di Paolo Persichetti
Scrive il professor Franco Cordero nella sua procedura penale (Giuffrè 1991) che l’inquisito (cioè il presunto innocente fintanto che non subentra la condanna definitiva) rappresenta il cuore dell’inchiesta e del giudizio penale. La sua presenza corporea è l’oggetto fisico del processo. Egli è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, l’animale confessante poiché «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente: luoghi chiusi e tempo ciclico, soggetto a lunghe stasi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove». In tal caso il processo nient’altro è che anticipazione della colpevolezza, anteprima della sanzione realizzata attraverso la custodia cautelare e le molteplici forme d’invasività della sfera personale, come le intercettazioni, i sequestri, le pressioni e le intimidazioni.
La nuova prospettiva vittimocentrica
Questa visione, incarnata dal tradizionale diritto di punire, per la quale il reo è una proprietà esclusiva dello Stato, strappato alla vendetta privata per essere sottoposto alla «sofferenza legale», è messa oggi apertamente in discussione da una nuova prospettiva che sposta l’interesse dal reo alla vittima.
In un volume apparso alcuni anni fa, Marco Bouchard e Giovanni Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione (Bruno Mondadori, 2005), descrivevano l’apparizione di questo nuovo
protagonismo vittimario come la rivendicazione di un’autenticità che l’espropriazione originaria della forza privata degli individui avrebbe sottratto al processo penale per conferirla a una burocrazia di ceti tecnici ed esperti statali, secondo quel processo di razionalizzazione burocratica della modernità già delineato da Max Weber, da cui è scaturito il divieto assoluto di farsi giustizia da soli.
Secondo questa interpretazione, l’entrata nell’astrazione della modernità giuridica avrebbe allontanato la procedura penale dall’esperienza della sofferenza, delle emozioni, dei sentimenti, delle affettività, fino a sancire un percorso di neutralizzazione e spersonalizzazione della vittima a vantaggio di un intangibile risarcimento dell’equilibrio sociale infranto dal delitto. L’emergere di questa nuova visione ha rinvigorito le teorie afflittive della pena da scontare nella sofferenza e nel rimorso, legittimando l’antico desiderio di vendetta insoddisfatto dall’intreccio retributivo-premialistico (più che riabilitativo) che caratterizza l’odierno sistema penale, oscurando la posizione di soggetto debole del reo nel sistema penal-penitenziario.
Un tentativo di risposta a questa tendenza è venuto dalle filosofie che ricercando la conciliazione e la riparazione hanno ispirato le diverse e confuse ricette promosse dal nuovo istituto sperimentale della mediazione penale. Una commissione ad hoc, che ha anche diffuso delle linee di indirizzo generali, è stata messa in piedi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Al centro di questa nuova filosofia penale vi è l’idea che occorre reintrodurre un rapporto diretto tra vittima e aggressore, aprendo la strada a nuove forme di riparazione dell’offesa che legano indissolubilmente l’aggressore al risarcimento non solo simbolico della vittima.
Un vittimismo del potere camuffato sotto spoglie private
Tuttavia questa innovazione non riscontra la piena unanimità: c’è chi osserva (Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni GruppoAbele 2011) come il riorientamento della criminologia verso la vittima offre «a una disciplina esausta, la possibilità di rivitalizzarsi e di conseguire legittimità politica». In fondo – osserva sempre Ruggiero – «Le vittime possono anche essere vittimizzate dalla vittimologia ufficiale. In altre parole, possono diventare vittime degli stereotipi che vengono loro imposti. Tra questi la loro presunta incapacità a difendersi, ma anche l’incapacità di definirsi “vittime”, in quanto è comunemente dall’esterno che viene conferito il relativo status». Riserve sono state avanzate anche dalla commissione ministeriale, lì dove si è osservato che l’atto di riparazione richiesto al reo, «imporrebbe alla vittima di essere “oggetto”» di gesti non richiesti o non graditi, per altro al solo vantaggio del reo, a causa degli attuali criteri utilizzati dalle magistrature di sorveglianza che premiano simili condotte, imponendo ai detenuti ipocriti gesti di contrizione esteriore privi di autenticità. «Configurando per la vittima – prosegue la nota della commissione – una ulteriore violenza subita (Giuffrida)», per altro a molti decenni di distanza dai fatti. (Circolare del 14 giugno 2005 – Prot. n. 3601/6051).
