L’uscita di Marchionne da Confindustria mette in grave imbarazzo il Pd

Sergio Marchione alla guida del partito (rivoluzionario) del Capitale

Paolo Persichetti
Liberazione 5 ottobre 2011


Mentre l’intera agenda politica ruota attorno alle inchieste ed alle udienze che ritmano, tra un legittimo impedimento e l’altro, i processi al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, mentre il massimo sforzo oppositivo che le forze parlamentari contrarie all’attuale maggioranza di governo riescono a mettere in campo, dal Pd fino all’Idv, si riduce alla conta sulle mozioni di sfiducia o alle richieste di arresto provenienti dalla magistratura contro deputati della maggioranza o ministri del governo; mentre l’unica strategia che guida l’antiberlusconismo confida nella forza salvifica della spallata giudiziaria e nell’intervento risolutore di un governo tecnico guidato da un banchiere e appoggiato da Confindustria: «La vera partita del Paese», come ha titolato Mario Deaglio sulla Stampa di ieri, si sta giocando altrove.
Accecato dall’agonia del berlusconismo, un intero ceto politico in compagnia di larghi pezzi di società civile non s’accorge che a riscrivere in profondità la costituzione materiale dell’Italia non è più il padrone di Mediaset ma la Fiat di Sergio Marchionne assunta a ruolo di apripista, «partito rivoluzionario» (del capitale), come non ha esitato a qualificarla l’elefantino sul Foglio. La decisione presa dall’Ad di Fiat di uscire dalla Confindustria, annunciata con una lettera inviata ad Emma Marcegaglia lunedì 3 ottobre, è stata subito strumentalizzata da alcuni settori della destra che vi hanno visto una sorta di endorsement del governo, dopo  «il manifesto» con il quale l’organizzazione degli industriali di fatto voltava le spalle all’esecutivo. Ma se è vero che Marchionne può vantare l’appoggio di ministri come Sacconi e Brunetta, che viaggiano sulla sua stessa lunghezza d’onda, l’operazione della Fiat ha una portata strategica che guarda ben oltre qualsiasi contingenza. L’operazione di Marchionne ha il respiro lungo e mira a rideterminare sotto il pieno ed assoluto controllo padronale i rapporti di produzione e più in generale le reazioni sociali nel mondo del lavoro. C’è già chi scommette sullo sfaldamento del fronte confindustriale: un rompete le righe che alletta certamente quei settori padronali in grado di schiacciare facilmente il conflitto, molto meno quelli che preferiscono governare le relazioni industriali con patti concertativi. Marchionne ha trovato il plauso di Carlo Callieri, ex direttore del personale Fiat che organizzò la marcia dei 40 mila, per il quale «la Confindustria non è più rappresentativa e si comporta come una lobby». Sul fronte confindustriale si registra già una prima defezione: escono anche le cartiere Paolo Pigna Spa. La divergenza di vedute, e di interessi, ruota attorno al patto «neocorporativo», siglato il 21 settembre scorso, dove le parti sociali forniscono una loro interpretazione autentica dell’articolo 8, rivendicando «l’autonoma determinazione delle parti» sulle relazioni industriali e la contrattazione. Marchionne è fautore di una rottura culturale contro il «neocorporativismo» nelle relazioni industriali a vantaggio di una nuova realtà dove le regole siano dettate da una parte sola: l’imprenditore. Dove non può esserci più concertazione perché la maggiore flessibilità richiesta non è più un semplice problema di tecnica produttiva, ma ha sostanza politica: chi si oppone al comando padronale non ha diritto di cittadinanza dentro l’impresa. Il conflitto va espunto alla radice secondo un modello autoritario dove ha spazio una sola voce. La fabbrica diventa una società a senso unico. I toni basi e imbarazzati nel Pd la dicono lunga sullo spiazzamento subito da questo partito che fino a poco tempo fa vedeva in Marchionne un «vero socialdemocratico», l’esempio perfetto di campione del «partito dei produttori» di togliattiana e berlingueriana memoria. Il segretario Bersani ha nascosto il proprio pensiero dietro due citazioni di Enrico Letta e Marcegaglia. Piero Fassino, che non molto tempo fa avrebbe volentieri visto in Marchionne un perfetto segretario del Pd, si è limitato a parlare di decisione «negativa» evitando di affrontare la questione nonostante avesse l’Ad Fiat accanto in un appuntamento pubblico. Chiamparino, ex sindaco di Torino, ha letto la decisione come «un passo ulteriore per guardare sempre di più Oltreoceano». Per il responsabile economico del Pd Boccia si tratterebbe di una prova della crisi di rappresentanza dell’organismo confindustriale. Nessun giudizio sul merito. Vuoto d’idee oppure solo un modo per non far sapere che, sotto sotto, al “Botteghino” poi non è che la pensino in modo tanto diverso.

