Strage di Brescia, De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

Dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di Brescia del 1974 parla Giovanni De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

La tesi sostenuta dal professor De luna in questa intervista è oggi molto diffusa. Essa ritiene infatti che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A nostro avviso si tratta di una deriva sbagliata, anzi devastante poiché:

a) innesca una privatizzazione del diritto di punire;
b) la giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa;
c) conseguenza che apre la portà al rischio di verità giudiziarie di comodo, verità politiche – altrimenti dette “ragion di Stato” – necessarie a placare domande che vengono dall’opinione pubblica o servono a lenire semplicemente la sofferenza dei familiari, ad appagarne il risentimento;
d) devasta la dimensione psicologica delle vittime stesse, messe di fronte all’assurdo paradosso di dover pretendere verità da quello stesso Stato coinvolto nei fatti incriminati;
e) verità che evidentemente non potrà mai venire senza che sia investita la dimensione del cambiamento politico delle istituzioni coinvolte;
f) ne può uscire soltanto un atteggiamento vittimistico e querulante che di fronte al frustrante fallimento degli esiti processuali, o peggio al mancato appagamento che la scena giudiziaria offre (“la verità giudiziaria non dice tutto”, “i colpevoli nascondono altre verità”, ”la pena deve essere infinità anche una volta sconata per intero”), trascina la figura della vittima in una spirale di risentimento senza fine, di avvitamento rancoroso;

E’ sulla verità storica che occore dunque lavorare. Ciò dipende da quelle categorie, gli imprenditori della memoria, che lavorano con la materia storica ma dipende anche e soprattutto dall’autorganizzazione sociale, dalla capacità di creare le condizioni politiche perché questa verità esca fuori.

Paolo Persichetti
Liberazione
18 novembre 2010


Nonostante le cinque fasi istruttorie e gli otto gradi di giudizio l’ennesimo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia si è concluso senza essere riuscito ad accertare, «oltre ogni ragionevole dubbio», l’identità degli autori e dei mandanti dell’attentato che il 28 maggio 1974 provocò 8 morti e 102 feriti durante una manifestazione antifascista. Come è accaduto anche per gli undici gradi di giudizio sulla strage di piazza Fontana la macchina della giustizia sembra girare a vuoto quando si tratta di identificare autori e mandanti della violenza stragista che ha insanguinato la prima parte degli anni 70.
Sia chiaro, i processi non servono soltanto a condannare le persone chiamate in giudizio ma a stabilire una «verità giudiziaria» (che non per forza è la copia carbone della verità storica), la quale prevede anche la possibilità di giungere a delle assoluzioni (circostanza che si ha tendenza a dimenticare troppo facilmente). Credere che un processo non sia servito a nulla quando non porta a delle condanne è dunque un errore di prospettiva che contiene un’idea deformata di giustizia. Tuttavia il dispositivo di assoluzione emesso martedì dalla corte d’assise di Brescia suscita molta frustrazione poiché non afferma la piena estraneità delle persone assolte, ma ricorre all’ambigua formula della «prova mancante e contraddittoria».
In sostanza la sentenza (capiremo meglio una volta rese pubbliche le motivazioni scritte), sembra riconoscere un fondamento alla ricostruzione del contesto all’interno del quale è maturata la strage. L’ambiente neofascista veneto, le cellule ordinoviste, la presenza d’infiltrati e doppiogiochisti del servizio segreto militare italiano e della Cia. Nonostante ciò il processo – riconosce sul manifesto lo storico Mimmo Franzinelli – era appesantito da una ricostruzione dei fatti «sovrabbondante, talvolta dietrologica», sorretta da «un castello accusatorio poi crollato con la ritrattazione di Maurizio Tramonte» (la fonte Sismi denominata Tritone), «personaggio infido, collaboratore di giustizia premiato con larghe prebende», e la presenza di altri testi che hanno ritrattato in aula le precedenti ammissioni, come Martino Siciliano e Carlo Digilio, ordinovista in contatto con la Cia, mentre l’autore materiale sarebbe stato un altro ordinovista morto per overdose nel 1991.
Dopo questa ennesima sconfitta comincia a farsi strada l’idea che ad oltre 30 anni dai fatti il mezzo processuale abbia esaurito ogni capacità conoscitiva sulle vicende più oscure e drammatiche degli anni 70.

