Ilva, a Taranto finisce la classe operaia del Sud

Dopo la battaglia sull’art 18 e contro il ricatto lavoro VS diritti ora si scopre che per gli operai del sud, dell’Ilva, il lavoro viene prima dei diritti. E stiamo parlando del diritto alla salute per loro, per le loro famiglie e per i loro figli

di Antonio Savino (ex operaio Fiat)
28 Luglio 2012

C’è un’importante industria nazionale che produce basandosi su un patto scellerato salute VS lavoro, e in questo modo macina utili da decenni. L’Ilva è lì da decenni, molto prima dei fatti della Fiat e dell’art.18, e di questa guerra tra poveri, di questo servaggio sono complici sindacati, partiti, Stato. Per mantenere degli operai in quelle condizioni, lo Stato spende moltissimi soldi per le cure di kemio-tumorali e assistenza, -senza contare i costi sociali-, e altrettanto ne spenderà (se ci saranno soldi) per un improbabile futuro disinquinamento. Anche questo “modello”, -come il debito pubblico- è un modo per scaricare sulle generazioni future la sopravvivenza del presente. Questo è il modello di “sviluppo” che si è andato a determinare da decenni a questa parte, sopratutto al Sud.
A Taranto finisce la sinistra!! .. Il sogno della sinistra. Dal capitalismo non ci si aspetta nulla di buono, ma dalla sinistra (tutta) di aspettative riposte ce ne sono state tante. E un minimo di progetto per “conciliare” capitale e lavoro, giovani e anziani, DOVEVA esserci! Almeno in questa fase, in attesta di piantare la tanto agognata economia alternativa! Invece solo chiacchiere e i famigerati “patti” sociali di partiti e sindacati, ufficiali o meno, che sono stati proposti in tutti questi anni e che invece hanno gestito solamente la decrescita di potere-salario-occupazione operaia e la loro emarginazione sociale.
Non ci resta che stabilire la data del funerale, la Fiat da un lato, Taranto e Siracusa dall’altro, fanno emerge la miseria totale della cultura politica-economica di sinistra (solo orientata alle alleanze politiche e alle campagne/progetti elettorali).
Perchè questo è l’epilogo della lunga quaresima della sinistra da tempo senza storia, e senza memoria.
Delle colpe vanno date anche “all’intellighenzia di sinistra”, ancellare, tutta orientata a fare mercato a vincere premi letterari, ai passaggi in TV, a raccontare il Re, e si è totalmente dimenticata di questa Italia profonda, di questa vandea operaia, dei sudditi del Sud.

Diffusione militante di #OccupyLiberazione, il giornale dei lavoratori di Liberazione che occupano la redazione dal 20 dicembre 2011

#OCCUPYLIBERAZIONE IN PIAZZA AL CORTEO DELLA FIOM
CON UN FOGLIO AUTOPRODOTTO

La prima pagina di #OccupyLiberazione

La storia di Eleftherotypia (Libertà di stampa) il giornale Greco autogestito da giornalisti e poligrafici, senza editore

Un foglio autoprodotto da distribuire gratuitamente a partire dalla manifestazione promossa dalla Fiom.
E’ l’ennesima iniziativa promossa da #OccupyLiberazione, l’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori di Liberazione, giornalisti e poligrafici, che occupa la redazione di viale del Policlinico dal 28 dicembre scorso, in difesa del quotidiano e dei posti di lavoro.

Il foglio (4 pagine a colori interamente autofinanziate), percorre con una serie di rapidi flash metodi ed esperienze di lotta al tempo della crisi globale.
I contributi sono anonimi, come quelli di Eleftherotypia (“Libertà di stampa”), il giornale greco resuscitato dal fallimento dall’autogestione dei lavoratori la cui storia è raccontata in quarta pagina. La filosofia di fondo è quella dell’informazione bene comune.

«La crisi prefabbricata da altri ci strangola. Ci vorrebbero ridurre al silenzio e all’obbedienza. Ma siamo in tante e tanti a ribellarci. A inventarci modi per resistere. Lotte che trasformano chi le fa e la realtà intorno. Così il più grande sindacato metalmeccanico, che i padroni vorrebbero espellere dalle fabbriche, si difende non chiudendosi a riccio, ma aprendosi. Proprio dalla sua capacità di connettersi nasce la prima grande manifestazione contro il governo dei sacrifici a senso unico e la sua maggioranza trasversale», scriviamo nell’articolo di apertura. «OccupyLiberazione non si arrende alla devastazione senza reale confronto di una comunità di lavoro, alla costruzione di teoremi impermeabili al mutare delle condizioni, alle persone spremute e poi buttate via.
Un giornale ha senso (e merita i soldi pubblici) se serve a lettrici e lettori.