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Cronache operaie
Speculazione finanziaria
Il Marchionne del Grillo e l’operai da Fiat
Il metodo argentino di Marchionne: in fabbrica paura e sfruttamento
Marchionne secondo Marx

Gallino: «Barbarie sociale e recessione, ecco l’effetto della manovra»

Intervista a Luciano Gallino, sociologo, autore di Finanzcapitalismo, Einaudi 2011

Paolo Persichetti
Liberazione 14 agosto 2011


Colpire al cuore lo Statuto dei lavoratori. Questo progetto ultradecennale perseguito con una ferocia ideologica senza pari è forse giunto al suo traguardo. I ripetuti tentativi, sempre falliti o respinti in passato, hanno trovato nel grande golpe della finanza in corso il mezzo per assestare la mossa finale. La misura, richiesta nella lettera della Bce scritta da Mario Draghi, come lo stesso Giulio Tremonti ha lasciato intendere, è stata introdotta nella manovra aggiuntiva del governo in una maniera del tutto subdola e artificiosa. Abbiamo chiesto al sociologo Luciano Gallino, che in un suo lungimirante saggio uscito lo scorso marzo per Einaudi, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, ha descritto l’attuale crisi finanziaria, un giudizio sulle scelte del governo.

Quando parliamo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (divieto di licenziare senza giusta causa) ci riferiamo ad una norma di legge che sancisce un diritto soggettivo del cittadino lavoratore. Possono le parti sociali espropriare questo diritto della persona derogando la legge con un accordo aziendale? Non si tratta di una elementare violazione della gerarchia delle fonti del diritto? Prim’ancora che incostituzionale sembra l’ennesima alchimia antigiuridica. Una furberia architettata da un malandrino.
Non sono un giurista e lascio a loro una valutazione tecnica sulla questione. Ma come ho detto in una precedente intervista, rimuovere la persona come titolare dei diritti, mettendo invece al centro la prestazione o il contratto, è un aberrazione giuridica, il segno di una forte regressione in direzione di una smodata rimercificazione del lavoro. Sono le persone che hanno titolo, per usare un termine di Amartya Sen, per ottenere reddito o veder difesa la loro dignità.

Cosa accadrà con lo smantellamento dei contratti nazionali e la possibilità di derogare le norme di legge che tutelano i diritti dei lavoratori?
Intanto bisogna vedere come va a finire, manca ancora il voto finale del parlamento. In ogni caso l’idea che il centro della contrattazione debba essere l’azienda significa veramente non rendersi conto di come è organizzata oggi la produzione nel mondo. Si sarebbe dovuto parlare di contrattazione di filiera, di contrattazione estesa alle cosiddette catene di produzione del valore, perché ciò che fa ogni singola azienda dipende da ciò che fanno le aziende a monte e quelle a valle. Praticamente nessuno produce più nulla per intero. Tutto il prodotto, anche il più piccolo elettrodomestico, qualunque tipo di servizio per non parlare dei manufatti più grandi, è composto da centinaia di produttori situati in decine di Paesi diversi. L’idea che si possa contrattare la produttività in una sola azienda significa non aver capito nulla di come da decenni la produzione è organizzata nel pianeta. E poi mi preoccupano due cose.