Professor De Luna, il giudice Salvini dice che ora gli storici devono sostituirsi ai giudici. Se la verità giudiziaria non è accessibile – ha spiegato – l’unica via è una commissione di esperti indipendenti per la memoria del Paese.
Mi sembra una idea strampalata. Ognuno deve fare il suo mestiere. I giudici fanno i giudici e gli storici gli storici. Non confondiamo le due cose. La storia non è un tribunale.

L’idea che la verità sia accessibile unicamente per via giudiziaria, questo voler delegare continuamente alla magistratura la funzione di scrivere la storia degli anni 70 non è un errore, oltre che la prova di una mancanza di coraggio della società civile e di timidezza da parte degli storici?
L’assenza di verità giudiziaria impedisce l’elaborazione del lutto, non rimargina le ferite perché vengono meno i presupposti di verità e giustizia che delle istituzioni virtuose dovrebbero fornire. Questo vuoto rende impossibile la convivenza civile, tiene aperta una memoria conflittuale, un passato che non passa che nutre rancori, desideri di vendetta, richieste di risarcimenti, bisogno di legittimazione. Un groviglio identitario di passioni, una dimensione emotiva e sentimentale della memoria che resta campo di battaglia permanente tra opposti atteggiamenti vittimari.

Eppure di fronte a verità giudiziarie pienamente accertate, pesanti condanne emesse e scontate, come è avvenuto per la lotta armata di sinistra, questa vertigine vittimaria non è affatto cessata. Al contrario, alimentata dalle più fantasiose dietrologie, si è spesso mostrata ancora più aggressiva.
E’ vero, però c’è una differenza di fondo tra chi chiede verità e giustizia, quando questa manca, e chi mantiene un atteggiamento vittimario quando siamo di fronte a sentenze che hanno certificato le responsabilità individuali. In questo caso l’atteggiamento vittimario cambia di segno e perde il suo interesse pubblico e il suo valore civile per trasformarsi in una memoria che può essere carica di rancore o restare confinata in una dimensione individuale.

Lei distingue un vittimismo virtuoso da uno ripiegato su se stesso.
Non tutte le memorie vittimarie sono uguali. Il familismo civico è stato possibile grazie alla presenza di una verità giudiziaria. E’ in questo modo che molti familiari hanno potuto elaborare il lutto ed in alcuni casi avvicinarsi addirittura alla ragioni degli assassini. Quella legata alla mancanza della verità giudiziaria è oggettivamente una memoria pubblica che dovrebbe ispirare i valori della cittadinanza.

Ma se la verità giudiziaria, quando c’è, non è appagante, cosa deve fare un Paese perché il passato passi?
Avere delle istituzioni virtuose in grado di recintare uno spazio pubblico fatto di verità, di giustizia, di valori riconoscibili dove non c’è più una democrazia legata al mondo dell’indicibile e del nascosto ma del visibile e della trasparenza.

E se queste istituzioni non sono virtuose o addirittura appaiono colluse con la stagione delle stragi?
Poco prima che cadesse il governo Prodi era stata approvata la legge per togliere il segreto di Stato. Un segnale di trasparenza. Poi i regolamenti attuativi non sono mai stati realizzati. Finché le istituzioni si comporteranno così quel ruolo virtuoso non sarà mai ricoperto.

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Quando la memoria uccide la ricerca storica

Il Brasile respinge la richiesta d’estradizione di Battisti: l’anomalia è tutta italiana

Il Brasile, come la Francia, non costituisce affatto una eccezione sul piano del diritto internazionale. Ben sette paesi hanno respinto le richieste di estradizione avanzate dall’Italia nei confronti di militanti italiani inquisiti o condannati in base alla legislazione d’emergenza per appartenenza a formazioni politiche rivoluzionarie o fatti di violenza politica avvenuti nel corso degli anni 70 e 80.
Le uniche volte che l’Italia ha riavuto indietro dei fuoriusciti è stato grazie ad operazioni di pirateria internazionale, vere e proprie “consegne strordinarie” (sul modello delle extraordinary rendition), come fu nel caso di Paolo Persichetti, Rita Algranati e Maurizio Falessi.

di Oreste Scalzone
27 gennaio 2009

Si mescolano assieme le voci dei politici, degli opinion makers, degli uomini pubblici delle istituzioni, e quelle dei “familiari delle vittime” riuniti nelle corrispondenti associazioni.

