Destra: il terrorismo dei “lupi solitari”, le passioni tristi della crisi. Il massacro dei senegalesi di Firenze

L’analisi – Cosa c’è dietro l’azione pluriomicida di Gianluca Casseri, frequentatore di CasaPound

Il killer xenofobo non era un soggetto isolato. Casseri era iscritto come simpatizzante all’associazione CasaPound di Pistoia, come recita un comunicato ufficiale di CasaPound Italia («Il semplice fatto della sua partecipazione ad una nostra manifestazione – spiega CPI in una nota – non è assolutamente sinonimo di impegno politico in e per CPI, come il fatto che fosse iscritto da simpatizzante a Pistoia non vuol dire che partecipasse in alcun modo alle attività organizzative della sezione»). Non solo, godeva anche della stima di Gianfranco de Turris, un autorevole intellettuale della destra italiana.
Chi è de Turris?
De Turris è fondatore e segretario della Fondazione «Julius Evola», dedicata al «pensatore» d’estrema destra, con trascorsi fascisti e nazisti, teorico della gerarchia tra le razze. E’ stato vicecaporedattore dei servizi culturali al Giornale Radio della Rai, in quota a Alleanza Nazionale e poi al Pdl, è andato in pensione nel febbraio del 2009. Continua a curare una rubrica, L’Argonauta, su Radiouno Rai ogni domenica sera.
Sempre de Turris ha firmato due prefazioni encomiastiche ai libri di Casseri. L’ultimo, I Protocolli del Savio di Alessandria, pubblicato a maggio per l’editore Solfanelli, è un’invettiva contro Il cimitero di Praga di Umberto Eco e conferma l’esistenza del complotto pluto-giudaico sul mondo. Nella prefazione loda Casseri e spiega che I Protocolli dei Savi di Sion, pur essendo un documento falsificato, nondimeno dicono cose vere. I saggi di Casseri su Lovecraft sono sempre stati annunciati sui siti web più noti nell’ambito del fantastico italiano, così come il «romanzo esoterico» scritto con Enrico Rulli, La Chiave del Caos, sempre con prefazione del solito de Turris

di Guido Caldiron
Liberazione 14 dicembre 2011

Gli studiosi del terrorismo di estrema destra li chiamano “lupi solitari”: figure legate alla culture xenofobe, fasciste o anti-sistema che decidono di passare all’azione non in base a un progetto politico o “militare” che hanno costruito con altri, ma quando ritengono che sia venuto il momento dello scontro, della guerra, dell’atto esemplare. Muovendosi in un territorio emotivo che rasenta spesso la follia pura, i “lupi solitari” non sono però mai delle figure culturalmente isolate, spesso già affiliati a gruppi o formazioni estremiste, interpretano con la loro sanguinaria “discesa in campo” gli umori più terribili del proprio tempo. Di fronte alle contraddizioni e alle inquietudini delle società occidentali, di fronte al crescere del disagio sociale e identitario, si fanno interpreti dei “sentimenti tristi” della crisi: odio, rancore, razzismo. Agiscono da soli, portando alle estreme conseguenze la cultura della guerra che hanno in sé, e che è parte fondante delle ideologie come delle sottoculture del radicalismo identitario, ma si immaginano come interpreti del senso comune, dando così un nome e un volto ai fantasmi della discriminazione e della ricerca costante di un capro espiatorio che caratterizzano da tempo il cuore malato dell’Occidente.
Ciò che è accaduto ieri a Firenze e quanto è già dato di sapere sulla biografia e le idee di Gianluca Casseri, il cinquantenne simpatizzante di Casa Pound, cultore del fantastico e dell’esoterismo, descritto dalle agenzie di stampa come un individuo con «simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste», che ha ucciso due venditori ambulanti senegalesi e ne ha feriti gravemente altri tre prima di togliersi la vita, sembra infatti rimandare – con le dovute proporzioni, ma con la medesima gravità – ad altre simili tragedie. Per quanto il profilo di Casseri faccia pensare al neofascismo di sempre, con tanto di formazione evoliana e rimandi alla cultura che ha prodotto I Protocolli dei Savi di Sion, la sua follia razzista può essere forse inquadrabile in una tendenza più ampia e diffusa ormai sul piano internazionale.
Era il 22 luglio di quest’anno quando Anders Behring Breivik, un norvegese di trentadue anni, faceva prima esplodere una bomba nei pressi della sede del governo, nel centro di Oslo, e attaccava quindi a colpi di mitraglietta il campeggio dei giovani del Partito Laburista sull’isola di Utoya, non lontano dalla capitale. Bilancio della giornata più tragica della storia della Norvegia del secondo dopoguerra: settantasette morti e centinaia di feriti.
Già vicino al Partito del Progresso, una formazione xenofoba arrivata a raccogliere fino a un quarto dei consensi dei norvegesi su una piattaforma politica anti-Islam e anti-immigrati, ben prima di rendersi protagonista della strage di Oslo, questo giovane benestante e direttore di un’azienda agricola biologica, aveva diffuso su internet un testo di 1500 pagine dal titolo European Declaration of Independence – 2083, in cui si presentava come un “nuovo crociato”, o un “nuovo templare”, in grado di guidare “le milizie cristiane” verso la liberazione del Vecchio Continente, ormai trasformatosi in “Eurabia”, vale a dire un’Europa nelle mani dei musulmani. Il multiculturalismo e i suoi alleati, a partire proprio dai socialdemocratici norvegesi, e l’Islam erano i nemici a cui Breivik aveva annunciato di voler muovere guerra.
Quel testo delirante, l’attentatore norvegese lo aveva anche inviato ad alcuni parlamentari, in diversi paesi europei, che evidentemente ritenava sensibili alle sue tesi. Del resto, all’indomani della strage e suscitando scandalo nel suo stesso partito, l’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio aveva dichiarato: «Al netto della violenza, le idee di Breivik – il no alla società multirazziale, la critica dura alla viltà di un’Europa che pare rassegnata all’invasione islamica – sono profondamente sane e condivisibili».
La figura del “lupo solitario” è stata però evocata soprattutto dagli esperti statunitensi di terrorismo e a partire da un caso emblematico: quello del più grave attentato compiuto sul suolo americano prima dell’11 settembre.
Il 19 aprile del 1995 un camion riempito di una micidiale miscela composta da fertilizzante, benzina e gasolio, esplode sotto l’Alfred Murrah Federal Building nel centro di Oklahoma City. L’effetto è pari all’esplosione di 2mila kg di dinamite: l’edificio che ospita gli uffici di alcune agenzie federali che lavorano con l’Fbi, è distrutto. Le vittime sono 168, tra cui 19 bambini, i feriti superano i 680.
Per la strage viene processato e condannato a morte – sarà giustiziato nel 2001 in un carcere dell’Indiana – Timothy McVeigh un giovane di ventisette anni, bianco, reduce dall’Iraq, ha partecipato all’operazione “Desert storm”, e vicino al movimento estremista delle Milizie. Al momento del suo arresto, nella macchina di McVeigh la polizia trova alcune armi e una copia dei Turner Diaries un libro di fantascienza molto diffuso nel circuito del suprematismo bianco che descrive lo scoppio di una guerra razziale, e nucleare, negli Usa.
McVeigh spiegherà che «l’attentato era un gesto di rappresaglia, una ritorsione» per quanto accaduto a Waco, in Texas, nel 1993, quando l’Fbi attaccò il ranch in cui si erano asserragliati i membri di una setta religiosa causando decine di morti. «Proprio come in Cina, il nostro governo ha utilizzato i carri armati contro i suoi stessi cittadini», sosteneva il giovane attentatore, spiegando come per l’estrema destra quell’atto avesse rappresentato una vera e propria dichiarazione di guerra di Washington a tutti gli americani.