Vogliamo continuate a leggere la realtà. Cambiarla e cambiare. Con voi. Collettivamente. In movimento».

Link
Occupy Liberazione
Liberazione sulle pagine di Left: i lavoratori del quotidiano di via del Policlinico 131 hanno detto “No”
Bonarchionne o Bonaccorsi? Chi è veramente l’imprenditore-direttore di Terra

La violenza del profitto: ma quali anni di piombo, gli anni 70 sono stati anni d’amianto

Eternit, una storia di profitto sanguinario e nocività sociale del capitalismo: 3 mila vittime sino ad ora accertate. Solo la punta dell’iceberg. 2200 decedute. 700 malati terminali. Oltre 5 mila le parti lese. La strage del capitalismo che obbliga a riscrivere la storia del dopoguerra

Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2009

L’amianto è stata la più aggressiva sostanza cancerogena del ‘900. Non hanno dubbi gli esperti quando si riferiscono a questo minerale a struttura fibrosa. In natura ne esistono circa una trentina, ricavati da particolari trattamenti cui vengono sottoposte alcune rocce madri presenti nel sottosuolo italiano. Le miniere europee più importanti si trovano, infatti, in Grecia e in Italia. Se respirate le polveri d’asbesto (altra denominazione chimica dell’amianto, dal greco amiantos: incorruttibile) possono provocare malattie irreversibili e tumori all’apparato respiratorio. A questa sostanza si devono oltre la metà dei tumori per cause di lavoro. Le conseguenze possono manifestarsi anche a distanza di 30-40 anni dalla esposizione. Soltanto oggi sta emergendo il numero reale dei lavoratori contaminati direttamente nelle manifatture e nei cantieri navali nel corso degli anni ’60 e ’70, o degli abitanti di zone limitrofe alle fabbriche che producevano questa sostanza. Messo fuori legge soltanto nel 1992, in Italia l’amianto è stato impiegato fino a tutti gli anni ’80 per produrre un composto miscelato al cemento, brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Haatschek, e denominato commercialmente Eternit, dal latino aeternitas. Utilizzato per coibentare edifici, tetti, navi, treni, impiegato nell’edilizia e come componente ignifuga in tute, vernici, parti meccaniche delle auto e altro, l’Eternit è ancora oggi presente. Oltre ad aver contaminato l’ambiente ha devastato la vita dei lavoratori delle quattro aziende italiane in cui era prodotto: Casale Monferrato e Cavagnolo in Piemonte; Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli. Attorno alla ex Saca di Cavagnolo, l’erba ancora oggi appare striata di bianco. Il «disastro doloso» dell’Eternit non si è per nulla prescritto.
Una imponente pubblicistica ci ha abituato definire quell’epoca «anni di piombo», in ragione dello scontro sociale giunto fino alle armi che traversò le strade e le piazze italiane. In realtà molto più cupi e drammatici furono gli effetti degli anni d’amianto. Emblema della nocività sul lavoro, della cinica logica del profitto che muove (come accadde con la diossina fuoriuscita a Seveso e ancora oggi con la Thyssenkrupp) chi sta ai vertici delle aziende, e già allora «sapeva ed era consapevole dei rischi. Ma non ha mai fatto niente, non ha mai speso nulla per evitare gli incidenti e le stragi» (parole del procuratore Raffaele Guariniello). Nella sola zona di Alessandria si parla di almeno 1600 morti. In realtà la cifra complessiva fino ad ora accertata su tutti i siti interessati raggiunge quasi 2200 decessi, a cui devono aggiungersi 700 malati terminali. Nel processo ai vertici degli stabilimenti, il miliardario svizzero Stephan Schmideiny, 61 anni, titolare dell’azienda dal ’73 all’86, che oggi sostiene di essersi convertito nell’ambientalismo, e il barone belga Louis de Cartier de Marchienne, 88 anni, le parti lese citate nei capi d’accusa (inosservanza volontaria delle norme di sicurezza sul lavoro e disastro ambientale) sono quasi 2900, ma potrebbero arrivare fino a 5700. 700 le parti civili già costituite. Il dibattimento ha preso avvio ieri a Torino davanti a  delegazioni d’avvocati (almeno 150 tra titolari e collaboratori) e 110 giornalisti accreditati provenienti da mezza Europa, associazioni, sindacati, ed enti. Per accogliere l’enorme numero di partecipanti sono state messe a disposizione diverse maxi aule collegate tra loro in video conferenza. Al vaglio della udienza essenzialmente questioni tecniche e preliminari, come la dichiarazione di contumacia degli imputati, o l’esame delle parti civili. Anche se assente in aula, il magnate della Eternit, Stephan Schmideiny, è difeso da una squadra di 26 legali: il professor Astolfo Di Amato del foro di Roma e il milanese Guido Carlo Alleva in aula, tutti gli altri nelle retrovie. L’offerta di risarcimento avanzata in precedenza è stata rifiutata dalle parti lese. Il risarcimento riguardava soltanto una parte di queste: chi tra gli ex dipendenti (60 mila euro a testa), e i cittadini di Casale Monferrato (30 mila a testa), avesse contratto un’invalidità permanente superiore al 30%, derivante da asbestosi, escludendo con ciò altre patologie broncopolmonari derivate sempre da contaminazione con amianto.
All’esterno del tribunale sono confluiti i partecipanti al corteo indetto dalla Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, mobilitati anche per la concomitanza con il secondo anniversario del rogo della Thyssenkrupp. Presenti delegazioni di lavoratori della Eternit di Svizzera, Francia e Belgio. Su uno striscione dei minatori francesi si poteva leggere, «Un solo essere umano vale più di tutto l’amianto e il profitto del mondo».