Sette paesi nel mondo hanno sistematicamente risposto no, per più di un quarto di secolo, alle richieste di estradizione – avanzate dalla Repubblica Italiana – di “terroristi”, imputati o condannati, a seguito dei cosiddetti “anni di piombo”, per “terrorismo” ( in qualche caso di estrema destra, nel caso più diffuso, di estrema sinistra).

Ecco lista:

Francia con la cosiddetta dottrina Mitterrand, l’accoglienza, nella forma dell’asilo di fatto, concessa ad un migliaio di fuoriusciti dall’Italia, la non-estradizione di 92 persone sulle 94 sottoposte a procedimento di estradizione. Le eccezioni sono state Battisti – eccezione rimasta sulla carta -, e Paolo Persichetti, che purtroppo fu materialmente estradato perché sette anni dopo la firma di un decreto d’estradizione non a caso mai eseguito, lo Stato italiano nella persona del delinquente giudiziario – a meno che non si tratti d’idiozia – sostituto procuratore di Bologna Paolo Giovagnoli costruì una montatura poi miseramente caduta, inventandosi una pretesa spola per Persichetti tra Parigi e Bologna.

Brasile non ha estradato numerosi italiani, tra i quali basti ricordare, prima di Battisti, i casi di Valitutti, Lollo, Pessina, Mancini.

Canada che accolse Piperno respinto alla frontiera statunitense, dove si era recato in provenienza da Parigi per recarsi al Mit di Boston.

Gran Bretagna ha accolto un esponente della sinistra sotto inchiesta per la sua collaborazione con la rivista Controinformazione, oggi divenuto docente universitario. Ha rifiutato le richieste di estradizione di diversi esponenti neofascisti (perlopiù Terza posizione), tra cui Morsello e Fiore.

Grecia ha respinto le richieste di estradizione italiana avanzate nei confronti di Folini e Bianco.

Argentina non ha accolto la richiesta di estradizione avanzata nel 2002 nei confronti di Bertulazzi.

Nicaragua ha ritenuto irricevibile le domande di estradizione contro la cospicua colonia di fuoriusciti italiani degli anni 70. Il caso Casimirri è quello più noto.

Evitiamo di citare il contenzioso Italia/Giappone a proposito del caso Delfo Zorzi, perché c’è il fondato motivo di pensare ad accordi sottobanco, connivenze fra servizî, e simili…).

Le consegne straordinarie
Oltre al caso di Paolo Persichetti, un’altra eccezione rispetto a questo atteggiamento costante è rappresentata dalla rimessa brevi manu, e militari, all’Italia da parte del governo e dei servizi segreti dal’Algeria – via quell’altro Paese campione dei diritti umani e delle garanzie che è l’Egitto, di Rita Algranati e Maurizio Falessi (quest’ultimo per giunta con la pena già prescritta): una vera operazione di “kidnapping morbido”…
Si tratta dunque di ben altro che di una anomalia-Mitterrand: no, l’anomalìa che manifestamente appare è quella italiana. Ora, qual’ è quest’anomalia italiana, e perché diciamo che i kapataz istituzionali – politicanti in testa – dello Stato italiano strumentalizzano e in qualche modo fanno violenza morale agli stessi familiari delle vittime, seminando tra loro illusioni per altro infime, col rivoltante cinismo demagogico del populismo penale sul drittofilo della formazione di uno Stato Penale?
Fingono di non sapere che fa parte dei fondamenti del giuridismo moderno il carattere temporalmente finito della Giustizia penale. “Giustizia infinita” è nozione a fondamento teologico dei tribunali dell’Inquisizione, implica come presupposto la trascendenza. Il diritto/dovere assoluto dello Stato di individuare e punire – e delle parti civili di veder sempre designati, scovati, arrestati e puniti dei colpevoli – è nefasta utopia, conato assolutistico e totalitaristico da Stato etico.