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Un fascista del terzo millennio

(Adnkronos) – Era un uomo dalla doppia vita il 50enne Gianluca Casseri, l’uomo che oggi ha ucciso due senegalesi, ferendone tre e suicidandosi durante un conflitto a fuoco con la polizia, a Firenze. Nato in provincia di Pistoia, Casseri faceva il ragioniere, ma allo stesso tempo era un appassionato scrittore con simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste. Aveva fondato la rivista La Soglia, ed era membro dell’associazione culturale La Runa. Simpatizzava con CasaPound. Amava i fumetti e i film di fantascienza, e i libri di Lovecraft. Nel suo saggio «I protocolli del Savio di Alessandria» rilancia la teoria antisemita del complotto mondiale degli ebrei, e le tesi negazioniste sull’Olocausto. Tra le altre sue passioni letterarie, Nietzsche, Jung e Evola. Ha anche scritto un libro, La Chiave del Caos, in cui le solite tematiche negazioniste e razziste si intrecciano con esoterismo e magia.
Insomma un vero fascista del terzo millennio!

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L’Italia s’è destra
Destra il terrorismo dei lupi solitari le passioni tristi della crisi il massacro dei senegalesi di Firenze

Dal Lago, Lampedusa: «Trattati come bestie, è normale che si ribellino»

Intervista ad Alessandro Dal Lago, sociologo dell’univeristà degli studi di Genova

Paolo Persichetti
Liberazione 22 settembre 2011

Metti un’isola persa al centro del Mediterraneo, prima porta d’Europa e rotta privilegiata per migliaia di migranti che giungono dalle rive meridionali. Lascia che sul suo lembo di terra sorga un campo di concentramento e riempilo, uno sbarco dopo l’altro, di disperati. L’isola, un tempo abitata da pescatori e abituata solo ad ospitare turisti, sembra ormai una nuova fortezza Bastiani. All’inizio commercianti e bottegai sono contenti. Il presidio permanente delle Forze di polizia garantisce un bel fisso mensile, ma col tempo crescono i malumori. Gli equilibri saltano. Dalle reti si raccolgono cadaveri di naufraghi, il mare sembra un cimitero liquido che lascia affiorare tracce di vite annegate. La gente è stanca di vedere “tutta la miseria del mondo” approdare sulle proprie spiagge. Il dolore, le tragedie, la facce disperate. Nell’isola non c’è più felicità ma il rombo permanente di una guerra: la guerra alle formiche affamate che cercano speranza. Chi ha pensato tutto questo ha fabbricato una bomba sociale. Dagli alambicchi dell’odio distillato in laboratorio è venuta fuori la caccia all’immigrato che si è scatenata a Lampedusa.

Professor Dal Lago siamo alla guerra tra poveri? Avevano bisogno di queste immagini a cui i media offriranno un potente moltiplicatore simbolico?
Con la catastrofe economica che si sta avvicinando c’è il rischio che situazioni di questo tipo si presentino in serie. Quando l’orizzonte si oscura te la prendi con il primo a portata di mano, il più vicino che ti da fastidio o pensi che per te sia un danno. In queste condizioni era inevitabile, d’altronde non è la prima volta che nei Cpa e Cie scoppiano incidenti del genere. E’ la riprova del fatto che non si possono controllare i flussi migratori semplicemente con le espulsioni, che nemmeno funzionano perché mancano i soldi per pagare gli aerei.