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Luciano Gallino: «Povertà, dai dati Istat l’indebitamento invisibile dei lavoratori»

L’intervista – Luciano Gallino, sociologo, analizza il rappoto Istat sullo stato della povertà in Italia nel 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 20 luglio 2011


«C’è un aspetto che non è stato rilevato nei tanti commenti seguiti dal rapporto Istat sulla situazione della povertà in Italia nel corso del 2010. Molti ne hanno parlato come se si trattasse di una misurazione dei redditi. In realtà ad essere presa in esame era la spesa al consumo. La differenza non è da poco poiché le spese per i consumi si possono fare anche contraendo debiti con le carte di credito oppure attraverso canali informali, come amici e parenti o peggio attraverso l’usura. Un dato, quest’ultimo, che può mascherare gli eventuali effetti della crisi». Secondo Luciano Gallino, i dati resi pubblici dall’Istat lasciano appena affiorare la punta di quell’invisibilità che copre la realtà della povertà.

Professore sembra di capire che qualcosa non la convince?
No, non ho detto questo. La metodologia di ricerca utilizzata dall’Istat ci dice che i livelli complessivi di povertà, sia relativa che assoluta, sono praticamente fermi da 4 anni. Salvo mutamenti interni che vedono un aumento della povertà nelle famiglie che hanno a capo un operaio (più del 15%), cioè il doppio rispetto a quelle che hanno lavoratori autonomi (più 7,8%). Ovviamente il divario aumenta ancora quando siamo in presenza di imprenditori. Questa è una novità importante rispetto alla singolare stabilità dei dati complessivi.

Si tratta del fenomeno che passa sotto il nome di working poor (il lavoro che rende poveri).
Certo, ma non ci dice tutto. Bisogna capire come fanno famiglie che vivono con un livello di reddito pari alla cassa integrazione a mantenere una spesa che, seppure resta nei parametri indicati per definire la povertà, riesce ad essere superiore ai 750 euro mensili. Evidentemente lì si nasconde la contrazione di un indebitamento invisibile.

L’indebitamento è anche uno degli indicatori del declino che sta investendo il ceto medio. C’è chi parla in proposito di una crisi del modello di società fondata sull’iperconsumo.
Il fenomeno non nasce oggi, ma un conto è contrarre debiti mantenendo pur sempre un livello di vita accettabile, come accade al ceto medio; altro è contrarre debiti dovendo contare solo sulla cassa integrazione, inferiore del 30% al salario medio. Voglio dire che esistono altri aspetti nascosti della crisi che non sono stati rilevati da questa indagine, come il fenomeno dell’indebitamento minuto. Una famiglia che ha a capo un operaio o assimilato difficilmente può contare sulla carta di credito, deve ricorrere ad altre forme: parentali, amicali, alle microfinanziarie o addirittura illegali. Siamo di fronte ad un sistema che non è in grado combattere la povertà o non gliene importa nulla, perché la povertà ha un aspetto singolare: è invisibile. E’ nascosta in certi quartieri, in certi tipi d’abitazione, non si vede per le strade dei centri storici, si trova in certi comuni piuttosto che in altri. L’invisibilità porta a sottovalutare il fenomeno ed alla fine a credere che non esiste.

