Giornalismo temerario

A proposito di una singolare richiesta di rettifica

di Paolo Persichetti

Negli ultimi tempi si è discusso molto dell’uso delle querele per diffamazione o calunnia a mezzo stampa, utilizzate in realtà come strumento di censura. Nel mondo anglosassone vengono indicate con l’acronimo Slapp (Strategic lawsuit against public), ovvero azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica. Si tratta di azioni penali o civili intentate con la sola intenzione di intimidire il giornalista citato in giudizio, per dissuaderlo dal proseguire le sue inchieste o dare notizie scomode al soggetto che ha promosso la causa.

Allergia alla critica
Numerosi sono i casi di cronaca che riferiscono di querele mosse da esponenti del mondo politico e soprattutto del governo, o da attori economico-finanziari potenti, contro giornalisti o organi di stampa ritenuti scomodi, oppure intellettuali o esponenti della società civile che hanno posizioni non allineate. E’ recente la notizia che alcuni politici, e non solo, ricorrevano a delle agenzie specializzate nell’inviare lettere che, con la minaccia di portare in giudizio singoli cittadini per aver espresso opinioni critiche sui social nei loro confronti, chiedevano risarcimenti sulla base di una tabella. Vi è senza dubbio una tendenza diffusa a mettere il bavaglio, chiudere la bocca a qualunque critica o opinione che non sia gradita, acquiescente o controllata. E’ diffusa un’allergia alla critica che in qualche modo l’era dei social ha accentuato imbarbarendo le discussioni, impoverendole di contenuti e di democrazia.

Professionisti del vittimismo

Ma a comportarsi in questo modo non sono soltanto i detentori del potere economico e politico, ci sono anche soggetti collocati nei livelli intermedi della società. Peggio ancora sono quelli che oggi si ergono a vittime delle querele temerarie promosse da governo e politica, e chiedono con forza una legge in materia, ma hanno fatto largo uso fino a poco tempo fa dello stesso strumento intimidatorio. Basti pensare al caso di Roberto Saviano che sparava querele a raffica contro ogni critica mossa nei suoi confronti e da lui percepita come lesa maestà del suo autodichiarato magistero morale, denunciando macchine del fango.

L’uso della querela come scudo
Nella mia esperienza di lavoro giornalistico ho visto arrivare nei giornali dove ho lavorato le querele più diverse. Ricordo colleghi denunciati perché avevano definito neofasciste o naziste organizzazioni della estrema destra che tali sono o ne agitano i temi. Questi gruppi mettevano in pratica lo strumento della querela sistematica per garantirsi una impunità d’immagine e di azione. E talvolta accadeva che in tribunali periferici trovavano anche il giudice che dava loro ragione. Erano fascisti ma lo non si poteva dire. Io stesso sono stato querelato da uno dei capi di Casapound anche se per lui non è andata bene. Un’altra volta fece pervenire al giornale una lettera che con il pretesto di chiedere una rettifica, ci riempiva di insulti. L’ho conservata come un trofeo. Ho assistito all’obbrobrio di un garante dei detenuti che ha querelato un ergastolano perché in una intervista aveva denunciato la sua rete clientelare. Per fortuna poi è stato travolto da una nota indagine che ha colpito la Capitale per i suoi rapporti con uno degli inquisiti.

L’uso della querela come bavaglio

Il nostro giornale e io stesso venimmo querelati da Saviano. All’epoca ero in semilibertà e l’esposto denuncia scritto dal suo legale era una sequela di ingiurie, killer della penna o roba del genere. Nonostante per Saviano quell’esperienza sia finita molto male, con postumi anche personali come ho letto tempo fa in una intervista, la notizia della sua clamorosa sconfitta in tribunale, era la prima volta in assoluto (la prima di molte altre che poi arrivarono), fu censurata da tutta la stampa. «Non possiamo dare ragione a un ex brigatista e distruggere l’immagine di Saviano», fu la risposta. Eppure aveva torto marcio, si era inventato una storia assurda che coinvolgeva la madre di Peppino Impastato. Privo del coraggio di querelare gli amici e familiari del giovane militante comunista ucciso dalla mafia che l’avevano criticato, attaccò me in giudizio perché avevo riportato le loro dichiarazioni. Pensava che fossi l’obiettivo più fragile, facile da colpire. Chi mai avrebbe dato ragione a un ex brigatista, per giunta ancora in esecuzione pena? Per correre ai ripari, fuori tempo massimo, aveva cambiato persino versione aggravando la sua menzogna, anche se nessuno gliene ha mai chiesto conto. Nel mondo del mainstream funziona così: non si fanno domande scomode. Ebbene, nonostante il giudice mi dette ragione censurando duramente la querela, si allungò di un anno e mezzo la mia detenzione in semilibertà che poi era l’obiettivo ricercato da Saviano: mettermi il bavaglio facendomi richiudere in cella. Anche le associazioni vittimarie degli anni 70 utilizzano lo strumento della querela per intimidire ex esponenti di quella stagione politica o chi fra i pochi intellettuali di questo Paese ha ancora il coraggio di esprimere posizioni che divergono dalla narrazione dominate su quel periodo. Spesso questi attori, che oggi assumono posture vittimarie ma ieri denunciavano chi faceva lavoro di informazione, si autorappresentano come dei cavalieri solitari, Robin Hood che agitano temi d’interesse pubblico contro i poteri forti anche se appartengono essi stessi a gruppi editoriali-finanziari, fazioni di potere, magari solo temporaneamente all’opposizione. Una situazione che complica le cose e ci fa capire che dietro al più generale tema del sacrosanto diritto alla critica e libertà di parola si cela anche uno scontro tra fazioni politico-economico-editoriali e finanziarie, tutte interne all’establishment.

Non solo querele ma anche giornalismo temerario

Avrete capito che il tema delle querele temerarie è questione delicata e complessa che investe un principio di tutela generale e costituzionale della critica e della libertà di parola ma anche il modo in cui si fa giornalismo. Perché, è bene sottolinearlo, esiste anche un giornalismo «temerario», oggi molto di moda, che cancella diritti e rispetto della persona e in particolare dei soggetti più fragili, diffonde fake news e impiega fonti poco trasparenti. L’esempio più eclatante che si può fare riguarda Report, una trasmissione di approfondimento che troppo spesso diffonde inchieste realizzate grazie alla collusione con apparati informativi vicini a strutture d’intelligence. Una pericolosa vicinanza, se non sovrapposizione, che fa del giornalismo una semplice cassetta delle lettere di veline interessate, informazioni riservate, camuffate con falsi invii anonimi o testimoni travisati, che settori dell’apparato lasciano uscire per favorire o screditare un’area o un personaggio della politica, della finanza o dell’economia. Il giornalismo indipendente è un’altra cosa.

Una singolare richiesta

La storia che sto per raccontarvi riguarda proprio questo modo di concepire il lavoro giornalistico. In questi giorni ho ricevuto una singolare «richiesta di rettifica» da una collaboratrice del Fatto quotidiano. La signora ha intimato me e il direttore dell’Unità, Piero Sansonetti, con cui collaboro, di modificare un articolo apparso lo scorso 2 aprile (lo trovate qui), presente anche in Insorgenze.net.
Nelle sue doglianze l’autrice della lettera sembra imputarmi la colpa di non aver posseduto le doti divinatorie che mi avrebbero permesso di prevedere il futuro, per questo chiede la rettifica di una breve frase da me scritta tre mesi prima che fosse avvenuto l’episodio di cui avrei dovuto dare notizia e lo fa, per giunta, con sei mesi di ritardo.
L’articolo raccoglieva le smentite di due ex brigatisti alle affermazioni attribuitegli da una informativa dei carabinieri nel corso di una intercettazione, per altro illegittima come stabilito dal tribunale, riguardo la presenza di un «altro uomo» tra i brigatisti presenti in via Fani. L’informativa era stata riportata con rilievo sul Fatto quotidiano del 14 marzo dell’anno precedente dalla stessa giornalista, che oggi avanza le rimostranze, citando in extenso il presunto nuovo nome per ben otto volte. A conclusione del mio pezzo accennavo in una riga al fatto che la vicenda aveva suscitato uno strascico giudiziario. La persona imprudentemente tirata in ballo l’aveva, infatti, citata in giudizio, ecco il testo: «La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo». E’ poi successo che nel giugno successivo il tribunale civile di Genova, dove si è discussa la causa, ha ritenuto assenti gli estremi per un risarcimento del danno nei confronti del denunciante. Lo riferisce la sentenza che gentilmente la dogliante ha allegato insieme alla richiesta di rettifica.