Le violenze sui migranti di alcuni lampedusani sono un fatto preoccupante.
E’ inevitabile che ci siano conflitti di prossimità in una situazione così esplosiva, costipata. Solo una settimana fa La Russa è andato a dire che tutto funzionava. Ora i risultati si vedono. Siamo alla conseguenza di leggi demenziali che lasciano la gente rinchiusa a marcire fino a 18 mesi. Non si possono ammassare esseri umani in queste condizioni e poi meravigliarsi perché si ribellano. Queste dinamiche andrebbero spente alla fonte, non una volta che sono esplose. Ora alcuni, come la Lega, ci sguazzeranno dentro. Non abbiamo solo un governo di destra, abbiamo un governo incapace di soddisfare anche il punto di vista della destra. Per questo ceto politico la condizione dei migranti è vissuta come un problema marginale, secondario. Non gliene importa proprio nulla. Un profondo e sotterraneo disprezzo nei confronti di queste popolazioni. In questo senso si può anche dire che sono peggio di chi li ha preceduti. Il governo sta  crollando, Berlusconi è rinchiuso nei suoi palazzi sotto assedio. Nel resto del mondo è visto come il Gheddafi d’Europa: un buffone. Il problema è che sono inetti non solo di destra.

Si è innescata una dinamica pericolosa.
Certo. Attenzione perché questi non solo non sono in grado di controllare nessun meccanismo, ma mancano di qualsiasi strategia. Siamo di fronte a un governo che non ha la cultura politica per portare avanti un discorso sensato sulla migrazione.

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Napoli, De Magistris subito flop. L’immondizia diventa arancione

Napoli sommersa dai rifiuti. Regione e Provincia non mantengono gli accordi presi con il Comune. I cittadini impediscono l’accesso alle discariche. Il neo sindaco, che aveva incautamente promesso di ripulire la città in cinque giorni, non trova di meglio che gridare al complotto

Paolo Persichetti
Liberazione 22 giugno 2011

Le montagne di rifiuti sono ancora in strada. «Se si scende dal Vomero verso il centro è pieno d’immondizia», ci raccontano al telefono alcuni cittadini napoletani con un misto di sconsolata indignazione. E’ solo un sabotaggio, come grida ai quattro venti il neosindaco di Napoli Luigi De Magistris? Oppure il risultato inevitabile della demagogia utilizzata in campagna elettorale? Anche Berlusconi e Bertolaso avevano accampato la stessa scusa. La scadenza dei cinque giorni promessi per liberare la città dai cumuli d’immondizia è stata superata senza risultati. Alla prima prova l’ex pm fa cilecca. La riunione notturna con il prefetto, chiesta in tutta fretta lunedì sera, non ha sortito gli effetti sperati. Altre riunioni si sono succedute nel corso della giornata di ieri, ma da regione e provincia, che in questa fase hanno in mano le chiavi per consentire soluzioni in grado di tamponare la situazione, e permettere che parta il piano promesso dall’assessore all’ambiente e vice sindaco Tommaso Sodano, non sono arrivate disponibilità. L’accesso ai siti di stoccaggio esterni alla città dipendono da loro. «Esisteva un accordo – ha recriminato De Magistris – con prefettura, regione, provincia. Avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in cinque giorni, prevedendo anche la realizzazione di un sito di trasferenza nella stessa città». Poi è successa una cosa abbastanza prevedibile per chi conosce, anche solo un poco, le lotte portate avanti negli ultimi anni dalle popolazioni del posto, oltre al groviglio di interessi e ostacoli che gravano sul settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti. Il sindaco di Caivano, uno dei siti prescelti a nord di Napoli, su pressione di una popolazione per nulla convinta di dover accogliere sul proprio territorio altri rifiuti, ha emesso un’ordinanza di chiusura. Problemi analoghi si sono presentati ad Acerra, dove ci sono stati scontri e due autocompattatori sono andati danneggiati. «La soluzione è rendere Napoli autonoma in materia di rifiuti», ha spiegato Sodano. Già, ma ci vuole tempo. Quanto tempo per raddrizzare storture croniche del sistema come il furto delle tasse sui rifiuti pagati dai napoletani? Ben 50 milioni di euro sborsati dalla cittadinanza partenopea sono finiti al Nord, tra Milano e Bergamo, nelle tasche dei titolari di una delle società, l’Aip, che riscuoteva per conto del comune anche le bollette di acqua, condono e Ici. Incassava, anche dopo il contratto scaduto, ma non riversava nelle casse comunali. Una inchiesta della magistratura per banca rotta e peculato è in corso.
Intanto la sparata dei cinque giorni per liberare la città dalle cataste di spazzatura (2400 tonnellate), De Magistris se la poteva risparmiare. Berlusconi ha fatto scuola e l’ex pm, che ha chiamato in giunta un altro magistrato della procura di Napoli, suscitando non poche contrarietà (diventare amministratore nel distretto dove si è esercitata la propria funzione di magistrato non è il massimo dell’ortodossia costituzionale), e un questore, si è dimostrato un suo bravo scolaretto. Solo che il proprietario del Pdl ha poi i mezzi per far girare la grancassa mediatica, De Magistris no. E così il trucco si è scoperto subito. Il populismo ha le gambe corte e il conto è arrivato presto. Progetti seri e coraggiosi, come quello elaborato da Tommaso Sodano per rivoluzionare il sistema della raccolta e lavorazione dei rifiuti con l’approdo al 70% della differenziata richiedono comunque un certo periodo di tempo. Non esistono soluzioni miracolistiche. Averle fatte balenare è stato oltreché stupido, un grave errore. Roba da novizi. Il Coordinamento regionale rifiuti della Campania ha diffuso un comunicato molto duro nei confronti della nuova giunta comunale che avrebbe già tradito gli impegni presi in campagna elettorale. Alle «soluzioni radicalmente innovative, orientate al riciclo dei materiali ambientalmente compatibili e vicine alle istanze dei cittadini», la neo-amministrazione avrebbe opposto un ritorno a soluzioni già caldeggiate in passato, come il ricorso ad impianti di compostaggio e termovalorizzatori situati sul sito di Acerra. I comitati contestano anche l’individuazione delle minidiscariche di Acerra, Caivano e Napoli-Est, come siti di trasferenza in cui portare le oltre 10.000 tonnellate di rifiuti giacenti. Nel comunicato si ricorda come il territorio di Acerra si trovi «in pieno triangolo della morte» con una devastazione ambientale causata da «decennali sversamenti illegali di rifiuti tossici, e su cui oggi insistono il mega-inceneritore e due tra impianti di biomasse e di depurazione, eredità della ex-Montefibre». Il comune dovrà lavorare molto per ristabilire un rapporto di fiducia e partecipazione con i cittadini coinvolgendoli, come annunciato nel programma elettorale, nelle scelte dell’amministrazione. Altrimenti il rischio è quello del muro contro muro. il coordinamento chiede che «al più presto si possa discutere in assemblea pubblica con contraddittorio del piano complessivo di gestione dei rifiuti e non di singole delibere».

