La morte di Mara Cagol e il bossolo scomparso

Paolo Morando, ilT 30 aprile 2025

Al processo per i fatti della Cascina Spiotta, ieri alla terza udienza in Corte d’assise ad Alessandria, è stato il giorno dei primi testimoni. Era infatti in programma l’audizione di Bruno D’Alfonso, il figlio dell’appuntato dei carabinieri Giovanni rimasto ucciso nella sparatoria del 5 giugno 1975 contro le Brigate Rosse che, sulle colline di Acqui Terme, tenevano sequestrato l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Un conflitto a fuoco in cui cadde anche la trentina Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”, che era alla guida del nucleo brigatista. Ma è proprio la sua morte, di per sé non oggetto del processo, ad avere ieri tenuto banco. In aula e non solo.

Al processo per i fatti della Cascina Spiotta, ieri alla terza udienza in Corte d’assise ad Alessandria, è stato il giorno dei primi testimoni. Era infatti in programma l’audizione di Bruno D’Alfonso, il figlio dell’appuntato dei carabinieri Giovanni rimasto ucciso nella sparatoria del 5 giugno 1975 contro le Brigate Rosse che, sulle colline di Acqui Terme, tenevano sequestrato l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Un conflitto a fuoco in cui cadde anche la trentina Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”, che era alla guida del nucleo brigatista. Ma è proprio la sua morte, di per sé non oggetto del processo, ad avere ieri tenuto banco. In aula e non solo.
In apertura di dibattimento, sono stati infatti depositati agli atti del processo gli esami autoptici sul corpo della brigatista. Lo ha fatto Vaimer Burani, legale di Renato Curcio (che di Cagol era all’epoca il marito): esami che dimostrano come la donna sia stata uccisa daun colpo di pistola sparato da un’arma in dotazione ai carabinieri, una pistola Beretta calibro 9. E fin qui nulla di misterioso. Ma da quale carabiniere? E in quali circostanze precise? Il relativo bossolo venne anche repertato, lo dimostra un verbale che pure sta agli atti: curiosamente, però, era stato ritrovato solo diversi giorni dopo la sparatoria (il 20 giugno), alla presenza del procuratore della Repubblica Lino Datovo, che aveva disposto l’ulteriore ricerca. E stava proprio vicino a dove si trovava il corpo senza vita della donna: dunque, uno sparo esploso da vicino. Quel bossolo però mai venne consegnato ai periti. E da allora le sue tracce si sono perdute.
Quel misterioso bossolo promette insomma di scompaginare nuovamente il processo in corso ad Alessandria. Già la seconda udienza, un mese fa, aveva riservato infatti un inatteso colpo di scena, con l’ex brigatista Lauro Azzolini che, attraverso dichiarazioni spontanee, aveva ammesso di essere stato presente quel giorno con Cagol alla Spiotta. E quindi di essere lui quel misterioso “fuggitivo” che era riuscito a evitare l’arresto scappando nei boschi dopo la sparatoria. Affermazioni che hanno in gran parte svuotato di senso il dibattimento in Corte d’assise, che mirava appunto a identificarlo.
L’inchiesta della Procura di Torino, riaperta dopo un esposto proprio di Bruno D’Alfonso, aveva portato a numerosi elementi contro Azzolini, soprattutto provenienti da intercettazioni telefoniche (gran parte delle quali peraltro non ammesse dalla Corte). Alla sbarra, assieme a lui, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio dell’appuntato, figurano però anche Mario Moretti e Renato Curcio, leader storici delle Br, per via del “ruolo apicale” ricoperto all’epoca nell’organizzazione: quel giorno alla Spiotta, è noto, non erano presenti. E proprio Curcio, nei mesi dell’inchiesta, aveva più volte rilanciato la questione della morte della moglie, anche depositando una memoria.
Si diceva però che quel misterioso bossolo ha tenuto banco non solo in aula. Ieri infatti “l’Unità”, con un ampio articolo a firma di Paolo Persichetti, ha ripercorso la vicenda, scrivendo tra l’altro così: «Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. È in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarsorendimento dell’apparecchio rivelatore, “in siffatte condizioni”, le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché?».
È una domanda che, nel corso dello svolgimento dell’inchiesta da parte della Procura, è stata costantemente elusa. Eppure è una domanda legittima. Quel bossolo, è l’ipotesi (profilata nella stessa autopsia), potrebbe essere quello del proiettile sparato a bruciapelo e da vicino contro Cagol che, già ferita e a mani alzate, si era arresa ai carabinieri. Lo scenario insomma di un’esecuzione a freddo, su cui da sempre si discute e ci si divide, ma che mai è stato approfondito per via giudiziaria. Non è detto che ora il nodo possa essere sciolto: benché siano state calendarizzate udienze fino al prossimo dicembre, il processo verte infatti su altro. Ma l’ombra sulla morte di Margherita Cagol è comunque il convitato di pietra in Corte d’assise ad Alessandria.
Tornando alla deposizione di D’Alfonso figlio, va detto che lui stesso ieri ha fatto riferimento ai molti misteri che avvolgono la vicenda. Ad esempio, ha parlato di una sorta di “consiglio” dato da Dalla Chiesa a Vittorio Vallarino Gancia: «Andò in carcere a Cuneo per cercare di riconoscere le voci dei brigatisti che lo avevano rapito e ne riconobbe una, ma il generale Dalla Chiesa gli disse di non dire nulla. Come se ci fosse stato un patto di non belligeranza tra lo Stato e il terrorismo».