L’ideologia vittimaria al centro del nuovo diritto di punire
In questo modo, più che attore del nuovo dispositivo la vittima designata come tale – non tanto la vittima in sé quanto la vittima ritenuta “meritevole” – si ritrova ad essere un oggetto passivo, con un ruolo pienamente strumentalizzato dalla nuova strategia mimetica dello Stato, che facendosi schermo della sua icona martirizzata può dispiegare un nuovo paradossale diritto di punire che nulla c’entra con la giustizia ricostruttiva, evocata troppo spesso a sproposito per giustificare il nuovo istituto della mediazione penale.
Quest’ultima, infatti, dove è stata messa in atto seriamente, ha posto sullo steso piano vittima e aggressore ricercando soluzioni diverse dalla sanzione penale (un esempio viene dalla commissione verità e riconciliazione in Sud Africa) (1). La singolarità italiana sta invece nel voler ibridare giustizia retributiva e riparativa, quest’ultima solo accessoria e non sostitutiva della prima, anzi promulgata in modo da prolungarne gli effetti.
Agendo spesso come una condanna supplementare, priva della legittimità di una sentenza processuale, la giustizia riparativa erogata nel corso dell’esecuzione pena opera come un quarto grado di giudizio, sorta di processo permanente che accompagna l’intera detenzione. Non potendo più intervenire sul reato essa sposta la sua attenzione sulla personalità del reo moltiplicando all’infinito le misure d’interdizione e ostracismo che si abbattono come una rappresaglia sul suo corpo.
Riconciliazione, legalitarismo e giustizialismo
Le ambiguità di queste nuove filosofie riconciliative non finiscono qui: la pretesa di voler fare da battistrada ad un’idea di giustizia come processo relazionale offre un’idea d’emancipazione interamente soggiogata da culture che hanno introiettato il teatro giudiziario-penale come scena privilegiata della regolazione sociale, dimenticando ogni critica verso quelle logiche dell’inimicizia speculare, inevitabilmente contenute in tutte le derive vittimarie, che in passato altri autori hanno denunciato come una pericolosa «esaltazione narcisistica della sofferenza» e che avevano fatto scrivere alla Arendt: «le vittime mietono soltanto altre vittime», introducendo una competizione della sofferenza che mina ogni possibile soluzione o pausa nei conflitti.
note
1. Il vescovo Desmond Tutu, per spiegare il funzionamento della “commissione verità e riconciliazione” da lui presieduta, ha evocato una nozione della cultura africana, l’ubuntu, ispirato ad una filosofia della giustizia di tipo ricostruttivo e non retributivo. Per fare spazio alla riconciliazione, la verità sulla violenza politica del passato è stata depenalizzata. Le corti penali di giustizia sono state esautorate a vantaggio di una commissione nazionale priva di poteri inquisitori, chiamata ad intervenire solo dopo la richiesta del candidato alla misura dell’oblio giudiziario. Ricostruita la dinamica dei fatti, accertata la responsabilità individuale, veniva concesso l’oblio mentre le vittime ottenevano un risarcimento materiale dallo Stato. Una regola valida per tutte le parti implicate nel conflitto, dai membri del regime segregazionista ai suoi oppositori armati. Chi rinunciava alla commissione, se ritenuto autore di fatti illegali, era passibile di un processo di fronte alla giustizia penale ordinaria senza possibilità d’ottenere in caso di condanna nessuna clemenza.
Link utili
Paradigma vittimario
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario
Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille a un articolo di Claudio Magris
Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show
Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore




inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che
potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali
eccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.