Omicidio Verbano, recapitato davanti alla porta di casa della madre un nuovo dossier sui fascisti

Novità nelle indagini sull’assassinio rivendicato dai Nar di Valerio Verbano. Fatta ritrovare in un borsone una nuova schedatura dell’estrema destra romana aggiornata fino al 1982

Paolo Persichetti
Liberazione 13 aprile 2011


Dopo la riapparizione in un armadio dei carabinieri di una copia, non si sa bene ancora se parziale o integrale, del vecchio dossier scomparso da decenni, un nuovo colpo di scena interviene nell’inchiesta sulla morte di Valerio Verbano, il giovane militante dell’Autonomia ucciso il 22 febbraio di 31 anni fa nella sua abitazione da un commando di suoi coetanei di fede fascista, che si firmò con la sigla dei Nuclei armati rivoluzionari. Un nuovo schedario sull’estrema destra romana è stato consegnato alla madre di Valerio, dopo che dal suo blog, e su Facebook, il 24 marzo scorso aveva lanciato un appello ai vecchi compagni del figlio: «Se avete della documentazione, vi prego fatemela avere, è molto importante per le indagini». Carla Verbano aggiungeva che avrebbe mantenuto il più stretto riserbo su chi gliel’avrebbe fatta pervenire. E così, il primo aprile, un giovane ha suonato al citofono di casa: «Signora le devo consegnare una cosa». Il ragazzo è salito fino alla porta ed ha lasciato un grosso borsone: «E’ per lei». Poi è subito sgusciato via. Che ci fossero in giro più versioni dell’archivio Verbano era emerso dopo la pubblicazione sul Corriere della sera e su Liberazione di alcuni estratti della copia del dossier depositato nell’attuale fascicolo delle indagini. Proprio Liberazione aveva segnalato questa circostanza a partire da un raffronto con altri documenti citati nel libro di Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, Odradek. I carabinieri del Ros lo stavano cercando da giorni, una perquisizione era stata condotta di recente in un box legato alla famiglia di un vecchio amico di Valerio, morto nel frattempo. Nella borsa c’erano due grossi raccoglitori e una rubrica marrone che all’interno, sulla prima pagina, riporta la scritta «onore al compagno Valerio Verbano caduto sulla strada che porta al comunismo». Il materiale risulta aggiornato fino al 1982. Un lavoro molto pulito. Le singole schede, dei fogli A4, sono conservate in camicie di plastica e le note sono dattilografate in modo ordinato. La data è impressa con un timbro. Gli aggiornamenti sono battuti con un’altra macchina, il che lascia pensare che vi abbiano lavorato più persone in tempi diversi. Nessun appunto è a mano. Un lavoro da veri professionisti. La sensazione è che si tratti di un archivio nel quale sono confluiti differenti dossier sui fascisti presenti nella piazza romana, compreso quello meno ordinato che venne sequestrato a Verbano. Altre infomazioni forse risalgono addirittura alla madre di tutti gli schedari sui fascisti preparati dalla sinistra extraparlamentare, quello sullo «squadrismo romano» realizzato da Lotta continua nel lontano 1972. Anche se la prima schedatura su larga scala dei militanti di destra – come ricorda Guido Panvini in, Ordine nero, guerriglia rossa, Einaudi – fu elaborata dalla sezione “Problemi dello Stato” del Pci, diretta da Ugo Pecchioli, mentre a destra, negli apparati dello Stato o in aziende come la Fiat, l’attività di schedatura dei “rossi” andava avanti fin dagli albori della Repubblica.
Alcune schede contengono informazioni con la dicitura: «Tratto dal lavoro del compagno Valerio Verbano». Tono deferente che porta a ritenere questo dossier successivo alla sua morte, messo in piedi per dare una risposta risolutiva all’attivismo aggressivo dei neofascisti romani. I due raccoglitori contengono dei sottofascicoli suddivisi per zone della Capitale: Roma Est, Sud, Nord, Colle oppio, Monteverde, Eur, Centro, Testaccio-Aventino, Parioli, piazza Tuscolo, piazza Bologna, piazza Indipendenza. Nella rubrica un indice indica la presenza di nomi (circa 900 con relative zone di provenienza), numeri di targa e proprietari corrispondenti, luoghi di ritrovo, storia e vita dei Nar, approfondimenti su piazza Tuscolo, aggiornamenti sul quartiere Trieste relativi al periodo tra il 1980-82.
Per volere di Carla Verbano l’intero materiale è stato consegnato alla procura dal legale, Flavio Rossi Albertini, che nel frattempo si è visto rifiutare la richiesta di copia delle parti del vecchio dossier Verbano allegate nel fascicolo, perché in questa fase sarebbero «ancora coperte da segreto istruttorio» nonostante fossero già filtrate all’esterno.
Questa mole di carte, riemerse da un passato lontano, almeno su un punto comincia a fare chiarezza: il dossier Verbano c’entra molto poco con la sua morte. La dietrologia, le connessioni tra apparati e ambienti della criminalità, più volte evocate negli anni passati, non trovano conferme se non su aspetti già ampiamente noti. Sull’omicidio i carabinieri hanno un’ipotesi investigativa molto diversa dalla cortina fumogena di nomi e ambienti apparsi sui media nelle scorse settimane. La pista imboccata da via Inselci è quella della vendetta legata alla morte di Cecchetti. Le loro indagini si concentrano attorno ad un gruppo di neofascisti che frequentavano un noto locale di Talenti.
Ma c’è dell’altro, l’inchiesta sulla morte di Verbano rischia di trasformarsi in una sorta di matrioska che al suo interno può riservare altri sviluppi d’indagine, questa volta sul fronte opposto. Non a caso nell’area dell’antagonismo romano cominciano a farsi strada, anche se con notevole ritardo, le prime perplessità. C’è chi comincia a prendere coscienza che “l’antifascismo giustizialista” – che ormai sembra aver preso il sopravvento nella gestione politica del caso Verbano – non porti da nessuna parte, se non al rischio di nuovi arresti a distanza di oltre 30 anni sulla base di indizi labili di persone distanti anni luce da quelle vicende. La via penale per cercare la verità su quelle morti irrisolte comincia a non essere più vista come la migliore delle soluzioni.

