Scioperi spontanei e solidarietà operaia nelle officine Sata di Melfi

Patron Marchionne: la paura paralizza il coraggio si organizza

E. Della Corte P. Caputo


Marchionne ringalluzzito dai recenti successi americani, un po’ gonfiati per convenienza di Obama – che intanto si barcamena per cercare di coprire i dati sulla disoccupazione che avanza con pillole di speranza – ci fa sapere che «l’Italia deve cambiare atteggiamento». Se in America, per la Chrysler (salvata dal fallimento dalle pensioni degli operai americani, e non certo dai presunti miracoli dell’apprendista stregone italo-canadese), si ricevono applausi e complimenti, in Italia non si possono ricevere fischi e insulti, lo spettacolo della produzione dell’auto in fondo è lo stesso, cambia solo il palcoscenico. E, poi, in Italia le vendite non tirano più come un tempo, «il tubo degli incentivi si è svuotato», è lui a dirlo, ma a guardar bene quello che si perde da un lato ritorna dall’altro visto che più le immatricolazioni Fiat crollano e più Marchionne ci guadagna, grazie al “giochetto” legato alle speculazioni finanziarie in atto per fare salire le azioni in borsa man mano che la Fiat deindustrializza. In ogni caso, finita la fase del mercato drogato bisogna fare i conti con il calo della domanda che si assesta su un milione e ottocentomila auto circa all’anno. La realtà della presunta competizione globale non dà spazio per le fastidiose richieste della Fiom, né tantomeno per la palude di Confindustria, e meno che mai per gli atteggiamenti distratti dello Stato che dovrebbe, invece, sostenere l’impresa a tutti i costi, così come tradizione vuole. L’imperativo categorico appuntato a quel “deve” assegna ruoli e compiti ai vassalli di turno, e suona come un monito per l’Italia intera e, come nei migliori casi di delirio d’onnipotenza, per gli oltre sessanta milioni di abitanti. Non ci sarebbe nulla da ridere (forse…) se la faccenda non vedesse coinvolti uomini e donne in carne ed ossa, costretti a svendere quotidianamente le proprie vite sulla catena di montaggio, perché la partita rilevante si gioca lì. La crisi è stata per il padronato un buon argomento per cercare di riportare le relazioni industriali nel clima degli anni ’50, ai tempi di Valletta, e per far passare sotto ricatto a Pomigliano e a Mirafiori condizioni capestro, cercando di escludere dalla contrattazione la fastidiosa Fiom e i suoi delegati (per non parlare dei Cobas). In realtà le rappresaglie ed i ripulisti erano iniziati già da un po’, quando ad esempio a Melfi hanno cercato di licenziare un paio di operai sconvenienti per l’azienda o, in modo più capillare e impercettibile, quando quotidianamente si dispensano avvisi disciplinari, nefasto preludio alla lettera di licenziamento, per ricordare alle maestranze chi comanda. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà, in fondo il rapporto tra capitale e lavoro è segnato dall’andamento dei rapporti di forza: “quando sei incudine stai, quando sei martello dai”. Ma come accettare senza fiatare la richiesta incondizionata di obbedienza del patron quando il ritmo della linea aumenta e i corpi non riescono più a tenere il tempo? Come chinare il capo quando anni di lavoro a basso costo infiammano i tendini e la schiena di quegli operai (tanto che a Melfi i dati riguardanti operai/e con ridotte capacità lavorative, accertate dal medico aziendale, toccano circa il 50% dei lavoratori)? Il cambio di atteggiamento richiesto dal Marchionne di turno in cambio di investimenti incerti è difficile da sostenere, a meno che non si tratti di un delirio condiviso. Il timore sembra prender corpo ascoltando Bonanni che si affretta ad intervenire sulla vicenda sottolineando che il padronato in Italia ha ottenuto, prima che altrove, la regalia delle flessibilità numerica e temporale grazie al Sindacato e a Confindustria. E questo, aggiungiamo noi, è avvenuto non solo attraverso i nuovi dispositivi contrattuali capestro ma anche grazie al dispositivo che da anni vede le fabbriche Fiat funzionare con l’uso combinato di straordinari e cassa integrazione: miracolo italiano per ridurre i costi dell’impresa a svantaggio delle casse pubbliche. Sulla scena di questa vicenda non si può omettere che il clima nelle fabbriche Fiat in Italia non è dei migliori: c’è malcontento per i salari; l’erosione costante e progressiva dei diritti; il silenzio tattico di parte della politica e dei media; e, soprattutto, per le condizioni di lavoro. A Melfi, in Sata, proprio per protestare contro l’aumento unilaterale dei ritmi di produzione (a cui vanno aggiunti l’aumento progressivo dei provvedimenti disciplinari, gli spostamenti “anomali” di lavoratori all’interno della fabbrica, il mancato rispetto delle pause, ecc.), venerdì scorso i lavoratori della lastratura e dello stampaggio hanno “liberamente” proclamato uno sciopero. I manager aziendali, per aggirare l’intoppo, hanno comandato operai di altri reparti per sostituire i “ribelli” con lavoratori obbedienti e disciplinati e mandare così avanti la produzione. Per evitare di passare il testimone, i rebel hanno deciso di sospendere lo sciopero e di proclamarne un altro dopo una mezz’ora. L’azienda ha nuovamente reagito inviando altri lavoratori, ma questa volta l’arroganza padronale ha determinato lo sciopero per solidarietà anche in altri reparti della lastratura, per cui gli stessi sostituti hanno incrociato le braccia. Fiat voluntas Dei: la solidarietà vince sull’individualismo, i timori di rappresaglie e punizioni. Una storia delicata che nel clima di paura alimentato dalla crisi fa risuonare lo slogan: la paura paralizza il coraggio si organizza.

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