Via Fani e l’invenzione dell’uomo in più

Facciamo un passo indietro per capire meglio i fatti: nella informativa citata, redatta nell’ambito della nuova inchiesta sui fatti della Spiotta avvenuti nel lontano 1975, appariva per una sola volta un nome nuovo tra i componenti della commando che aveva agito in via Fani, tale «Moroni», intercalato da ripetuti riferimenti a «Morucci» e «Matteo», che era il nome di battaglia di quest’ultimo, condannato nel processo Moro. Come spiegavo nell’articolo, si era trattato di un classico caso di misnaming. In una semplice postilla posta in fondo al testo, dunque nemmeno in una informativa a lui dedicata, i carabinieri – al contrario – ipotizzavano che accanto a quel cognome «Moroni» si potesse accostare il nome «Giorgio», mai pronunciato nella intercettazione.
Si trattava di una vecchia conoscenza dell’Arma, o meglio di una spina nel fianco, perché quel Giorgio Moroni fu oggetto di un clamoroso fallimento investigativo dei carabinieri di Dalla Chiesa che scambiarono dei militanti dell’Autonomia con gli introvabili membri della colonna genovese delle Br. Giorgio Moroni ottenne giustizia dopo una procedura di revisione che non solo lo vide assolto ma certificò le prove di una montatura orchestrata da elementi dei carabinieri e dei Servizi, per vantare un clamoroso successo investigativo. Per questa vicenda ottenne anche risarcimento per l’ingiusta detenzione subita.
Nonostante fosse stata edotta su queste circostanze, riferite in buona parte dai carabinieri nella postilla e da Giorgio Moroni stesso, in un colloquio tra i due, l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano, senza che ci fossero mai stati sviluppi investigativi di alcun tipo, aveva senza scrupolo alcuno messo in pasto all’opinione pubblica quel nome, riportato ben otto volte nel pezzo. Sarebbe bastato non citarlo, o riportare le semplici iniziali, dando in questo modo comunque conto del fatto di cronaca, ma troppo ghiotta era l’occasione di rilanciare a ridosso dell’anniversario di via Fani l’ennesimo mistero ancora irrisolto (perché inesistente) del sequestro Moro: «gli interrogativi sulla identità e numero di persone che parteciparono al sequestro non hanno mai trovato una risposta definitiva», glissava la giornalista.

Il testo e il suo contesto

Messaggi temerari

Accanto al testo esiste un contesto, che in questo caso è decisivo: riproporre la solita litania dietrologica, la narrazione complottista di fronte alla quale qualunque scorrettezza e temerarietà appare giustificata. Nella sentenza leggiamo che lo stesso giudice conviene sulla «verosimile assoluta infondatezza delle parole pronunciate dall’Azzolini», oltre a dirsi «consapevole della sofferenza e comprensibile doglianza dell’attore (Giorgio Moroni ndr) per l’ennesimo coinvolgimento in vicende alle quali risulta essere del tutto estraneo, oggi come in passato». Il giudice riconosce dunque la legittimità in astratto della doglianza ma ritiene che questa «non costituisce elemento di contestazione nei confronti della giornalista», che si sarebbe limitata a riferire con «atteggiamento di scrittura assolutamente neutro» i contenuti di una informativa dei carabinieri. Semmai – suggerisce – questa andava rivolta all’indirizzo degli inquirenti. Un’affermazione quantomai inopportuna poiché è di fatto impossibile attaccare l’attività investigativa, dimostrandone dolo o colpa, salvo detenere il potere politico-amministrativo per esercitare una censura nei confronti di chi ha stilato la postilla contenuta nella informativa.
Una sentenza ampiamente autocontradditoria poiché «i canoni di verità, continenza e pertinenza» richiamati sono smentiti da alcune affermazioni presenti nella nota difensiva della giornalista, dove si affermava – riporta la sentenza – che Autonomia operaia, gruppo al quale aveva appartenuto Giorgio Moroni, era «ritenuta all’epoca la faccia della stessa medaglia delle Brigate rosse». Affermazione storicamente inesatta e pregiudizievole. Insomma se un antico detto riferisce che esiste un giudice a Berlino, a Genova a quanto pare non se ne è trovata traccia.

Quale giornalismo?
Ma quel che ai nostri occhi appare più disdicevole nelle motivazioni della sentenza è la concezione del lavoro giornalistico proposto, inteso come semplice megafono, stampella di informative provenienti dalle attività di indagine, tanto più se verosimilmente infondate, magari di verbali di collaboratori di giustizia che parlano di fatti riportati de relato, spesso antecedenti la loro stessa nascita. Come se il giornalista sia sprovvisto di autonome capacità di discernimento, privo di una propria sfera critica di valutazione che gli consenta di capire se ha davanti una falsa notizia, una informazione priva di riscontri o che necessita di ulteriori verifiche e approfondimenti. Ricordiamo che l’informativa dei carabinieri, fatta pervenire da mani amiche al Fatto quotidiano, venne pubblicata prima del rinvio a giudizio e dell’apertura del processo con il deposito completo e pubblico degli atti di indagine. Dunque prima ancora che i giornalisti e studiosi potessero ascoltare autonomamente il sonoro delle intercettazioni e capire se quella nota fosse stata presa in considerazione dalla procura. Una avventatezza che contrasta col noto decalogo del giornalista, riportato in una famosa sentenza di cassazione dell’ottobre 1984 (la potete trovare qui).

La nota di Stampa romana

Come se già non bastasse questa vicenda si è conclusa, lo abbiamo appreso solo durante la redazione di questo testo, con un comunicato dell’associazione Stampa romana che censurava l’azione giudiziaria «intentata da un ex militante dell’eversione», lamentando la necessità di una legge che tutelasse i giornalisti vittime di citazioni in giudizio temerarie (potete leggerla qui). Che Giorgio Moroni sia stato un ex militante è un fatto noto, da lui mai smentito e persino storicizzato in un volume sulla storia dell’Autonomia operaia a Genova; che sia stato un membro «dell’eversione» non sta scritto, invece, in nessuna sentenza poiché, oltre ad essere stato assolto e risarcito, risulta anche incensurato. L’affermazione dell’organo sindacale è dunque incredibilmente diffamatoria nei confronti di un libero cittadino che ha agito legittimamente a tutela dei propri interessi, come riconosciuto anche nella sentenza.
Ci auguriamo che quanto prima Stampa romana presenti le sue scuse a Giorgio Moroni mentre attendiamo che il Fatto quotidiano, e la giornalista che ha avanzato le sue rimostranze, colmi il debito di informazione che ha contratto con i suoi lettori, informandoli finalmente della smentita pronunciata dai due ex brigatisti sul presunto «uomo in più» presente in via Fani. Oltre a essere un atto dovuto, darebbe prova di onestà intellettuale!