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Il Settantasette di Valerio Verbano, tornano le carte perdute

Personale e politico di un sedicenne dell’Autonomia. Ecco cosa c’è nel “dossier”

Liberazione descrive le carte di Verbano riapparse da un archivio dei carabinieri. Si tratta di una parte del materiale sequestrato nell’abitazione di Valerio il 20 aprile di 31 anni fa. Prima scomparso dall’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma, poi ritrasmesso in copia fotostatica dalla digos al giudice che indagava sul suo omicidio, infine definitivamente inviato al macero nel 1987. Quasi 400 pagine, tra cui l’agenda rossa del 1977 e la rubrica con i nomi dei militanti neofascisti. Il legale di Carla Verbano invoca trasparenza e chiede copia del dossier alla procura

Appasro su Liberazione dell’8 marzo 2011 con gli psudonimi di Giorgio Ferri e Nicola Macò

L’Agenda rossa 1977 di Valerio Verbano sequestrata il 20 aprile 1079

Ci sono i voti del semestre appena concluso, l’orario delle lezioni, il testo della canzone di De André, Il bombarolo, e poi in stampatello sul frontespizio: «Portare l’attacco al cuore dello Stato», con una falce e martello e un mitra sovrapposti e sotto la sigla Ccr, collettivo comunista rivoluzionario quarta zona, composto dagli studenti del liceo scientifico Archimede. E’ la copia fotostatica dell’agenda rossa 1977, edita dalla Savelli, appartenente a Valerio Verbano, allora studente appena sedicenne, riemersa da un buio lungo 31 anni. Ai lati dei fogli la firma di Rina Zapelli, nome da ragazza di Carla Verbano, madre di Valerio, apposta al momento del sequestro la sera del 20 aprile 1979.

L’inchiesta sui fascisti
Tra le pagine che abbiamo potuto consultare, poco meno della metà dei 379 fogli che sembrano comporre quanto resta del “dossier Verbano”, ci sono anche 41 fogli di una rubrica nei quali sono riportati circa 900 nomi di attivisti di estrema destra corredati da indirizzi e in alcuni casi con numero di telefono. Redatti tutti con la grafia di Verbano. Altri 16 fogli, trascritti da più mani, riportano appunti, minute di schede, appartenenza politica, piantine e altre informazioni, come alcuni luoghi di ritrovo dell’estrema destra.
Carla Verbano vi ha già riconosciuto quella di un amico di Valerio deceduto nel frattempo. Un accurato lavoro di mappatura delle diverse realtà del neofascismo romano dove lucide intuizioni e scoperte anzitempo si sommano anche ad imprecisioni e approssimazioni notevoli. Alcune schede collimano solo in parte con quelle riportate nel recente libro di Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, Odradek 2011. Questa circostanza conferma quanto ricordato nei giorni scorsi da Carla Verbano sulla esistenza di più versioni del dossier, «realizzato da Valerio insieme ad altri sei o sette amici». La riprova sta proprio nel libro di Lazzaretti che riporta uno schedario con circa 1200 nomi aggiornato ad un periodo successivo alla morte di Verbano. Nel dossier “riapparso” in una scheda numerata “002” si legge che Pierluigi Bragaglia, ex militante del Fdg divenuto «gregario delle strutture collaterali dei Nar», ha 18 anni, mentre nel documento citato da Lazzaretti gli anni salgono a 20 e il testo della scheda, seppure quasi identico, vede l’ordine delle frasi spostato a conferma del fatto che le informazioni salienti contenute nel “dossier” erano patrimonio di un’area più larga che le ha conservate ed aggiornate nel tempo.
E’ azzardato trarre delle conclusioni sulla base di una visione troppo parziale della carte riemerse – secondo quanto sostenuto dal Corriere della sera – da un archivio dei carabinieri a cui la procura ha recentemente attribuito la delega per le nuove indagini sull’omicidio. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale di Carla Verbano, si è già rivolto ai pm per avere copia del “dossier”. Le carte di Verbano rivestono ormai una valenza storica ancor prima che giudiziaria. Il buco nero che per lunghi decenni ha inghiottito le sue agende, rubriche e foto, consigliano oggi un dovere di trasparenza assoluta, tanto più che eventuali sviluppi dell’inchiesta si attendono dall’esame tecnico di altri reperti.