Il rapporto Istat esaminava unicamente le famiglie residenti.
Appunto. In Italia abbiamo quasi 3 milioni d’immigrati. Fino a che punto è stato esaminato questo dato? L’invisibilità vale per i gruppi etnici che non hanno potere, non contano nulla, non hanno cittadinanza. In molti Paesi la povertà si distribuisce secondo i gruppi etnici. Negli Stati uniti tocca in misura minore i bianchi, aumenta tra ispanici e asiatici, diventa enorme tra i neri. Oltre il 57% dei minori sotto i 14 anni vive in famiglie sotto la soglia delle povertà.

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Scheda: Istat, Italia un paese da mile euro al mese, per due
Lavorare stanca e rende poveri

Lavorare stanca… e rende poveri

Rappoto Istat sullo stato della povertà in Italia nel 2010. Il commento di Marco Revelli

Paolo Persichetti
Liberazione
17 luglio 2011

Foto Baruda. Assalto alla Pirelli Re - società di speculazione immobiliare

«Ha ragione la Caritas quando dice che il rapporto sulla povertà appena pubblicato dall’Istat offre un’immagine ancora troppo ottimistica dell’Italia perché sottostima la situazione reale del disagio sociale». Marco Revelli sostiene che la situazione è ancora peggiore di quella descritta dall’istituto di ricerche statistiche e parla della presenza di uno specifico «modello di povertà italiano».

Quali sono le sue caratteristiche?

Ci sono delle particolarità che ci fanno essere tra i fanalini di coda degli indici di povertà nel raffronto europeo. Ci sono poi degli aspetti patologici: il primo è l’enorme squilibrio nord-sud. Un differenziale territoriale che vede gli indici di impoverimento 4-5 volte superiori a quelli del Nord. Non ci sono precedenti in Europa, nemmeno con la Spagna dove pure sono presenti regioni ricche e regioni povere. I 2/3 dei poveri italiani sono concentrati nel Meridione (67%) nonostante vi risieda soltanto 1/3 (31%) della popolazione. La povertà relativa è aumentata di 5 punti in un anno. Il secondo riguarda l’incidenza della povertà tra le famiglie numerose, in particolare la fascia con figli minori a carico. Una situazione davvero scandalosa che ci piazza all’ultimo posto in Europa e che dovrebbe far levare grida d’allarme. Siamo arrivati a sfiorare il 50% di povertà nelle famiglie con almeno tre figli minori a carico.  Nel Sud un minore su due vive in famiglie povere. Si tratta dell’indice di una catastrofe, la prova di quanto la crisi economica abbia colpito i settori più deboli.

E il terzo aspetto?
Si tratta della presenza del working poor. Di poveri che lavorano, anzi sarebbe meglio dire di poveri “sebbene lavorino”. La povertà non più come conseguenza della mancanza del lavoro ma del lavoro stesso. Non parliamo di famiglie con disoccupati ma di nuclei familiari il cui membro di riferimento ha un posto di lavoro. In questa fascia ad essere alta non è solo la povertà relativa ma anche quella assoluta che raggiunge il 6% delle famiglie. Gente che non può permettersi neppure il minimo indispensabile per condurre una vita decorosa.

Da dove nasce tutto ciò?
Dalla sconfitta sociale del lavoro. Dal passaggio che si è avuto dal fordismo al postfordismo, dal produttore al consumatore come eroe sociale. Una scelta strategica a livello globale partita dagli Stati uniti agli inizi degli anni ’80 e che ha segnato le politiche economiche di tutto il mondo. Il pretesto della lotta all’inflazione ha permesso la guerra al salario operaio. Così la ripartizione delle ricchezza sociale si è spostata di 8 punti di pil dal monte salari ai profitti. 120 miliardi di euro all’anno sottratti dalle tasche dei lavoratori e trasferiti nei bilanci delle imprese. Non più utilizzati per investimenti produttivi ma in operazioni speculative. Questo spiega la fragilità del nostro sistema economico.