Quali?
La scelta del governo è regressiva dal punto di vista sociale, civile e giuridico. I governi di destra ci hanno abituato a interventi del genere ma qui si è andati molto oltre. ma c’è ancora di più, questi interventi sono recessivi anche dal punto di vista economico, sono un limite allo sviluppo, alla cosiddetta ripresa. Queste misure non fanno altro che porre le premesse per una recessione che non sarà inferiore a 5-10 anni. Per un Paese che ha già una media di sviluppo dello 0,5% si tratta di un intervento molto ottuso. La fermentazione delle contrattazioni, la disarticolazione dei contratti fa si che a soffrire sarà la stessa produttività, l’organizzazione aziendale, la formazione dei lavoratori. Sono tutte premesse per un peggioramento e un prolungamento della recessione. il ministro Sacconi interpreta gli aspetti più deteriori dell’ideologia neoliberale.

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Altreconomia: “Chiudere i paradisi fiscali e abolire la finanza tossica”
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Campagna per la sicurezza sul lavoro del ministero diretto da Maurizio Sacconi: la colpa è di chi “non si vuole bene” (via Polvere da sparo)

Vincenzo Maggioni
10 ottobre 2010

I morti sul lavoro sarebbero vittima del mancato rispetto di sé, del volersi male al punto da metere a repentaglio la propria vita danneggiando inevitabilmente anche quella dell’imprenditore che offre lavoro per pura filantropia. E’ questo il succo della campagna contro le morti sul lavoro che ci suggerisce il ministero del lavoro e delle politiche sociali diretto da Maurizio Sacconi. La filosofia è molto chiara: le vittime di incidenti sui posti di lavoro se la sono cercata per imprudenza e per voglia di strafare, di lavorare e rischiare più di quanto il datore di lavoro pretenda. Il quale poverino non vede l’ora di rimandare i suoi dipendenti a casa e per carità non pretende straordinari, non vuole ritmi più intensi, certamente prende tutte le precauzioni del caso e segue alla lettera le norme sull’antinfortunistica, anzi sulla base dell’esperienza quotidiana introduce ancora maggiori precauzioni.
Le cose come sappiamo vanno così nei cantieri e nelle officine. Sono andate così alla ThyssenKrupp. Sono andate così alla Dsm, ex Pierrel, di Capua dove tre operai sono morti in una cisterna spinti a scendere d’urgenza in ore straordinarie per una miseria e morti perché per risparmiare l’azienda aveva impiegato durante le pulizie dei silos un gas nocivo al posto di quello inerte. Ma per Sacconi quei tre operai “non si volevano bene” e non volevano bene alle loro famiglie e nemmeno al loro padrone che ora è sotto inschiesta. Avrebbero potuto rifiutarsi, certo. Solo che un attimo dopo sarebbero stati licenziati, grazie alla flessibilità in uscita predicata dai controriformisti come il ministro Sacconi.

Che almeno questi signori di governo abbiano il coraggio e il buon gusto di essere coerenti una volta per tutte applicando anche a loro stessi questa filosofia del rischio quando certi incidenti arrivano a colpire le loro belle e remunerate carriere.
Se dovesse accadergli qualcosa ora sappiamo che se la sono cercata, perché non si volevano bene.

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Cronache operaie
E’ morto Pietro Mirabelli, sul lavoro
Stragi del capitalismo: operai morti in cisterna, i precedenti degli ultimi anni
Fumi che uccidono operai e fumogeni che fanno tacere sindacalisti collaborazionisti

Campagna per la sicurezza sul lavoro del ministero: la colpa è di chi "non si vuole bene" dal sito Nomortilavoro.noblogs.org La Campagna per la sicurezza sul lavoro, promossa dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali recita “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”. Un messaggio e due spot rivolti solo al lavoratore e non a tutti gli  “attori” coinvolti. Dopo aver frantumato il Dlgs 81 del 2008 del Governo Prodi,hanno ben pensato di correggerlo con il decreto correttivo Dlgs 106/09 (sanzioni dimezzate ai datori di … Read More

via Polvere da sparo