Storia di Giorgio Napolitano, riformista, crociano, liberista, prima filosovietico e poi atlantista

La vita politica di Giorgio Napolitano riassume ed estremizza tutti gli aspetti più negativi che hanno caratterizzato la formazione culturale del gruppo dirigente del Pci del dopoguerra.
Origini alto borghesi addirittura con quarti di nobiltà. Il padre, un avvocato liberale e poeta; la madre, Carolina Bobbio, figlia di nobili piemontesi trapiantati a Napoli. Circostanza che ha alimentato negli anni voci mai confermate su presunti legami di sangue con la famiglia Savoia che avrebbero investito la reale paternità del piccolo Giorgio.
Formazione culturale crociana, studi di giurisprudenza con una laurea in economia politica e una tesi sul mancato sviluppo economico del Meridione. Militanza giovanile nei Guf, i gruppi universitari fascisti. Insomma il classico cursus honorem di un giovane rampollo della buona borghesia partenopea che ha vissuto la sua prima gioventù sotto il regime fascista senza particolari tormenti. Nel 1945 entra a far parte del Partito comunista in una Napoli già insorta e occupata dalle truppe angloamericane. L’alto livello culturale gli apre subito la strada nel gruppo dirigente locale: nel 1947 viene inviato a guidare la federazione di Caserta per farsi le ossa prima di diventare deputato nel 1953 e restarlo ininterrottamente fino al 1996, per poi passare al parlamento europeo, essere nominato senatore a vita nel 2005 e assumere per due volte la carica di Presidente della repubblica dal 2006 fino alle dimissioni del maggio 2015. E’ stato anche Presidente della camera e ministro dell’Interno del primo governo Prodi dal 1996 al 1998.

Riformista, crociano e liberista
Lo stile felpato, l’atteggiamento prudente, il linguaggio forbito, il perfetto controllo della lingua inglese, lo hanno reso da subito un cavallo di razza non solo nel Pci ma nella scena politica italiana. Moderato politicamente è cresciuto all’ombra della scuola politica di Giorgio Amendola incarnando le tradizionali linee guida della destra del partito: un iniziale filosovietismo in politica estera sfumato dopo i fatti di Praga del 1968. Nel 1956 appoggiò la repressione sovietica in Ungheria e pronunciò il discorso di espulsione dal partito del dissidente Antonio Giolitti a cui chiese scusa, omaggiandolo, una volta salito al Quirinale; grande attenzione in politica interna per i ceti produttivi, i circoli finanziari, la grande borghesia e le ricette economiche liberali. Quando fu responsabile economico del Pci negli anni dell’austerità berlingueriana predicava i sacrifici per la classe operaia come soluzione alla crisi economica. Nemico feroce della sinistra interna che sconfisse nell’XI congresso del 1966, detestava l’operaismo politico ritenuto una forma di estremismo che rasentava il sovversivismo. I tratti liberali della sua formazione culturale lo resero allergico al giustizialismo, anche se questo non gli impedì di essere un feroce sostenitore dell’emergenza giudiziaria antisovversiva. Da capogruppo dei deputati del Pci nel 1994 lanciò la stagione della dietrologia con una mozione parlamentare divenuta il manifesto del complottismo sul sequestro Moro, atteggiamento che rinforzò negli anni della sua permanenza al Quirinale quando inaugurò la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il 9 maggio 2008, con un discorso che avviava la stagione della vittimocrazia, attribuendo ad associazioni vittimarie accreditate l’amministrazione della memoria pubblica del decennio 70 e decretando il bavaglio per gli ex militanti, prigionieri ed ex prigionieri della sinistra armata e sovversiva dell’epoca.

Il battesimo negli Usa
Il punto di svolta della carriera politica di Napolitano risale tuttavia ai giorni del sequestro Moro, al mese di aprile del 1978 quando fu autorizzato a tenere un ciclo di conferenze in alcune università degli Stati Uniti, incontrare circoli politici, culturali e finanziari americani. Primo dirigente comunista occidentale autorizzato ad entrare negli Usa in quanto tale e non in una delegazione parlamentare, come era già avvenuto per altri prima di lui.
Il retroscena di quel viaggio che potete leggere di seguito (qui) fu lungo ed elaborato con un visto rifiutato tre anni prima. Quella missione ebbe una importanza decisiva nella successiva carriera politica del futuro capo della corrente «migliorista» del Pci. Napolitano, che bruciò sul tempo Berlinguer, anche lui invitato negli Usa al pari Carrillo (leggi qui), il segretario del Partito comunista spagnolo, per spiegare cos’era l’eurocomunismo, ebbe il compito di chiarire all’establishment statunitense cosa era diventato il Pci, cosa avrebbe fatto in caso di vittoria elettorale, tranquillizando investitori e politici nordamericani sulla fedeltà atlantica dei comunisti italiani e sulla tutela delle libertà economiche e della proprietà privata, ricevendo il placet Usa sulla linea della fermezza da tenere durante il sequestro del leader della Dc Moro da parte delle Brigate rosse.

La doppiezza culturale di Napolitano
Nel corso del viaggio emerse con forza tutta la doppiezza politica di Napolitano e del gruppo dirigente del Pci: la doppia morale e il doppio linguaggio. Napolitano incontrò in gran segreto Gianni Agnelli nella sua casa di Parck Avenue a New York. L’episodio, omesso dal resoconto apparso su Rinascita al suo ritorno, fu ignorato anche dal corrispondente dell’Unità Jacoviello. Elettori e militanti del Pci non dovevano saperlo. Napolitano rivelò la circostanza, che diede il via a una consuetudine tra i due, solo nel 2003 alla morte di Agnelli. Il viaggio negli Usa aprì al futuro presidente della Repubblica l’ingresso in circoli molto riservati, salotti dove esponenti politici, statisti e uomini della finanza più influenti, i decisori del mondo, si incontravano e discutevano. Dopo il viaggio negli Usa per Napilitano si aprirono anche le porte dell’ambasciata Usa per incontri riservati, tenuti anche con Pajetta, e il cui contenuto sia l’ambasciatore dell’epoca Gardner che lo stesso Napolitano riferivano unicamente di persona ai loro rispettivi superiori: il capo del Dipartimento di Stato e il presidente Usa per Gardenr, il segretario del Pci Berlinguer per Napolitano.
Se c’è un aspetto che riassume la storia politica di Giorgio Napolitano è questo elitismo, questa visione oligarchica, inside, di una politica per soli eletti di cui ha dato mostra con i governi tecnici e gli incarichi attribuiti a grandi comis di Stato e della finanza. Visione antica, liberale, predemocratica nella quale Napolitano si trovava a suo agio.