Gli elenchi distrutti

Quello che si legge nel verbale di sequestro del materiale trovato dalla digos nella stanza di Valerio Verbano è un lungo elenco: l’agenda rossa che fu il suo diario personale nel 1977, quaderni, decine di fogli sparsi, fotocopie, ritagli di giornali, fotografie e una pistola. In tutto, ben diciotto schedari pieni di documenti e altri sei di foto. Dopo il sequestro, cominciano le ‘stranezze’. Tutto il materiale – spiega Marco Capoccetti Boccia nel suo, Valerio Verbano, una ferita ancora aperta, Castelvecchi 2011 – sarà tenuto in custodia dalla digos per una settimana prima di essere consegnato all’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma per essere repertato e messo a disposizione del fascicolo processuale «Verbano + 4». Pochi giorni dopo la morte di Valerio i legali della famiglia ne chiedono la restituzione. Si scopre così che l’originale del cosiddetto “dossier” non è più al suo posto; è praticamente sparito. Il 27 febbraio 1980 il giudice istruttore Claudio D’Angelo, che si occupa dell’omicidio di Valerio, constatata la scomparsa del dossier dall’ufficio corpi di reato riceve dalla digos una «copia fotostatica della documentazione sequestrata nell’abitazione di Verbano Valerio». Se ne evince che si tratta ancora di una copia integrale ma Carla Verbano, che all’epoca poté visionare le carte, sostiene che il materiale inviato dalla digos era «dimezzato» rispetto all’originale. Nell’ottobre 1980, il giudice istruttore nega alla famiglia la restituzione delle carte sequestrate, ormai presenti solo in copia, perché ancora sottoposte a segreto istruttorio. Quattro anni dopo, l’11 aprile 1984, la corte d’appello che aveva giudicato Valerio ordina la distruzione dei reperti, comprese le carte e le foto, nonostante queste fossero state nuovamente repertate nell’inchiesta aperta per il suo omicidio. In realtà, come documenta Capoccetti, l’effettiva distruzione della copia fotostatica inviata dalla digos avverrà solo il 7 luglio 1987. Da quel momento non c’è più traccia del dossier negli atti giudiziari. Per ritrovarne copia Capoccetti ha scritto anche alla digos, ricevendo lo scorso luglio un’evasiva risposta che tra le righe non smentisce affatto l’attuale possesso di copia del «materiale oggetto di sequestro». Documentazione che all’improvviso è riapparsa in mano ai carabinieri dopo la recente riapertura dell’inchiesta. Si è detto anche che il dossier sarebbe passato nelle mani del giudice Amato, ucciso mentre conduceva un’inchiesta contro Nar e Terza posizione, ma sempre secondo quanto accertato da Capoccetti non c’è alcuna traccia di protocollo che ne dia conferma. Questo trasmigrare, sparire e ricomparire, dimagrire, per infine esser distrutto e poi riapparire in copia fotostatica dove nessuno se lo aspetta, è senza dubbio una delle circostanze più sconcertanti di tutta la vicenda.

L’agenda rossa del 1977
Siamo entrati nelle pagine del diario di Valerio del 1977 con un sentimento di pudore. Ci sembrava di violare la sua intimità, i suoi segreti, quelli di un adolescente cresciuto in fretta. In quegli anni si diventava adulti presto travolti dalla forza di una corrente che insegnava come fosse possibile cambiare il mondo. Valerio surfava veloce su quell’onda di rivolta che non conosceva rassegnazione. Il suo era un coinvolgimento totale: almeno quattro riunioni politiche a settimana, tra collettivi, comitato e assemblee, non solo all’Archimede ma anche all’università. Annotava le manifestazioni e gli scontri del periodo, le ricorrenze, l’uccisione dei militanti di sinistra, da Francesco Lorusso ad Antonio Lo Muscio e Walter Rossi, insieme ai compiti in classe, i pomeriggi al muretto con gli amici, gli incontri con le ragazze e anche un  «abbiamo giocato a nascondino» che fa sorridere. Tanti gli slogan, roventi come la temperatura al suolo dell’epoca, ma anche una battuta del tipo: «Atac: associazione telline aspiranti cozze». Meglio non prendersi troppo sul serio. Il 4 marzo annota: «Mancia ripassa a scuola». Angelo Mancia, conosciuto come Manciokan, fattorino del Secolo d’Italia, era un noto picchiatore del quartiere. Venne ucciso per rappresaglia dalla «Volante rossa» poche settimane dopo la morte di Valerio, anche se con il suo assassinio non c’entrava nulla. Il 12 marzo sono appuntati gli scontri durante la manifestazione nazionale per l’uccisione da parte di un carabiniere di Francesco Lorusso e, qualche giorno dopo, il 15, la discussione nel collettivo «sui fatti di sabato e le baiaffe». Facevano discutere le pistole apparse durante il corteo e l’armeria presa d’assalto il sabato precedente. Il 22 settembre Valerio annota la partenza per Bologna dove partecipa, fino al 25, al convegno nazionale contro la repressione. Dormirà a casa di una zia accompagnato dalla madre, ci racconta Capoccetti. Il 15 novembre si legge «Vado all’Archimede, vengo aggredito». Quasi un presagio.

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Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia a dare il suo giudizio

Paolo Persichetti
Liberazione 14 febbraio 2010 (versione integrale)