I dati Istat mostrano anche un ceto medio ormai con chiari segni di impoverimento.

I dati sui ceti medi produttivi fanno sobbalzare sulla sedia. Siamo in presenza di un impoverimento evidente delle famiglie di lavoratori autonomi e della comparsa di povertà anche tra i possessori di titoli di studio elevato. Addirittura assistiamo alla crescita del tasso di povertà assoluta tra diplomati e laureati. Tutto questo conferma il piano inclinato su cui sta scivolando il ceto medio da diversi anni. Un percorso che ha una sua lunghezza. Non è cominciato ieri ma va avanti da un quindicennio, accelerato ultimamente dalla crisi. La percentuale dei quadri poveri appena sopra la soglia di povertà relativa è del 4%. C’è poi chi, pur avendo una spesa mensile elevata, si trova in una condizione di forte deprivazione a causa di situazioni di forte indebitamento, delle rate del mutuo e del credito al consumo. Anni di concerto del benessere e coazione al consumo li hanno spinti ad indebitarsi e così pur con una spesa alta, vivono da poveri. Non possono permettersi le vacanze, curarsi adeguatamente, cominciano a frequentare i discount. 18 milioni sono quelli per i quali una spesa imprevista superiore agli 800 euro non sarebbe sopportabile. Persone che vivono sul pelo dell’acqua. Sono la fotografia di un’Italia che annaspa.



I dati Istat sono apparsi nel giorno in cui veniva approvata col voto unanime delle opposizioni la manovra economica del governo. Un segno beffardo de destino, non crede?
Questa coincidenza ha dato il segno della ferocia sociale raggiunta. La manovra con i suoi tagli alle detrazioni fiscali per i figli minori, gli asili nido, l’istruzione, le cure pediatriche e la soppressione di servizi essenziali in campo educativo e sanitario, mentre risparmia la casta dei politici, infierisce proprio sugli strati su cui più si è incrudelita la crisi. Si tratta di una scure sulla parte più dolente della società.

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Scheda: Istat, Italia un paese da mile euro al mese, per due
Luciano Gallino: “Povertà, dai dati Istat l’indebitamento invisibile dei lavoratori”
Il sesso lo decideranno i padroni: piccolo elogio del film Louise-michel

Italia, un Paese da mile euro al mese (per due)

Scheda – Istat, Diffuso il rapporto sulla situazione della povertà in Italia nel 2010. Otto milioni di italiani in difficoltà alla fine di ogni mese. La povertà ora bussa anche nelle case dei ceti medi

Paolo Persichetti
Liberazione 16 luglio 2011