Ma gli anni 70 non furono solo di piombo

Il dibattito – «E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico?», si chiede la filosofa Donatella Di Cesare. Una domanda che centra il vero cuore del problema. Si può ridurre il conflitto sviluppatosi negli anni 70 ad una aggressione realizzata da parte di un gruppo di privati cittadini, i carnefici, contro altri privati cittadini, le vittime? Come se il conflitto di quel decennio – distinguendosi da tutti i precedenti storici – abbia investitito la sfera privata e non quella pubblica. Una operazione di depoliticizzazione possibile anche perché la sfera politica si è indebolta, in modo particolare i rappresentatnti di quelle forze che furono protagoniste nello scontro dell’epoca e vennero spazzate via poco dopo dalla tempesta giustizialista di mani pulite. In questo modo lo Stato e le gerarchie economiche evaporano dietro la figura strumentalizzata della vittima

Donatella Di Cesare, La Stampa 6 maggio 2021

Difronte al dolore delle vittime, alla loro angoscia profonda, alla faticosa elaborazione del lutto, non si può fare altro che tacere prestando ascolto alle loro parole. E’ quello che è avvenuto a molti, anzi moltissimi, leggendo il dialogo tra Gemma Calabresi, vedova del commissario ucciso, e il figlio Mario, pubblicato qualche giorno dopo gli arresti in Francia. Impossibile non provare solo compassione, nel senso più alto di questa parola, ma anche rispetto per la grande dignità che affiora tra le righe. Ecco perché quell’intervista inconsueta, quello scambio privato e familiare che si fa giustamente pubblico, dato che contiene una parte di storia comune, è sembrata un punto fermo. Non sono mancate voci politiche che l’hanno considerata tale, invitando tutti a «leggere e rileggere» una pagina così significativa. Intervenire dopo – nonostante quell’intervista – è perciò molto difficile.
Si può farlo solo superando dubbi ed esitazioni. Sembra tuttavia necessario farlo, e per diversi aspetti. Anzitutto il dibattito pubblico, se deve essere tale, non può chiudersi, neppure temporaneamente, e deve proseguire.
Uno dei grandi problemi posti dalla testimonianza della vittima è proprio la possibilità che il peso incommensurabile delle sue parole finisca per interdire ogni domanda, per frenare o trattenere ogni questione. L’effetto di questa immensa legittimità no sarebbe però conciliabile con la democrazia che è discussione aperta e matte, anzi richiede, posizioni discordanti.
Ma c’è di più. La testimonianza in prima persona di chi ha subito un trauma personale, che si intreccia con quello dell’intero Paese, rischia di far saltare i limiti tra sfera privata e sfera pubblica, tra sfera giuridica e sfera politica. Soprattutto l’emozione finisce per prevalere. Ciò è merso chiaramente non solo negli interventi sulla stampa, ma anche in particolare nei programmi radiofonici e nei talk show televisivi. Sennonché l’emozione, oltre a squilibrare il dibattito, lo depoliticizza.
Credo che proprio questo sia avvenuto negli ultimi giorni. La carica emotiva ha prevalso – a parte qualche voce dissonante, limitata, però, alla questione giuridica e al diritto negato. C’è da chiedersi, dunque se sia questo il modo per affrontare il capitolo forse più complesso e impegnativo di questa repubblica. E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico? Anche certo toni complottistici, il rinvio a una misteriosa verità su cui tutto si incentrerebbe, non aiutano. Certo, ci sono sempre «verità mancanti». Ma nel frattempo è lecito chiedersi quando finalmente sarà possibile affrontare con razionalità e pacatezza, soprattutto con un’analisi politica, quel che è avvenuto negli anni Settanta.
Ho sempre avuto molte difficoltà con l’etichetta «anni di piombo», così riduttiva e, a suo modo, così sbrigativa. E il femminismo? I diritti civili? L’internazionalismo? E tutte le grandi lotte di quell’epoca? Per me che l’ho vissuta in prima persona, come per molti della mia generazione – quella di quanti avevano allora vent’anni (non i sessantottini!) – è impossibile riconoscersi in quella definizione plumbea e lapidaria. E ci si sente inevitabilmente estraniati, lontani dalla narrazione che prevale. Le cose non tornano. C’è stata in Italia, a sinistra, una grande rivolta – la più importante e diffusa nel contesto occidentale del dopoguerra – che proseguiva quella del ’68, ma che era anche molto diversa, sotto ogni aspetto più radicale. In alcune aree ha assunto la forma di lotta armata. Condannare la violenza è necessario. Ma chiediamoci perché è avvenuta la rivolta degli anni Settanta, quella «breccia» su cui già da tempo il pensiero filosofico riflette. E interroghiamoci sugli effetti che durano ancor oggi e sono evidenti. Ad esempio in alcune metamorfosi della sinistra di governo che, condannando in toto quel movimento, si è privata anche di idee e prospettive che forse potrebbero oggi essere decisive. Sono convinta che, a differenza di quel che si dice, i giovani siano molto interessati e lo dimostrano in più occasioni.
Con arresti postumi nonni sanano le ferite. Anzi, si riaprono nella forma peggiore. Intorno a questa storia recente l’Italia non ha ancora costruito una comunità interpretativa che, pur nel rispetto delle differenze, è invece indispensabile.

Foibe, le vittime forti cancellano quelle deboli

Con la proclamazione della giornate in ricordo delle foibe e delle vittime del terrorismo il conflitto tra storia e memoria ha raggiunto un punto estremo. Il sopravanzare della seconda sulla prima, la costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, ha visto emergere una nuova figura di testimone, fuoriuscita dal processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario

Quel sorriso che li seppellirà

DoinaDopo nove anni passati all’interno di uno spazio recluso fatto di cemento e acciaio un corpo che torna ad avere dei momenti di libertà risente emozioni intense. Poter nuovamente camminare a piedi nudi sull’erba, sentire sulla propria pelle le carezze della sabbia, guardare l’orizzonte fino a quella linea che si confonde con il cielo, sentire la brezza del vento che arriva dal mare, provoca una gioia profonda, brividi e commozione. E lì che ti accorgi che le cose più belle sono quelle più semplici, come il contatto diretto con gli elementi della natura. C’era questa gioia nel sorriso di Doina Matei ritratto nella foto che gli è stata rubata sul suo profilo facebook. Un momento di felicità che è proprio della nostra specie vivente: qualsiasi essere umano avrebbe sorriso dopo anni di cattività. Lo fanno tutti gli altri mammiferi: avete mai visto immagini di animali rimessi in libertà dopo anni di prigionia in recinti o stalle? Corrono e giocano scalciando in preda ad una euforia incontenibile. Questa qualità della nostra specie è stata rimproverata a Doina Matei. La sua colpa? Essersi dimostrata umana sorridendo di fronte al mare. Chi lo ha fatto evidentemente umano non è, ma non può essere nemmeno considerato una bestia, anche loro avrebbero gioito. E poiché anche il modo vegetale reagisce agli elementi della natura, a questi moralisti da strapazzo non resta altro che condividere la coscienza minerale di un fossile.

La vicenda giudiziaria di Doina Matei è partita male fin dall’inizio. 16 anni di reclusione per un omicidio preterintenzionale è una sanzione abnorme, pari al doppio di quelle più alte comminante per questo tipo di reato. Pene del genere vengono attribuite per omicidi volontari le cui circostanze portano i giudici ad applicare solo il minimo della sanzione prevista con il riconoscimento delle attenuanti o il ricorso al rito abbreviato. A Doina invece sono state applicate solo aggravanti in un contesto di allarme politico, dove il tema della immigrazione veniva sovrapposto a quello della sicurezza urbana avviando le prime campagne d’odio razzista. L’episodio tragico e banale al tempo stesso scaturisce da un litigio dentro un vagone della metropolitana a causa della calca. Una serie di spinte scatena un alterco con un’altra ragazza, Vanessa Russo, di poco più grande. Scrivono alcune cronache dell’epoca che sarebbe volato anche un sonoro ceffone, forse preso da Doina fisicamente più gracile, che reagisce con un gesto inconsulto. Quel giorno minacciava di piovere e la giovanissima rumena, già madre di due bambini e che viveva prostituendosi, aveva portato con sé l’ombrello: prima tragica fatalità. Doina lo impugna nella parte alta dell’asta e con un gesto dal basso verso l’alto raggiunge al volto l’altra ragazza. La punta dell’ombrello entra nell’occhio e va in profondità tranciando l’aorta. Vanessa morirà di emorragia. Doina, che era in compagnia di una sua amica minorenne, si allontana nella confusione della folla, probabilmente inconsapevole delle conseguenze mortali di quel colpo. D’altronde a riprovarci altre cento volte difficilmente sarebbe riuscita a raggiungere ancora quel punto. Il suo volto, rimasto impresso nelle telecamere interne della metro, permetterà agli inquirenti di rintracciarla ed arrestarla rapidamente.
Nonostante le circostanze che hanno portato alla morte di Vanessa Russo siano frutto di una maledetta catena sfortunata di eventi, Doina viene incriminata fin da subito per omicidio volontario. Alla fine il giudice riconosce la natura preterintenzionale dell’omicidio ma infligge una condanna molto pesante. Un compromesso che salva il processo dalla cassazione.
Che si tratti di un giudizio sommario nel quale Doina è stata inchiodata a recitare la parte del mostro, lo prova un altro episodio accaduto sempre a Roma tre anni più tardi: un giovane, stavolta romano, dopo un litigio ai tornelli all’interno della metropolitana di Anagnina colpisce con un pugno una infermiera di nazionalità rumena, Maricica Hahaianu, madre di un bambino. Dopo un coma di una settimana la donna muore. Nonostante il ragazzo abbia tentato immediatamente la fuga (verrà bloccato da un testimone) si vedrà riconoscere le attenuanti generiche (era incensurato) ed una condanna sostanziosa ad 8 anni. Dopo averne scontati 4, e maturati 5 per la buona condotta, rientra legittimamente nei termini di legge per l’affidamento in prova che ottiene senza suscitare polemiche da parte dei moralisti a geometria variabile.
Una disparità di trattamento che trova spiegazione solo nella logica discriminatoria che ha subito Doina Matei, a causa delle sue origini e della sua condizione sociale di giovane sbandata.