Ad un certo punto del suo libro (scritto con Alesando Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli 2010) Carla Verbano prende quasi per mano il lettore accompagnandolo lungo le strade che tracciano il quadrante nordest della Capitale. Un viaggio della memoria che si addentra per le vie dei quartieri Trieste, Salario, Nomentano, Montesacro, Talenti, Tufello, Val Melaina. La zona è tagliata in due dal ponte delle Valli che sul finire degli anni 70, come accadeva in molte altre strade o piazze d’Italia, «separava il bene dal male», segnava lo spartiacque politico tra i territori rossi e quelli neri. La “passeggiata” è costellata da tappe: marciapiedi, portoni, incroci, fermate d’autobus, bar, dove sono avvenuti scontri, attentati o sparatorie contro militanti di sinistra e di destra, giudici, poliziotti o persone ignare, uccise per sbaglio. Topologia di un conflitto, della sua parte più inutile, che ancora oggi la memoria ufficiale evita di nominare per quello che fu: una guerra civile strisciante. Senza contare i morti, ricorda la madre di Valerio Verbano: «Solo tra 1978 e 1979 tra Montesacro e Talenti ci sono stati 42 attentati dinamitardi a edifici, 87 aggressioni, 12 incendi ad automobili».
Il percorso che Carla Verbano propone, tenta di venire a capo della morte di suo figlio Valerio, diciannovenne militante dell’autonomia ucciso il 22 febbraio 1980. Dopo 30 anni i suoi assassini sono ancora senza volto. Un omicidio anomalo sul piano operativo, ma nel libro si ricorda un precedente, un ferimento realizzato da elementi dell’estrema destra avvenuto con le stesse caratteristiche ma dimenticato dalle indagini. Diversi sono i morti di quell’epoca rimasti senza responsabili: a cominciare da quelli commessi dalle forze dell’ordine, come Fabrizio Ceruso, ucciso il 5 settembre 1974 davanti ad un’occupazione di case a san Basilio, Pietro Bruno, morto nel 1975 nel corso di una manifestazione, Mario Salvi e Giorgiana Masi, entrambi colpiti alle spalle, il primo il 7 aprile 1976, la seconda il 12 maggio 1977. Nel pantheon della destra un posto particolare è riservato ai «martiri» che non hanno trovato esito giudiziario: Zicchieri, Cecchin, Mancia, Di Nella, i tre di Acca Larentia. A sinistra senza nome sono rimasti gli omicidi di Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Ivo Zini, uccisi tra il marzo e il settembre 1978. La lista ovviamente non pretende di essere esaustiva per nessuna delle parti.
A oltre trent’anni dai fatti, cosa è ancora possibile fare senza cadere nel culto cimiteriale della mistica vittimaria con cui, per esempio, la destra incensa i propri morti e che alcuni a sinistra tentano di imitare opponendo le proprie icone insanguinate in una sorta di guerra memoriale, prolungamento metaforico dello scontro con i fascisti degli anni 70? Questa costruzione postuma di un’identità vittimaria avvitata su se stessa, oltre a non essere rappresentativa del reale storico dell’epoca, ripropone in modo univoco e preponderante il paradigma antifascista come asse identitario e percorso prioritario dentro il quale ricostruire l’azione politica.
Forse c’è un solo percorso che può servire alla ricostruzione completa di quegli anni senza cadere nella trappola identitaria: un’amnistia. Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia che si occuperà di dare il suo giudizio.
La vera domanda è cosa sia la destra oggi e come combatterla. Pensare di riproporre analisi e modelli d’azione che ripescano il vecchio paradigma dell’antifascismo militante è quantomeno inadeguato, senza voler qui riaprire una vecchia querelle che pur merita di tornare ad essere affrontata. Già negli anni 70 sull’antifascismo militante come ideologia non vi era unanimità. Nato dall’impulso iniziale del Pci che tentò di convogliare sul pericolo neofascista la spinta dei movimenti sociali, venne fatto proprio da alcuni settori della nuova sinistra fino a divenire una sorta d’ideologia che esorbitava dalla questione concreta delle violenze fasciste. Considerata da altre realtà politiche della sinistra rivoluzionaria come un diversivo che “sopravvalutava contraddizioni secondarie o arretrate”, l’ideologia ipostatizzata dell’antifascismo in tutte le sue varianti era criticata perché conteneva in nuce derive democraticiste, legalitarie, giustizieriste, complottistiche che allontanavano dalla centralità del conflitto anticapitalista. Il dibattito sembra oggi riproporsi e come sempre la memoria ci parla del presente.

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Sbarchi a Lampedusa, «il governo conceda la protezione temporanea prevista anche dall’Ue»

Intervista a Gianfranco Schiavone, membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Paolo Persichetti
Liberazione 3 aprile 2011

Nel giro di poche settimane, dal giorno in cui è esplosa la guerra civile in Libia, la Tunisia ha accolto sul suo territorio 100 mila persone. Lo ha fatto con «grande dignità e capacità», spiega in un comunicato l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, nonostante il Paese sia allo stremo, con una economia distrutta ed un apparato statale in parte smantellato. Il governo provvisorio, infatti, ha sciolto i corpi di polizia, invisi alla popolazione perché compromessi con la dittatura di Ben Alì, congedandone per intero i 150 mila appartenenti. L’ordine pubblico è per ora gestito dalle Forze armate composte da militari di leva, in attesa che la prossima assemblea costituente voti la nuova costituzione a cui dovranno ispirarsi le nuove forze dell’ordine. Nonostante ciò, la Tunisia ha dimostrato una capacità d’accoglienza sconosciuta all’Italia. Da noi sono bastate poche migliaia di profughi, meno di 10 mila, per gridare all’esodo biblico, e creare volutamente una situazione insostenibile sull’isola di Lampedusa, il collo di bottiglia degli ingressi via mare. Eppure, ci spiega Gianfranco Schiavone, consigliere nazionale dell’Agsi, «gli strumenti di diritto per fare fronte a questa emergenza esistevano da subito. E’ mancata è la volontà di applicarli anche per ragioni di calcolo legati all’intenzione di suscitare sentimenti xenofobi da fruttare politicamente oltre ad una certa confusione del governo».

Intende la norma sulla “protezione temporanea” prevista dall’articolo 20 del testo unico sull’immigrazione che secondo alcune indiscrezioni il governo sarebbe propenso a prendere in considerazione?
Non solo. Esiste anche una norma europea che istituisce la protezione temporanea prevista dalla direttiva 2001/55/Ce, recepita dall’Italia col decreto legislativo del 7 aprile 2003 n. 85. Il ricorso a questo tipo di permesso, che ovviamente va concertato a livello europeo, offrirebbe ai profughi la possibilità di spostarsi in tutto lo spazio Shengen. In questo caso si potrebbe discutere della ripartizione delle quote tra Paesi membri. L’articolo 20 del testo unico sulla immigrazione elaborato nel 1989 consente, invece, una protezione temporanea solo sul territorio nazionale.