Scene di macelleria sociale: è questo il quadro che disegna l’Istat nel suo rapporto annuale sullo stato della povertà, relativa ed assoluta, in Italia nel corso del 2010. A star male, molto male, non sono soltanto i ceti situati nei gradini più bassi della scala sociale, e che rientrano a pieno negli indici statistici che delineano la cosiddetta “povertà assoluta”, ma ormai anche le classi medie che vedono progressivamente eroso il loro potere d’acquisto e avvalersi di prestazioni e servizi sociali. La famosa “pera”, con la quale i cantori del ceto medio descrivevano un tempo la conformazione grafica di quella che chiamavano la «società opulenta», dal collo lungo e una grande pancia, torna ad essere una classica piramide. I ceti medi scivolano in basso, piccola e media borghesia affondano. Risulta povera, o quasi povera, circa una famiglia su cinque. 1 milione e 156 mila nuclei familiari (il 4,6% delle famiglie residenti) vive in condizioni di povertà assoluta, per un totale di 3 milioni e 129 mila persone (il  5,2% dell’intera popolazione). Un dato – spiega il rapporto – che mostra l’assenza di segni di miglioramento rispetto al 2009, mentre «segnali di peggioramento» provengono dagli indicatori sulla “povertà relativa“. L’11% delle famiglie, cioè 2 milioni 734 mila nuclei, pari a 8 milioni e 272 mila individui poveri, il 13,8% dell’intera popolazione, rientrano nella soglia indicata per definire la povertà relativa, ovvero una capacità di spesa media mensile che per una famiglia di due componenti nel 2010 è risultata «pari o inferiore a 992,46 euro». Il declino del ceto medio trova ulteriori conferme nella presenza di sempre maggiori rischi di povertà in gruppi appartenenti a famiglie tradizionalmente non povere. A segnalarlo è la presenza di un 3,8% di famiglie con valori di «spesa e consumi equivalente» appena superiori (non oltre il 10%) alla linea di povertà. Appena 100 euro sopra la cosiddetta povertà relativa. Quota che raddoppia quasi nel Mezzogiorno. La povertà relativa è in aumento anche tra i lavoratori autonomi (+ 1,6%) e i titolari di diplomi medio-alti (+ 0,8%). Peggiorano alcune fasce della popolazione: nel meridione quasi una famiglia numerosa su due è povera. La povertà relativa aumenta tra le famiglie di 5 o più componenti (dal 24,9% al 29,9%), specie se i figli sono piccoli; tra quelle con membri aggregati, ad esempio quelle dove c’è un anziano che vive con la famiglia del figlio (dal 18,2% al 23%), e di monogenitori (dall’11,8% al 14,1%). E la condizione delle famiglie con membri aggregati peggiora anche rispetto alla povertà assoluta (dal 6,6% al 10,4%). In particolare, fa notare l’Istat, sempre nel Mezzogiorno l’incidenza di povertà relativa cresce dal 36,7% del 2009 al 47,3% del 2010 tra le famiglie con tre o più figli minori. Quindi, quasi la metà di questi nuclei vive in povertà relativa. Dal punto di vista geografico, le regioni più povere sono Basilicata (28,3%), Sicilia (27%) e Calabria (26%), dove la spesa media mensile equivalente delle famiglie povere scende a 779 euro (al Nord è di 809,85; al Centro di 793,06). Si conferma che la diffusione della povertà tra le famiglie con a capo un operaio o assimilato (15,1%) è decisamente superiore a quella osservata con lavoratori autonomi (7,8%) e, in particolare, di imprenditori e liberi professionisti (3,7%).