C’è una ulteriore circostanza che è passata inosservata in questi giorni. Una volta diffusa la notizia sulla semilibertà ottenuta da Doina, dopo ben oltre la metà della pena (9 anni scontati ed 11 maturati con la buona condotta), qualcuno ha ossessivamente iniziato la caccia sul web per trovare tracce della giovane donna fino a rubare la foto postata sul suo profilo fb. Immagine poi finita su un quotidiano romano che ha scatenato la polemica. E’ lecito che una immagine privata sia stata rubata e pubblicata su un giornale? E le ingiurie e le minacce ricevute da Doina sulla sua bacheca non sono un reato come prescrive il codice penale? Non solo Doina non è stata tutelata, come avrebbe avuto diritto, ma è stata penalizzata con la sospensione della semilibertà decisa da un giudice di sorveglianza che – sembra – gli ha rimproverato di frequentare i social network esponendosi mediaticamente. Divieto fino ad oggi inesistente nei trattamenti (una specie di contratto) che si firmano all’avvio della semilibertà. Alcune Direzioni carcerarie in passato vietavano o limitavano l’uso dei portatili per i semiliberi, fin quando gli è stato fatto notare che i cellulari sono vere e proprie spie elettroniche che permettono un controllo senza precedenti degli spostamenti e comportamenti del detenuto. Insomma il rimprovero del magistrato di sorveglianza non solo è privo di fondamento ma non ha tenuto conto del fatto che la parte lesa in questa vicenda e proprio Doina.
I famigliari di Vanessa Russo hanno invocato la pena di morte e protestato contro la foto che ritraeva Doina sorridente. Nessuno di noi può sapere come reagirebbe di fronte ad una scomparsa così tragica e insensata della propria figlia. Ma esiste una prova del nove: a parti rovesciate avrebbero invocato al pena di morte? Questo è il punto: la giustizia non è un fatto privato di una parte. Processo e esecuzione penale non possono essere lasciate in balia del vittimismo. Ma ancora una volta il peggio viene da chi cavalca dolore ed emozioni anche quando raggiungono dimensioni patologiche.
Il carcere non redime, indurisce ed inasprisce. Ma in taluni casi, quando a finirvi sono persone senza legame sociale, che vivono ai margini, può diventare paradossalmente una occasione. Parlo ovviamente di chi si trova a scontarlo in sezioni di media sicurezza, dove è permesso con maggiore facilità di incontrare operatori esterni, docenti, gente di cultura, teatro, persone ricche di esperienze che possono dare molto. Chi, tra i detenuti sa approfittare di questi incontri, che mai la vita precedente gli avrebbe procurato, può senza dubbio trarne profitto: acquisire fiducia, scoprire di avere potenzialità prima inespresse. Ogni esperienza anche negativa alla fine può essere maestra di vita.
Per questo mi auguro che Doina Matei non molli ma continui a sorridere. Quel suo sorriso ci serve contro i fautori dell’odio. Perché un giorno li seppellirà.

Critica del vittimismo /2

Seconda puntata – dopo aver affrontato (leggi qui) il conflitto tra storia e memoria, generato dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato (nonostante per definizione la memoria non può che essere singolare, parziale e soggettiva), fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente, il testo di oggi analizza questa nuova figura di vittima, una vittima particolare poiché l’accesso a questo status è selettivo. Non tutte le vittime sono vittime, non basta aver subito una sofferenza, un torto, un danno grave e irreparabile, per divenirlo. Lungo questo tragitto di selezione politica della figura della vittima, la vittima forte – spiega Giglioli – cancella quelle deboli. Ma c’è di più: questa postura vittimaria cela l’essenza del potere attuale che cerca in questo modo nuova linfa per trovare legittimazione. Attenzione, esiste anche un vittimismo dal basso che propone questo paradigma di pensiero come una nuova forma di contropotere che al posto della critica e della prassi radicale ha sostituito il risentimento. Una competizione che ricorda quella «concorrenza tra vittime» di cui scriveva Hannah Arendt, competizione che non salva ma genera solo nuove vittime

 

«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. […] Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica da occupare a tutti i costi. La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualunque potere».

pp. 9-10

Ulteriori letture sull’argomento
Critica del vittimismo/1
Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Il paradigma vittimario

Critica del vittimismo /1

Innauguriamo oggi una nuova rubrica dal nome L’intempestivo. Lo facciamo proponendo alcuni brani del libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo 2014. Ho letto questo testo appena uscito, nella primavera del 2014, tra un turno e l’altro d’ospedale, dove il piccolo Sirio era ricoverato. Da allora purtroppo non ho avuto modo di recensirlo come avrebbe meritato. Per quanto mi riguarda è il saggio più interessante che ho letto negli ultimi due anni. Si tratta della migliore sintesi di quanto ad oggi è stato scritto e pensato sull’emergenza del paradigma vittimario. Oggi voglio saldare quello che ritengo un debito di riconoscenza suggerendo alcuni dei suoi passaggi più significativi. Cominciamo dal conflitto storia/memoria, dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario
Pour une critique du paradigme victimaire

Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Strage di Brescia: la grande ingenuità di chi ha creduto che la magistratura potesse arrivare alla verità senza cambiamenti politici profondi nelle istituzioni coinvolte
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta

Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris

De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”

«Non tutti hanno il diritto di essere vittime. Non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo»

Al centro di tutto la “vittima meritevole”. Come l’uso politico della nozione di vittima ha trasformato l’azione penale e l’idea di giustizia

