Basta con il livore verso i fuoriusciti è ora di fare la storia degli anni 70
Paolo Persichetti
Liberazione, venerdì 2 febbraio 2007
Apparso anche su www.carmillaonline.com
Francesco Merlo, su la Repubblica del 18 gennaio, scrive peste e corna dei fuoriusciti riparati in Francia. Li raffigura simili ad
un circo Barnum e, come in un mattinale della questura, s’inventa pure un fantomatico dibattito tra ‘uscisti’ ed ‘entristi’ della lotta armata. Soprattutto prende di petto Oreste Scalzone, che dopo trent’anni ha avuto reati e condanna prescritti. Il suo è un minestrone di parole che ammucchiano colore, gossip, dicerie, fandonie, pregiudizi. Ce l’ha persino col loro modo di parlare. L’argot inevitabile d’ogni migrante che ha dovuto apprendere la nuova lingua per necessità. Ma poi aggiunge che alcuni tra loro pubblicano libri, fanno ricerca universitaria, aprono librerie e negozietti, senza rendersi conto della contraddizione. Ha da ridire anche sul fatto che non vestono Prada e si meraviglia di come si possa campare ventisei anni di espedienti, cioè di precariato. Domanda interessante, questa, che dovrebbe rivolgere ai cantori nostrani della deregolamentazione del mercato del lavoro.
Chi vede Parigi dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di quattro stipendi da operaio e otto da precario nei call center, è preso d’angoscia di fronte ad una simile prospettiva e percepisce i marciapiedi delle città, il caldo maleodorante del suo reticolo sotterraneo di vie ferrate, come un’insidia dura e ingenerosa. Dante parlava dell’esilio con parole molto amare: «tu lascerai ogni cosa diletta/ […] Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Sarà che ognuno fa le sue esperienze, saranno le diavolerie della tecnologia, ma a Parigi ci sono tanti ascensori e infinite scale mobili e poi ad esser salato è il burro, non il pane. Insomma, se la città la vivi dai sottotetti dei quartieri popolari e multietnici, quella durezza diventa generosità, solidarietà, complicità naturale, intreccio di vite che arrivano da mille angoli del pianeta, ognuna con la sua valigia di storie. Scalzone, e altri come lui, tutto questo l’hanno vissuto sempre al presente, senza nostalgie, senza rimpianti e con le radici che ormai crescevano all’insù.
Sarà forse solo una lontana parentela, ma le parole di Merlo ricordano quelle di un giornale pubblicato a Parigi con le finanze dell’Ovra, la famigerata polizia politica di Mussolini. Era rivolto alla folta comunità di emigranti italiani e s’intitolava, guarda caso, il Merlo. La sua ragion d’essere era la calunnia quotidiana dei fuoriusciti antifascisti.
Immorale è il viaggio quando si rimane stranieri, ha scritto tempo fa Claudio Magris. E stranieri i fuoriusciti non lo sono mai stati. La nostalgia è stata quella degli altri, come racconta Milan Kundera, anche lui un tempo esiliato. Nóstos e Àlgos sono parole greche che indicano «ritorno» e «sofferenza». Nostalgia è dunque la tristezza che provoca l’impossibilità di tornare. Ma in altre lingue l’etimologia è diversa e trae origine dal latino ignorare. In questo caso, la nostalgia si esprime come «sofferenza per l’ignoranza» di non sapere quel che accade lontano da noi. Ma Scalzone, in tutti questi anni, non ha avuto il tempo di rimpiangere e ignorare proprio nulla, come Ulisse nell’alcova di Calipso. Coinvolto tra mille incontri e scoperte in tutte le battaglie della nuova modernità liquida, come la chiama Zygmunt Bauman: migranti, senza tetto, giovani delle banlieues, precari, altermondialisti, scioperi come quello generale del ’95, mentre a casa sua facevano tappa musicisti, poeti, teatranti e giramondo, scappati e scampati da magistrature, eserciti e polizie di mezzo mondo, compreso qualche fascista gravemente ammalato e un democristiano ricercato. Per farsi aprire bastava esibire come passaporto un mandato di cattura.