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Lavorare stanca e rende poveri

Genova G8: Violenze, torture e omertà. La cultura opaca delle forze di polizia

Il formaggio e i vermi di Sebastiano Vassalli, la resistenza operaia di ieri, l’insubordinazione metropolitana dei black bloc di oggi e il corporativismo mafioso dei corpi di polizia

Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2011

Quella che il grande storico del movimento operaio Edward Palmer Thompson definì in un’opera celebre, «l’opacità operaia» (in La formazione della classe operaia inglese), è stata per decenni oggetto di approfonditi studi sociologici. L’attenzione degli studiosi era rivolta alla comprensione dei meccanismi che portano i ceti subalterni a frapporre una sorta di schermo protettivo, al coperto del quale riescono a dare vita e riprodurre una cultura resistente, oppositiva, solidale e autonoma, il più delle volte ritenuta illegittima e pericolosa dai ceti dominanti che esercitano il monopolio della legalità. L’opacità è dunque la condizione essenziale per tutelare la propria libertà e sottrarsi ai valori legittimi espressi e imposti dai ceti dominanti. Da questo genere di ricerche hanno preso avvio i Subaltern Studies, che si occupano appunto delle culture oppresse, cancellate, perseguitate. In Italia, nel corso degli anni 70, l’opacità operaia non fu oggetto di studi ma entrò nel mirino delle inchieste giudiziarie condotte dalla magistratura contro la lotta armata sorta nelle fabbriche. Soprattutto divenne un “problema politico” per le forze sindacali e il partito comunista che concentrarono contro di essa ogni tipo di sforzo. Sgretolare l’opacità operaia, fidelizzando la classe lavoratrice alla cultura della legalità istituzionale, fu l’obiettivo portato avanti non solo con mezzi ideologici ma anche ricorrendo alla delazione organizzata, all’infiltrazione condotta in accordo con le forze speciali dell’antiterrorismo guidate dal generale Alberto Dalla Chiesa. La città di Genova, e le sue fabbriche, furono uno dei luoghi dove più aspro divenne questo confronto. Genova, sempre Genova. Una città che con la sua storia ha segnato tante svolte, come quella del luglio 60. Ebbene, sempre a Genova nel 2001, durante le sanguinose giornate del G8, abbiamo visto emergere in modo deflagrante un’altra forma di opacità: quella poliziesca, risvolto cinico e feroce del sovversivismo delle classi dominanti. «Cosa accade nella testa di un uomo perché diventi un poliziotto?». La lungimirante domanda non sarebbe più d’attualità secondo Sebastiano Vassalli, che sul Corriere della sera di pochi giorni fa ricordava come questa frase apparisse su un manifesto del 68 parigino. Se il compito dei giovani è diventare vecchi, come diceva Benedetto Croce, il sessantenne Vassalli c’è riuscito benissimo e dalla sua canuta agiatezza spiega alle malcapitate generazioni precarie di oggi che la polizia non può essere più percepita come il baluardo di ciò che il poeta Pablo Neruda chiamava «il formaggio del capitalismo», con i suoi «pallidi vermi». Oggi il problema sarebbe dato da un altro formaggio, «quello della democrazia» che rende possibile un nuovo genere di vermi, «i black bloc», a suo dire protagonisti dei «fatti tragici e demenziali della Valsusa». Abituato alla cucina della sua casa Vassalli non s’accorge che il formaggio della democrazia è stato divorato da tempo e quello del capitalismo è pieno di buchi provocati dai roditori della finanza internazionale. Contrariamente a quel che sostiene Vassalli quella domanda ha oggi ancora più senso, anche se pure i vermi hanno fame, a partire da quella opacità poliziesca che ci è stata raccontata dalla difficile inchiesta sulle violenze e torture genovesi del G8. Una lunga catena di falsità che dai più alti vertici delle forze dell’ordine scendeva fino agli ultimi gradi della scala gerarchica: dalle ragioni inventate (la presenza dei black bloc) per giustificare l’irruzione e il brutale pestaggio nella scuola Diaz, alla fabbricazione di false testimonianze che hanno visto protagonisti l’allora capo della polizia Giovanni De Gennaro, il capo della Digos genovese Spartaco Mortola e il questore Francesco Colucci; al tentativo di introdurre, sempre nella palestra dove era appena avvenuto il massacro, due bottiglie molotov trovate altrove, ai falsi verbali che attribuivano ai fermati comportamenti violenti o addirittura cambiavano il luogo del fermo in modo da coinvolgerli in situazioni compromettenti; al falso accoltellamento denunciato da un poliziotto, Massimo Nucera, che invece lacerò appositamente il proprio giubbotto per accreditare l’aggressione subita e dunque far passare il pestaggio come una legittima difesa contro dei violenti animati da tentazioni omicide. Atteggiamento menzognero reiterato da Nucera recentemente. Una sentenza del tribunale di Teramo, infatti, l’ha condannato nel maggio 2010 ad un anno e 4 mesi di reclusione per aver fornito falsa testimonianza nel tentativo di scagionare due suoi colleghi che avevano pestato (31 giorni di prognosi) un tifoso durante l’incontro di basket Teramo-Rosetana.
L’opacità poliziesca oggi è un problema anche per la procura genovese che ha chiesto la collocazione ad altro servizio dell’ispettore Antonio Del Giacco, condannato ad otto mesi, insieme ad altri poliziotti, per per aver fabbricato prove false contro alcuni no-global, prima aggrediti e poi arrestati, la mattina del 20 luglio 2001.

Link
Carlo Giuliani, quel passo in più mentre tutti tornavano indietro
L’inchiesta di Cosenza contro Sud Ribelle

