrente designa i giorni memorabili da celebrare, e dunque è sinonimo di celebrazioni, si trasforma nell’ostentazione di ricchezza, nella sontuosità, nello sfarzo, per estensione nel bagordo, nella festa…. Il fraintendimento è totale e micidiale.

 

 

 

 

Fasto

La strumentalizzazione del malinteso
L’opportunità è ghiotta per i professionisti del linciaggio che non si lasciano sfuggire l’occasione. Nel frattempo il post di Ricci che aveva condiviso la frase della Balzerani si riempie di commenti indignati e carichi di insulti. Viene bloccato da fb, ma Ricci pensa di essere stato censurato e vive la cosa come una ulteriore sopraffazione perché la frase della Balzerani, da lui fraintesa, è sempre là. L’episodio fa montare la rabbia che rimbalza sui social, si diffonde un sentimento di riprovazione generale, escono le prime agenzie, la vicenda si gonfia.
Intanto qualcuno suggerisce a Ricci che la condivisione è scomparsa perché Balzerani impaurita dalle conseguenze delle proprie parole avrebbe tolto l’incauta battuta. Non è affatto vero, ma poco importa, come sempre accade in episodi del genere la verità non è dettata dai fatti ma dalle voci che corrono ed inevitabilmente, qualunque sia il comportamento che le viene attribuito, alla fine l’ex Br risulta sempre colpevole. Mentre accadeva tutto ciò sulla pagina della Balzerani una persona chiede se quella frase «non possa ferire i figli o i nipoti di chi fu vittima degli anni di piombo?». L’ex brigatista, autrice ormai di numerosi libri molto apprezzati in cui rielabora in forma letteraria la sua esperienza, non si sottrae affatto e risponde ribadendo la propria legittimità «a non dover assistere al racconto che faranno TV, commentatori, politici, dietrologi, componenti di commissioni parlamentari». Il senso del post, spiega sempre Balzerani, è rivolto a «tutti coloro che hanno accesso ai mezzi della comunicazione e che altro non hanno prodotto che verità di comodo, mistificazioni e vere e proprie menzogne su quegli avvenimenti, i comportamenti e le responsabilità di ciascuno». Balzerani infine chiede se non sia interesse anche dei familiari delle vittime che «un simile evento non sia lasciato alla ricostruzione di personaggi che non hanno a cuore il rigore di una ricostruzione storica» per glossare con un giudizio per nulla lusinghiero sull’operato della commissione Moro e di uno dei suoi componenti, Gero Grassi, che da poco ha chiuso i battenti senza essere riuscita ad elaborare delle conclusioni finali, in mancanza di riscontri sulle numerose piste dietrologiche battute.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La costruzione del mostro
Parole che mettono fine a qualunque fraintendimento, tanto che lo stesso Giovanni Ricci, innestando una sorta di marcia indietro, ha ripetutamente chiesto sulla sua bacheca di chiudere la polemica.

Ricci sic transit

Troppo poco e troppo tardi. Le spiegazioni di Balzerani sono rimaste del tutto ignorate da chi con grande malafede ha raccontato nei giorni successivi la vicenda sui quotidiani, i siti d’informazione online e la Rai, rappresentandola come un mostro. Così il demone del male assoluto è stato convocato con largo anticipo sull’appuntamento per dar man forte alle zoppicanti narrazioni complottiste.
A dire il vero sul Tempo, nonostante il titolo mistificatorio («La brigatista sfotte Moro») Manuel Fondato, a differenza del suo collega Fabrizio Caccia del Corriere della sera, mostrava di aver capito benissimo le parole di Balzerani tanto da attaccarla per lesa maestà nei confronti delle celebrazioni, come se ci fosse un obbligo di legge a doverne condividere il contenuto. Ma che il giornale diretto da Gian Marco Chiocci abbia in simpatia lo Stato etico non è una sorpresa.
Dal fondo del barile si è sentita anche la voce di Gero Grassi, che ha definito «insulti» le critiche mosse nei suoi confronti, ricevendo la solidarietà di una sua vecchia frequentazione, Raimondo Etro (leggi qui), un collaboratore di giustizia che in sua lettera, citando il risvolto di copertina di un libro di Luciano Pellicani sull’eresia gnostica, ritenuta la madre delle ideologie rivoluzionarie della modernità, ha salutato Balzerani dandogli appuntamento all’inferno. Vano auspicio, la serietà del luogo non è alla portata di tutti, tantomeno di pentiti come lui.