I nostalgici sono rimasti in Italia, alcuni perché hanno fatto degli anni ’70 l’oggetto del loro incarognito risentimento, come Sergio Segio. Uno che si racconta avvinto da un ineluttabile destino. «Non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo», scrive in un libro dove inanella una serie impressionante di goffe citazioni scapigliate, iscrivendosi nel «novero dei destinati alla sconfitta che non scelgono l’esilio ma di andare fino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Convinzione che lo porta a rivendicare una sorta di primazìa etica: l’aver prima commesso l’errore giusto ed in seguito aver ripudiato nel modo più giusto la giustezza dell’errore passato. Prova d’eccellenza assoluta, che giustificherebbe il suo irrefrenabile desiderio d’accedere allo status di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista.

Vittoriale
Immerso nella recita di uno stucchevole copione dannunziano, raffigura se stesso avvolto in un’atmosfera d’estetismo combattente: «anima capace di tenerezza», che sceglie «di morire non nella lenta emorragia della vita ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due lati, non per malattia del corpo ma per quella della coerenza, per un’inguaribile infezione dell’anima». Poeta armato, novello Sturm und Drang, sognatore impaziente, adepto del carpe diem, declama: «i nostri attimi sono eterni e ci ripagano di tutto». Fiore appassito più che fiore del male, maledetto mancato ma redento riuscito, anche se con parole che indulgono sempre al calibro ben oliato e al rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione che conduce ad un eroico «andar incontro alla bella morte». Quella altrui, ovviamente.
Una prosa a metà tra l’imitazione di Marinetti e quella del Vittoriale, senza risparmiarci il lieto fine hollywoodiano che condanna l’infausto protagonista a vivere finalmente ravveduto e contento, e che – per dirla con Jim Thompson in Colpo di spugna – di fronte allo specchio della propria vita non può fare a meno di sputare ogni mattino sulla faccia di quel che è stato lo scaracchio di ciò che è diventato. L’esperienza dei fuoriusciti
rappresenta da oltre vent’anni un’anticipazione del possibile, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata una soluzione politica per gli anni ’70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’emergenza, un esempio da cancellare con ferocia e motivo d’incontenibile livore per chi tra dissociazioni e pentimenti, in cambio di laute ricompense premiali, non perde occasione di salire in cattedra e recitare l’autocritica degli altri.
A Sinistra, come a Destra, molti scimmiottano il riformismo blairiano. Ma il primo ministro inglese si è sporcato le mani con il conflitto irlandese, ha negoziato con l’Ira, ha liberato tutti i prigionieri politici, anche con reati di sangue, e stabilito tappe di un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto. In Italia, invece, la sua tanto decantata strategia viene imitata solo per liberalizzazioni e privatizzazioni. Siamo l’unico paese in Europa in cui il ciclo politico della lotta armata è stato chiuso vent’anni fa con un atto unilaterale dei suoi militanti. Siamo gli unici ad avere ancora un centinaio di fuoriusciti e prigionieri politici ormai prossimi ai trenta anni di carcere. Siamo gli unici a selezionare le vittime: Calabresi sì, Pinelli no.
Guardare al rientro di Scalzone come all’ennesima occasione possibile per voltare pagina non sarebbe forse più utile e intelligente? Domanda superflua in un paese che ha seppellito i fatti sociali degli anni ’70 sotto la memoria penale, mentre le stragi, da quelle nazi-fasciste a quelle che hanno tentato di fermare i movimenti, rimangono impunite, senza verità, chiuse in un armadio con le ante rivolte verso il muro. In Italia i passati rivoluzionari non possono diventare Storia. Per questo l’unico futuro che riesce ad affacciarsi all’orizzonte sembra avere il colore plumbeo della colpa. Selettiva, naturalmente.