Paolo Persichetti
Gli Altri 17 maggio 2013

Per lungo tempo l’idea di giustizia corredava il tentativo di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi nel miglioramento delle condizioni di vita materiali e spirituali di ciascuno. Al concetto di giustizia si associavano l’idea di eguaglianza e fraternità (oggi diremmo anche sorellanza), di libero sviluppo dell’esistenza umana, oppure la salvezza. Insomma qualcosa che contribuiva al bene collettivo (tanto per stare al mutamento dei linguaggi, ora si pronuncia “bene comune”).
Oggi il concetto di giustizia non è semplicemente sovrapposto a quello di diritto, ma indica un diritto tutto particolare, il diritto di punire. Il desiderio di migliorare le sorti collettive è sopravanzato da una visione penitenziale del mondo che vede nell’azione penale, concepita come un paradiso incontaminato contrapposto alla realtà impura dell’agire politico, lo strumento per intervenire sulla realtà.
Questo nuovo senso comune, interamente immerso all’interno di una visione manichea del mondo che non offre scampo, o si è interamente vittime o totalmente colpevoli, ha proiettato la figura della vittima tra gli status sociali più ambiti, rendendola un’«autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino».
In una società dove sempre più viene meno ogni capacità inclusiva e prevalgono al suo posto dispositivi predatori, risultato della «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», le contraddizioni, i malesseri sociali, la fatica di vivere assumono l’aspetto di un viluppo confuso di sentimenti, di grumi di rancore che intrecciando la paura per l’avvenire e l’ossessione per il declino sociale accentuano i processi d’identificazione vittimistica.
Se c’è una vittima deve esserci per forza un carnefice, ciò preclude per definizione la possibilità che vi possa essere una comune condivisione vittimaria. Non potendo essere tutti vittime ecco che presto si apre la competizione. L’investitura legittimante offerta dallo status di vittima, infatti, resta caratterizzato da un accesso limitato e diseguale. Non tutti hanno il diritto di essere vittime e non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo.
La postura vittimaria – spiegano gli studi che si occupano del fenomeno – è riconosciuta unicamente sulla base di selezionati requisiti di ordine sociale, economico, politico, culturale ed etnico; criteri che variano secondo le latitudini. Per i gruppi sociali stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti, più della vittima in sé è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. La vittima forte non lascia scampo alla vittima debole. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tale, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo, un pantheon esclusivo.
Proiettata dall’ombra lunga d’Auschwitz, l’immagine della vittima trae la sua superiorità etica dalla figura dell’inerme, colui che è oggetto di un’aggressione totale di fronte ad una passività assoluta. Questa asimmetria originaria è tuttavia ben diversa dall’intricato groviglio di conflitti presenti nelle società attuali e che inevitabilmente rende spurio e controverso ciò che si tende a collocare tra le vittime odierne, difficili da districare nell’intreccio spesso simmetrico dei contrasti, delle tensioni e delle violenze.
Più che un giudizio di fatto, lo status di vittima è il risultato di un giudizio di valore talmente significativo, poiché fonte immediata di legittimazione politica, da essere divenuto esso stesso il luogo della disputa. Un terreno di battaglia innescato da quella «esaltazione narcisistica della sofferenza», di cui ha scritto Zigmunt Bauman in Modernità e olocausto, e che alla fine – come sosteneva Hannah Arendt – genera solo altre vittime, negando quel riconoscimento dell’altro che nel dispositivo agonistico del conflitto è il nemico, mentre in quello vittimario diventa l’assolutamente diabolico, il male universale, l’extraumano da bandire, colui che per definizione è fuori da ogni consesso civile.
Lungi dall’aver rafforzato il riconoscimento della dignità umana, la competizione vittimaria si è prestata ad una facile strumentalizzazione che è servita a rafforzare il potere dei Leviatani. Sul piano internazionale, grazie al pretesto dell’ingerenza umanitaria, il paradigma vittimario ha favorito il passaggio dall’etica guerriera alle guerre etiche, alimentando la grande ipocrisia della giustizia penale internazionale che ha permesso ai vincitori di processare i vinti. Come diceva Pascal, «non riuscendo a fare della ragione una forza, hanno fatto della forza l’unica ragione», abolendo ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza.
Sul piano interno, l’ideologia vittimaria ha accompagnato la deriva giustizialista e la controriforma del processo penale, trasformato da luogo di accertamento delle prove a teatro di una cerimonia catartica che dovendo offrire riparazione simbolica alla vittima anticipa anzitempo un giudizio senza scampo per il reo.
Infine, sul piano sociale passivizza i soggetti vittimizzati, amputandone l’interezza umana e la complessità politica e civile, così ridotta all’aspetto monodimensionale di chi esprime solo dolore e sofferenza e domanda una riparazione. Richiesta che non trovando l’appagamento promesso dal processo penale precipita spesso nella spirale del risentimento infinito.

Approfondimenti
Il paradigma vittimario

Sistema penale, ideologia vittimaria e mediazione penale al centro del nuovo diritto di punire

 

di Paolo Persichetti

 

Scrive il professor Franco Cordero nella sua procedura penale (Giuffrè 1991) che l’inquisito (cioè il presunto innocente fintanto che non subentra la condanna definitiva) rappresenta il cuore dell’inchiesta e del giudizio penale. La sua presenza corporea è l’oggetto fisico del processo. Egli è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, l’animale confessante poiché «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente: luoghi chiusi e tempo ciclico, soggetto a lunghe stasi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove». In tal caso il processo nient’altro è che anticipazione della colpevolezza, anteprima della sanzione realizzata attraverso la custodia cautelare e le molteplici forme d’invasività della sfera personale, come le intercettazioni, i sequestri, le pressioni e le intimidazioni.

La nuova prospettiva vittimocentrica
Questa visione, incarnata dal tradizionale diritto di punire, per la quale il reo è una proprietà esclusiva dello Stato, strappato alla vendetta privata per essere sottoposto alla «sofferenza legale», è messa oggi apertamente in discussione da una nuova prospettiva che sposta l’interesse dal reo alla vittima.
In un volume apparso alcuni anni fa, Marco Bouchard e Giovanni Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione (Bruno Mondadori, 2005), descrivevano l’apparizione di questo nuovo protagonismo vittimario come la rivendicazione di un’autenticità che l’espropriazione originaria della forza privata degli individui avrebbe sottratto al processo penale per conferirla a una burocrazia di ceti tecnici ed esperti statali, secondo quel processo di razionalizzazione burocratica della modernità già delineato da Max Weber, da cui è scaturito il divieto assoluto di farsi giustizia da soli.
Secondo questa interpretazione, l’entrata nell’astrazione della modernità giuridica avrebbe allontanato la procedura penale dall’esperienza della sofferenza, delle emozioni, dei sentimenti, delle affettività, fino a sancire un percorso di neutralizzazione e spersonalizzazione della vittima a vantaggio di un intangibile risarcimento dell’equilibrio sociale infranto dal delitto. L’emergere di questa nuova visione ha rinvigorito le teorie afflittive della pena da scontare nella sofferenza e nel rimorso, legittimando l’antico desiderio di vendetta insoddisfatto dall’intreccio retributivo-premialistico (più che riabilitativo) che caratterizza l’odierno sistema penale, oscurando la posizione di soggetto debole del reo nel sistema penal-penitenziario.
Un tentativo di risposta a questa tendenza è venuto dalle filosofie che ricercando la conciliazione e la riparazione hanno ispirato le diverse e confuse ricette promosse dal nuovo istituto sperimentale della mediazione penale. Una commissione ad hoc, che ha anche diffuso delle linee di indirizzo generali, è stata messa in piedi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Al centro di questa nuova filosofia penale vi è l’idea che occorre reintrodurre un rapporto diretto tra vittima e aggressore, aprendo la strada a nuove forme di riparazione dell’offesa che legano indissolubilmente l’aggressore al risarcimento non solo simbolico della vittima.