Scioperi spontanei e solidarietà operaia nelle officine Sata di Melfi

Patron Marchionne: la paura paralizza il coraggio si organizza

E. Della Corte P. Caputo


Marchionne ringalluzzito dai recenti successi americani, un po’ gonfiati per convenienza di Obama – che intanto si barcamena per cercare di coprire i dati sulla disoccupazione che avanza con pillole di speranza – ci fa sapere che «l’Italia deve cambiare atteggiamento». Se in America, per la Chrysler (salvata dal fallimento dalle pensioni degli operai americani, e non certo dai presunti miracoli dell’apprendista stregone italo-canadese), si ricevono applausi e complimenti, in Italia non si possono ricevere fischi e insulti, lo spettacolo della produzione dell’auto in fondo è lo stesso, cambia solo il palcoscenico. E, poi, in Italia le vendite non tirano più come un tempo, «il tubo degli incentivi si è svuotato», è lui a dirlo, ma a guardar bene quello che si perde da un lato ritorna dall’altro visto che più le immatricolazioni Fiat crollano e più Marchionne ci guadagna, grazie al “giochetto” legato alle speculazioni finanziarie in atto per fare salire le azioni in borsa man mano che la Fiat deindustrializza. In ogni caso, finita la fase del mercato drogato bisogna fare i conti con il calo della domanda che si assesta su un milione e ottocentomila auto circa all’anno. La realtà della presunta competizione globale non dà spazio per le fastidiose richieste della Fiom, né tantomeno per la palude di Confindustria, e meno che mai per gli atteggiamenti distratti dello Stato che dovrebbe, invece, sostenere l’impresa a tutti i costi, così come tradizione vuole. L’imperativo categorico appuntato a quel “deve” assegna ruoli e compiti ai vassalli di turno, e suona come un monito per l’Italia intera e, come nei migliori casi di delirio d’onnipotenza, per gli oltre sessanta milioni di abitanti. Non ci sarebbe nulla da ridere (forse…) se la faccenda non vedesse coinvolti uomini e donne in carne ed ossa, costretti a svendere quotidianamente le proprie vite sulla catena di montaggio, perché la partita rilevante si gioca lì. La crisi è stata per il padronato un buon argomento per cercare di riportare le relazioni industriali nel clima degli anni ’50, ai tempi di Valletta, e per far passare sotto ricatto a Pomigliano e a Mirafiori condizioni capestro, cercando di escludere dalla contrattazione la fastidiosa Fiom e i suoi delegati (per non parlare dei Cobas). In realtà le rappresaglie ed i ripulisti erano iniziati già da un po’, quando ad esempio a Melfi hanno cercato di licenziare un paio di operai sconvenienti per l’azienda o, in modo più capillare e impercettibile, quando quotidianamente si dispensano avvisi disciplinari, nefasto preludio alla lettera di licenziamento, per ricordare alle maestranze chi comanda. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà, in fondo il rapporto tra capitale e lavoro è segnato dall’andamento dei rapporti di forza: “quando sei incudine stai, quando sei martello dai”. Ma come accettare senza fiatare la richiesta incondizionata di obbedienza del patron quando il ritmo della linea aumenta e i corpi non riescono più a tenere il tempo? Come chinare il capo quando anni di lavoro a basso costo infiammano i tendini e la schiena di quegli operai (tanto che a Melfi i dati riguardanti operai/e con ridotte capacità lavorative, accertate dal medico aziendale, toccano circa il 50% dei lavoratori)? Il cambio di atteggiamento richiesto dal Marchionne di turno in cambio di investimenti incerti è difficile da sostenere, a meno che non si tratti di un delirio condiviso. Il timore sembra prender corpo ascoltando Bonanni che si affretta ad intervenire sulla vicenda sottolineando che il padronato in Italia ha ottenuto, prima che altrove, la regalia delle flessibilità numerica e temporale grazie al Sindacato e a Confindustria. E questo, aggiungiamo noi, è avvenuto non solo attraverso i nuovi dispositivi contrattuali capestro ma anche grazie al dispositivo che da anni vede le fabbriche Fiat funzionare con l’uso combinato di straordinari e cassa integrazione: miracolo italiano per ridurre i costi dell’impresa a svantaggio delle casse pubbliche. Sulla scena di questa vicenda non si può omettere che il clima nelle fabbriche Fiat in Italia non è dei migliori: c’è malcontento per i salari; l’erosione costante e progressiva dei diritti; il silenzio tattico di parte della politica e dei media; e, soprattutto, per le condizioni di lavoro. A Melfi, in Sata, proprio per protestare contro l’aumento unilaterale dei ritmi di produzione (a cui vanno aggiunti l’aumento progressivo dei provvedimenti disciplinari, gli spostamenti “anomali” di lavoratori all’interno della fabbrica, il mancato rispetto delle pause, ecc.), venerdì scorso i lavoratori della lastratura e dello stampaggio hanno “liberamente” proclamato uno sciopero. I manager aziendali, per aggirare l’intoppo, hanno comandato operai di altri reparti per sostituire i “ribelli” con lavoratori obbedienti e disciplinati e mandare così avanti la produzione. Per evitare di passare il testimone, i rebel hanno deciso di sospendere lo sciopero e di proclamarne un altro dopo una mezz’ora. L’azienda ha nuovamente reagito inviando altri lavoratori, ma questa volta l’arroganza padronale ha determinato lo sciopero per solidarietà anche in altri reparti della lastratura, per cui gli stessi sostituti hanno incrociato le braccia. Fiat voluntas Dei: la solidarietà vince sull’individualismo, i timori di rappresaglie e punizioni. Una storia delicata che nel clima di paura alimentato dalla crisi fa risuonare lo slogan: la paura paralizza il coraggio si organizza.

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