Il bavaglio alla storia, annullato il convegno sul sequestro Moro

Convegno MoroNon si terrà più il convegno previsto il prossimo 12 maggio 2016 presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto (Camera dei Deputati) dal titolo “Il Caso Moro: la politica, la ricerca, la storia. Voltare pagina si può” (vedi locandina qui accanto).
Ne danno notizia in un secco comunicato, che potete leggere qui sotto, tre dei relatori che avrebbero dovuto prendere la parola.
La gioranta di lavori storici era stata organizzata da Fabio Lavagno, deputato del Partito Democratico e membro non omologato alle tesi complottiste dell’attuale Commissione bicamerale di inchiesta sul caso Moro.
Nel comunicato di presentazione della iniziativa diffuso nei giorni scorsi, ed oggi non più reperibile sul sito dello stesso Lavagno (http://www.fabiolavagno.it/blog/archives/10408), si poteva leggere «a quasi quattro decenni dal rapimento e l’uccisione del presidente democristiano e della sua scorta da parte di molti si sente la necessità di storicizzare quegli avvenimenti, collocandoli nel loro contesto di scontro politico, sociale e generazionale, che segnò l’Italia negli anni Settanta e Ottanta. Studiosi provenienti dall’Italia e dall’estero che da molti anni si occupano della vicenda (Elisa Santalena, Nicola Lofoco Monica Lanzoni, Paolo Persichetti, Vladimiro Satta, Gianremo Armeni, Luciano Seno, Pino Casamassima e Marco Clementi), ne analizzeranno vari aspetti, dalle fonti disponibili alla metodologia della ricerca, dall’origine della dietrologia alla posizione dei partiti durante la crisi, fino ad aspetti ancora poco indagati ma non meno importanti, come le conseguenze del caso Moro sul sistema carcerario italiano e le esperienze di altri paesi per uscire dall’emergenza»
Dopo una sessione di discussione sulle relazioni tenute nel corso della mattinata era prevista anche una tavola rotonda moderata da Massimo Bordin di radio radicale sul tema «Voltare pagina si può», a cui avrebbero preso parte Oreste Scalzone, esponente dei movimenti degli anni 70, il presidente della Casa della Memoria 28 maggio 1974 Manlio Milani, il presidente della commissione riforme del CSM Piergiorgio Morosini, il generale dei Carabinieri Giampaolo Sechi, il presidente dell’associazione caduti di via Fani Giovanni Ricci e Annachiara Valle di Famiglia Cristiana.

Il comunicato

Pressioni politiche hanno messo l’organizzazione del convegno “Aldo Moro: la ricerca, la politica, la storia, nella condizione di rinviare sine die l’iniziativa. Questa situazione si ripete con regolarità quando si presentano possibilità di confronto pubblico che non sia irregimentato in stringenti letture monocromatiche del passato. Noi crediamo che quattro decenni costituiscano un tempo più che sufficiente per uscire dalla logica emergenziale e perché la parola su quegli anni passi finalmente alla storia. Crediamo, anche, che le istituzioni debbano togliere la propria tutela etica su un periodo che non è figlio illegittimo della storia italiana.

Marco Clementi
Paolo Persichetti
Elisa Santalena