Un vittimismo del potere camuffato sotto spoglie private
Tuttavia questa innovazione non riscontra la piena unanimità: c’è chi osserva (Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni GruppoAbele 2011) come il riorientamento della criminologia verso la vittima offre «a una disciplina esausta, la possibilità di rivitalizzarsi e di conseguire legittimità politica». In fondo – osserva sempre Ruggiero – «Le vittime possono anche essere vittimizzate dalla vittimologia ufficiale. In altre parole, possono diventare vittime degli stereotipi che vengono loro imposti. Tra questi la loro presunta incapacità a difendersi, ma anche l’incapacità di definirsi “vittime”, in quanto è comunemente dall’esterno che viene conferito il relativo status». Riserve sono state avanzate anche dalla commissione ministeriale, lì dove si è osservato che l’atto di riparazione richiesto al reo, «imporrebbe alla vittima di essere “oggetto”» di gesti non richiesti o non graditi, per altro al solo vantaggio del reo, a causa degli attuali criteri utilizzati dalle magistrature di sorveglianza che premiano simili condotte, imponendo ai detenuti ipocriti gesti di contrizione esteriore privi di autenticità. «Configurando per la vittima – prosegue la nota della commissione – una ulteriore violenza subita (Giuffrida)», per altro a molti decenni di distanza dai fatti. (Circolare del 14 giugno 2005 – Prot. n. 3601/6051).

L’ideologia vittimaria al centro del nuovo diritto di punire
In questo modo, più che attore del nuovo dispositivo la vittima designata come tale – non tanto la vittima in sé quanto la vittima ritenuta “meritevole” – si ritrova ad essere un oggetto passivo, con un ruolo pienamente strumentalizzato dalla nuova strategia mimetica dello Stato, che facendosi schermo della sua icona martirizzata può dispiegare un nuovo paradossale diritto di punire che nulla c’entra con la giustizia ricostruttiva, evocata troppo spesso a sproposito per giustificare il nuovo istituto della mediazione penale.
Quest’ultima, infatti, dove è stata messa in atto seriamente, ha posto sullo steso piano vittima e aggressore ricercando soluzioni diverse dalla sanzione penale (un esempio viene dalla commissione verità e riconciliazione in Sud Africa) (1). La singolarità italiana sta invece nel voler ibridare giustizia retributiva e riparativa, quest’ultima solo accessoria e non sostitutiva della prima, anzi promulgata in modo da prolungarne gli effetti.
Agendo spesso come una condanna supplementare, priva della legittimità di una sentenza processuale, la giustizia riparativa erogata nel corso dell’esecuzione pena opera come un quarto grado di giudizio, sorta di processo permanente che accompagna l’intera detenzione. Non potendo più intervenire sul reato essa sposta la sua attenzione sulla personalità del reo moltiplicando all’infinito le misure d’interdizione e ostracismo che si abbattono come una rappresaglia sul suo corpo.

Riconciliazione, legalitarismo e giustizialismo
Le ambiguità di queste nuove filosofie riconciliative non finiscono qui: la pretesa di voler fare da battistrada ad un’idea di giustizia come processo relazionale offre un’idea d’emancipazione interamente soggiogata da culture che hanno introiettato il teatro giudiziario-penale come scena privilegiata della regolazione sociale, dimenticando ogni critica verso quelle logiche dell’inimicizia speculare, inevitabilmente contenute in tutte le derive vittimarie, che in passato altri autori hanno denunciato come una pericolosa «esaltazione narcisistica della sofferenza» e che avevano fatto scrivere alla Arendt: «le vittime mietono soltanto altre vittime», introducendo una competizione della sofferenza che mina ogni possibile soluzione o pausa nei conflitti.

note
1.
Il vescovo Desmond Tutu, per spiegare il funzionamento della “commissione verità e riconciliazione” da lui presieduta, ha evocato una nozione della cultura africana, l’ubuntu, ispirato ad una filosofia della giustizia di tipo ricostruttivo e non retributivo. Per fare spazio alla riconciliazione, la verità sulla violenza politica del passato è stata depenalizzata. Le corti penali di giustizia sono state esautorate a vantaggio di una commissione nazionale priva di poteri inquisitori, chiamata ad intervenire solo dopo la richiesta del candidato alla misura dell’oblio giudiziario. Ricostruita la dinamica dei fatti, accertata la responsabilità individuale, veniva concesso l’oblio mentre le vittime ottenevano un risarcimento materiale dallo Stato. Una regola valida per tutte le parti implicate nel conflitto, dai membri del regime segregazionista ai suoi oppositori armati. Chi rinunciava alla commissione, se ritenuto autore di fatti illegali, era passibile di un processo di fronte alla giustizia penale ordinaria senza possibilità d’ottenere in caso di condanna nessuna clemenza.

 


Link utili

Paradigma vittimario
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario
Paradigma vittimario e giustizia internazionale
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Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

La logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Un intervento di Vincenzo Guagliardo sui presupposti della nuova filosofia penale: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie mentre  il premio interviene  in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede

Vincenzo Guagliardo
settembre 2011


Il fallimento del sistema penale è sempre più evidente, ma al tempo si assiste all’impazzimento delle società in cui esso vive, nel senso che si ricorre all’esasperazione penalista per rimediare alla crisi che quella stessa esasperazione aveva già creato negli anni Ottanta. E, del resto, si può aggiungere che anche di fronte alla crisi economica si osserva la stessa cosa: i governi aiutano per esempio le banche che hanno creato il danno per… rimediarvi.

In Italia sono rimasti scandalosamente (e silenziosamente) in piedi i manicomi giudiziari, avendo la legge Basaglia del 1978 abolito solo i manicomi civili, e il numero dei pazzi reclusi persiste tranquillamente (1348 nel 2007, 1550 nel 2011). Ma anche gli ergastoli aumentano (1500 circa), insieme al numero dei detenuti in generale (68.000). Ma, ancora, con una novità: l’ergastolo “ostativo”, in base al quale molti ergastolani sono ormai esclusi da ogni beneficio penitenziario a priori e perciò condannati a morire in carcere detto “duro”, dopo lunga espiazione. A meno che… non ci si “penta”, non ci si trasformi cioè in delatori se si ha ancora qualcosa e qualcuno da vendere. Per tutti infine, l’ottenimento della libertà condizionale (o l’affidamento ai servizi sociali) viene subordinato a una richiesta di perdono del reo da rivolgere ai parenti delle vittime. È una prassi stabilita dai magistrati, non richiesta da alcuna legge, in cui è come se i giudici abdicassero al loro ruolo per rimettersi ai parenti delle vittime quali nuovi esecutori della pena al posto dello Stato. Naturalmente, attraverso questi meccanismi e altri le carceri vivono il cosiddetto “sovraffollamento”, eufemismo dietro al quale gran parte del carcere è uno strumento di tortura vera e propria, l’inferno dei corpi.

L’ultimo esempio, umiliante sia per i rei che per le vittime, segna un chiaro regresso civile alla vendetta personale. È perciò evidente che all’inferno dell’anima contribuisce alla grande l’impulso che, in un simile contesto sovraffollato-torturante dei corpi, ha potuto trovare il dispositivo di lealizzazione delle coscienze già in parte descritto in questo libro: il premio in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede (“trattamento differenziato”).

Possiamo anzi dire che la nuova logica penale descritta in questo libro ha invaso la società ridefinendola in ciò che Frank Furedi* chiama la “società terapeutica”. In essa, non si è più dei cittadini, ma neanche dei semplici regrediti alla precedente condizione di sudditi; forse, piuttosto, verso qualcosa di peggio: dei “pazienti”, ovvero dei “malati”, fragili persone che si rimettono alle mani pietose di quei nuovi confessori-medici che sono i magistrati e il loro sempre più cospicuo e variegato seguito di “esperti” della mente e del controllo sociale. Ma, i pazienti nel nostro caso sono tali – non dimentichiamolo – perché vittime di qualcosa e, più precisamente, di qualcuno. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie sulla scia dell’esempio anglo-americano, è stato seguito con esemplare volontà avanguardista dall’Italia grazie al silenzio di verità o meglio alla straparlante esorcizzazione  posta sull’aspro conflitto sociale (anche armato), avvenuto nel paese negli anni Settanta. Il principio vittimario giuridifica progressivamente ogni aspetto delle relazioni sociali, fette sempre maggiori della vita quotidiana perdono la loro autonomia e si cercano e trovano capri espiatori per l’altare vittimario.