Questa è una differenza rilevante. Alcuni Paesi europei potrebbero opporsi come sta già facendo la Francia che respinge i migranti alla frontiera di Ventimiglia.
La realtà è che l’Italia, al di là delle lamentele rivolte verso gli altri Paesi membri, non ha mai presentato formalmente la proposta di attivare la protezione temporanea. A livello Ue questo tipo di protezione è stato espressamente previsto per quelle situazioni eccezionali in cui si manifestano afflussi massicci di persone che fuggono da situazioni di grave instabilità che si è prodotta in un Paese terzo rispetto all’Ue: “il cui rimpatrio – stabilisce il testo – in condizioni stabili e sicure risulta momentaneamente impossibile a seguito della situazione del Paese stesso”. Che è proprio quello che sta accadendo oggi. L’Italia introdusse in anticipo questa norma rispetto all’Ue perché si trovò in prima linea a fronteggiare la crisi albanese. La protezione internazionale in questo caso non c’entra nulla. Non siamo di fronte a richieste di asilo politico legate al riconoscimento di una violazione della convenzione di Ginevra.

Avete avuto qualche ruolo nel ricordare al governo che esisteva questa strada?
C’è stato un suggerimento da parte di parecchie associazioni ma non c’è stato molto ascolto. Il governo si è dimostrato miope nell’illusione di riuscire a rimpatriare coercitivamente (e illegittimamente secondo il protocollo Cedu) le migliaia di tunisini. La protezione temporanea darebbe corso a permessi annuali, rinnovabili una sola volta, favorendo i ricongiungimenti familiari in ambito europeo. Infine non dimentichiamo che stiamo perdendo l’occasione per investire sul futuro di un Paese giovane con un potenziale economico e sociale che potrebbe sfociare in una collaborazione economica e culturale per noi favorevole.

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Ho paura, dunque esisto

La paura è diventata un grande fantasma collettivo, un elemento immaginifico, una sindrome del mentale, una psicopatologia sociale

Paolo Persichetti
Liberazione 10 giugno 2008

paura fantasmiDal vecchio penso dunque sono cartesiano siamo passati al più prosaico ho paura dunque esisto. Sembra quasi d’essere tornati ad uno dei precetti dell’empirismo che riduceva l’essere alla sua capacità di percepire, esse est percipi. Secondo questa scuola filosofica la realtà non ha vita in sé, non prescinde dalla nostra capacità percettiva ma esiste soltanto per il mezzo della nostra conoscenza. La percezione non è dunque lo strumento che ci consente di entrare in relazione con la realtà circostante ma ciò che l’inventa, la costruisce, la crea. Da qui il passo molto breve verso una concezione meramente soggetivistica del mondo.
È un po’ quel che accade oggi con questa storia dell’insicurezza percepita. La realtà, nel nostro caso il fatto sociale, non esiste, o meglio esiste soltanto in quanto vi è la capacità di percepirlo, di rercepirlo molto male sarebbe il caso di aggiungere come dimostra l’ennesimo sondaggio sulla “paura percepita” dagli italiani, pubblicato da Repubblica (9 giugno 2010) con il commento di Ilvo Diamanti.
Nulla di nuovo: nonostante il decremento degli omicidi, delle rapine e delle violenze registrato nell’ultimo decennio nel nostro Paese, 9 italiani su 10 sono persuasi che la criminalità sia in aumento. Approfondendo meglio l’analisi ci si accorge che lì dove sono maggiori gli indici di sicurezza, cioè minore il numero di reati consumati e più alto il livello di sicurezza sociale (tutele, previdenza, welfare, buona amministrazione), corrisponde paradossalmente un’amplificazione dell’allarme sociale. La paura è dunque un grande fantasma collettivo, un elemento immaginifico, una sindrome del mentale, una psicopatologia sociale.
Questo panico innesca a sua volta una spirale perversa fatta d’effetti d’annuncio repressivi da parte delle autorità di governo locale e centrale, miranti a rassicurare l’opinione pubblica, col risultato di suscitare un effetto d’accredito della paura e del suo fondamento reale.
Le politiche penali rispondono spesso ad imput di natura politico-ideologica che risentono del contesto storico, di quella che è la soglia di legalità tollerata dalla società in un momento dato, seguendo una direzione opposta all’andamento dei reati denunciati. Per ragioni diverse l’attenzione degli organi repressivi dello Stato può attenuarsi oppure rivolgersi verso altri fenomeni. Come spiega Salvatore Verde nel suo, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo stato penale (Odradek), nel 1990 il numero degli omicidi, dei sequestri e dei furti subisce un notevole incremento rispetto al quinquennio precedente ma in compenso le persone denunciate all’autorità giudiziaria si dimezza passando da quasi 700 mila a 350 mila.
Ciò che abbiamo di fronte è una profonda mutazione antropologica. I miti contrattualistici del passato ci hanno tramandato una concezione della paura che cercava risposte politiche attraverso la creazione di patti fondativi. La liberazione della paura stava alla base del contratto che sorreggeva l’adesione alla comunità. Ciò non eliminava le asperità, al contrario la società era animata da uno spietato ma ancora creativo conflitto tra capitale e lavoro.
Nella paura di oggi, invece, c’è un risentimento torvo che ha bisogno di designare un nemico, un colpevole tra noi. È una passione triste. Si è persa la voglia di progettare, di costruire percorsi, di perlustrare il nuovo. La ricerca di capri espiatori è tornata la soluzione più semplice. L’orgasmo triste della vendetta incarognita, la libidine impotente della cattiveria antropologica sono diventati il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento che non verrà mai.

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