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I Ravveduti
Fu così che all’alba del giorno seguente venni scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori di ogni trasparenza, concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Quella furtiva consegna celava una flagrante violazione della legalità internazionale: una persona non può essere estradata per dei fatti posteriori a quelli indicati nel decreto, in assenza di una nuova richiesta e previa verifica del suo fondamento. Pur di avallare il teorema della centrale francese le autorità hanno agito aggirando tutti gli obblighi previsti dalla convenzione europea sulle estradizioni.
confronti dei fuoriusciti riparati in Francia. Tra questi il primo a cadere nella rete è stato Cesare Battisti, attorno alla cui vicenda si è aperta un‘accesissima disputa giuridica e storica che ha chiamato in causa temi molto rilevanti: l’esercizio o meno della giustizia d’eccezione, il rapporto con il passato, il ruolo e l’uso politico della memoria; oppure questioni etiche come l’evocazione del male, il problema della colpa e dell’eventuale elaborazione sociale del lutto. Una discussione ampia e dai toni spesso crudi, a volte persino impropri e caricaturali, che dimostra come i passati rivoluzionari fatichino a diventare storia. Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che non diventano memoria, ma sono solo ostaggio di quel che riserverà la storia. Non un passato che torna ma un futuro che manca. Oltre trent’anni ci separano dall’inizio della lotta armata, almeno quindici dalla sua conclusione, riconosciuta con documenti politici e dichiarazioni ufficiali, tra il 1987 e il 1989, dagli stessi protagonisti. L’80% dei prigionieri è in carcere da un periodo che oscilla tra i 21 e i 26 anni; i restanti almeno da 16. Poi ci sono i casi estremi, come quello di Paolo Maurizio Ferrari rinchiuso da trent’anni. Tutto ciò non appaga affatto i partigiani della certezza della pena. I fautori della legalità ritengono, infatti, che vi siano tuttora conti aperti, anche quando le indagini hanno dimostrato che i due attentati del 1999 e del 2002, venuti inaspettatatamente ad interrompere oltre un decennio di silenzio, nulla hanno a che vedere con il passato e tanto meno con un fantomatico “santuario francese”, inizialmente accreditato dalle autorità per giustificare le estradizioni. La coazione a ripetere vuoti gesti del passato, era solo l’opera di un piccolo gruppo che ha trovato conforto nei suoi propositi grazie alla rimozione degli anni 70, al rifiuto ostinato dell’amnistia che ha congelato il tempo e cristallizzato le epoche, tentando di impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi.
In realtà l’esperienza italiana ha innovato il repertorio classico dello stato d’eccezione, mettendo in pratica un modello molto diverso da quella situazione di “sospensione” o “vuoto” del diritto di cui ha recentemente scritto il filosofo Giorgio Agamben (Lo stato d’eccezione , Bollati Boringhieri 2003). L’Italia non ha affatto sospeso il diritto ordinario; non ha avuto bisogno di dotarsi di giurisdizioni speciali (troppo forte era il ricordo del tribunale speciale fascista). Al contrario ha stravolto, deformato, inquinato il diritto penale corrente, camuffando sapientemente l’eccezione e rendendola in questo modo permanente. L’Italia ha fatto a meno di giudici militari perché, sotto la toga, la magistratura ordinaria ha indossato l’uniforme dello Stato etico, sposando una vocazione purificatrice e combattente del proprio ruolo, dotandosi di un potentissimo arsenale penale speciale. Larghi settori della società italiana rimproverano i prigionieri e in rifugiati di non aver mai fatto atto di pubblico pentimento e per questo di aver eluso il senso di colpa, mantenendo per giunta un atteggiamento ambiguo nei confronti di una cultura politica che non esclude il ricorso alla violenza. Il superamento del passato resta ancora un terreno di controversia. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate, da discutere con le tecniche fredde e puntigliose delle scienze sociali; per i media, per la quasi totalità del ceto politico e per larghi settori della società civile è tuttora una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa del passato una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze, che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Un percorso a senso unico che pretende di imporre i valori dei vincitori come l’orizzonte della maturità.
qualcosa che racchiude il massimo d’irrealismo politico e d’immoralità etica. Strano destino quello di un istituto nato con la democrazia ateniese e divenuto