Ed è proprio la sinistra europea ufficiale, bisogna dire, e non solo la destra neo-liberista, ad aver dato un’enorme spinta a questa deriva rivendicativa e vittimista verso la rinuncia dello stesso concetto di autonomia personale oltre che delle antiche e autonome regole degli spazi conviviali. Nuove “sindromi” prese dal linguaggio medico presentano fatti fino a ieri lasciati all’autoregolazione sociale come denunce di nuovi reati per fissare nuovi diritti e, inevitabilmente, nuovi reati volti a indicare dei colpevoli da consegnare alla punizione. Si pensi a quante leggi si vogliono oggi far nascere su gravidanza, parto e trauma post-parto invece di farne l’oggetto di pubblica attenzione di una coscienza sociale. Sotto al trionfo del principio vittimario, la base gigantesca del rito di caccia al capro espiatorio si afferma come l’unica vera religione dell’inconscio collettivo nella sua più pura espressione. Mentre lo dico, mi fumo quasi una sigaretta senza per questo denunciare chi produce il tabacco. (Ma un medico mi ha detto che uno come me, in un paese civile come l’Inghilterra, giustamente non verrebbe più curato). Ma c’è già chi riflette sui danni provocati dal vino…

Tutte le tortuose tecniche della cinquecentesca Inquisizione romana ritornano a galla seppure camuffate da un nuovo linguaggio “tecnico” per non confessare che ri-esistono a pieno regime i vecchi “tribunali della coscienza” (A. Prosperi**).
Per fare, tra i tanti possibili, un esempio ancora tratto fa Furedi, non possiamo stupirci se in Inghilterra un detenuto rimase ad espiare la pena più di altri perché ostinatosi a non riconoscere di essere una vittima, di avere cioè subito violenza dai genitori quando era piccolo e che per questo da grande aveva compiuto reati. Fino a una trentina di anni fa un comportamento del genere avrebbe potuto essere considerato dignitoso dal senso comune, a prescindere ovviamente da ogni altro giudizio sugli atti di quella persona. Ma oggi, nel nuovo contesto, ogni educatore (o psicologo, o psichiatra, o assistente sociale, o direttore eccetera) aggiornato ma ancora umano, un po’ illuminato, aperto, gli dovrà dire in modo… un po’ cinico: “Tu sei troppo moralista, lasciati andare un po’, sii più realista”. E vi garantisco che questo piccolo paradosso della morale odierna è successo più volte. E già qui si è tentati a concludere che non viviamo più soltanto un carcere criminogeno (prima tesi d’ogni abolizionista), ma un intero sistema di vita, anzi, una nuova Weltanshauung.
Per questa via il giudizio si stacca dalla pena e si concentra sul bisogno di “sicurezza” degli ex cittadini-nuove vittime, si allontana dal reato per concentrarsi sulla presunta pericolosità del suo autore: lo straniero, l’arabo, il mafioso, il terrorista, il tossico eccetera, ai posti che furono dell’ebreo, dell’eretico e della strega. In Italia per questa via delle definizioni a priori e astraenti dei soggetti pericolosi, il razzismo è diventato da tempo politica ufficiale  delle istituzioni. Grazie a un governo di centrosinistra che, con una legge (la Turco-Napolitano) del 1998, costruì dei campi di concentramento per gli immigrati, chiamati eufemisticamente “Centri di permanenza temporanea” (CPT). L’eufemismo era anche un ossimoro: per giocare con le parole non sarebbe stato meglio chiamarli centri di temporaneità… permanente? Comunque sia il successivo governo di centro-destra di Berlusconi e dei razzisti della Lega Nord di Bossi fu meno ipocrita, confermò quella decisione e tolse almeno l’ambiguità linguistica spiegando quel che facevano concretamente questi campi: Centri di identificazione e espulsione (CIE). Campi di concentramento, insomma, grazie ai quali avendoti subito dichiarato clandestino appena entri nel paese, se ti becco ti espello, se non ti becco sarai un individuo ricattabile e ti faccio lavorare per una miseria finché mi va. E così i vari nuovi razzisti italiani si fanno una piccola fortuna con questi nuovi schiavi stranieri da affiancare ai nuovi servi inconsci ex cittadini nazionali alla ricerca dello status di vittime. Una prima conclusione si potrebbe così riassumere: il sistema vittimario-penale si inscrive come unica politica sociale riservata ai poveri che in vari modi vengono etichettati come pericolosi a priori, fino al punto di ricorrere al razzismo istituzionale dei CIE ex CPT.

Accanto a tutto ciò – non perdetevi nel labirinto della follia e ricordate quanto detto più sopra  – c’è varia gente in galera da oltre trent’anni: i capri espiatori, appunto, per dare l’esempio. Perché, come dicono i francesi, tout se tient, ogni cosa è legata all’altra. Ma credo pure che questo trionfo della pena, neo-inquisitoriale e  razzista, cominci a essere vagamente sentito e intuito fuori dalle carceri. Forse (: questa nota è piena di forse). Di recente (settembre 2011) in Italia, in una grande manifestazione sindacale si poteva leggere su uno striscione: “Ci volete servi, saremo ribelli” [corsivo mio]. In Spagna un movimento di precari e proletarizzati si dichiara indignado. Indignato è colui che si ritiene offeso nella sua dignità, che non vuole essere trattato da servo. Un tempo questa parola risultava generica e ambigua, era spesso usata a destra. Oggi può assumere un significato profondo, segnare – forse – un inizio epocale della non-collaborazione alla servitù volontaria.

Ma per capire meglio di cosa si tratta, è opportuno riparlare di quella piccola minoranza reclusa nei manicomi giudiziari. Lì, ci dice l’ipocrisia odierna, c’è un pazzo che, in quanto tale, non merita una pena; ma è necessario, per motivi di “sicurezza” tenerlo chiuso a data indefinita, di proroga  in proroga, appunto perché è pazzo. E così la sua pena indefinita (perché non è una pena) può diventare infinita perché sempre rinnovata come permanenza… temporanea. Mi sembra che tutta la giustizia penale aspiri ad allargare l’orizzonte in questo senso, oltre se stessa, verso questo inferno indicibile, come seconda faccia della medaglia del “siamo tutti vittime” della nuova servitù volontaria. Ripetiamoci: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Ma far stare in carcere o in manicomio o in un CIE per quel che si è invece che per quello che si fa, significa aver adottato il primo passo di una logica da lager.

Essere abolizionista è semplicemente essere convinti della irriformabilità del sistema penale. Non può essere estremista sul piano politico perché vuole fare tutto ciò che è possibile nel presente per avere meno carcere e tribunali di coscienza. L’abolizionismo è perciò estremista sul piano culturale perché per attuarsi deve richiedere un cambiamento di mentalità, una messa in discussione di sé stessi, uno sguardo diverso dalla miopia della servitù volontaria: a partire dal rifiuto dell’antichissimo rito del capro espiatorio su cui si fonda la nostra civiltà, che tutti ci acceca in un cammino suicida.
La speranza è tutto ciò che non si fonda sul calcolo, diceva lo storico olandese Huizinga (morto in un lager nazista), e i calcoli creano non pochi disastri e illusioni, ci dice la crisi attuale.

Note

* Frank Furedi, Therapeutic culture. Cultivating vulnerability in an uncertain age, 2004 [trad. it. Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005].
** Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009.

Link
Populismo penale
Il paradigma vittimario
Cronache carcerarie
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo