Giornalismo temerario

A proposito di una singolare richiesta di rettifica

di Paolo Persichetti

Negli ultimi tempi si è discusso molto dell’uso delle querele per diffamazione o calunnia a mezzo stampa, utilizzate in realtà come strumento di censura. Nel mondo anglosassone vengono indicate con l’acronimo Slapp (Strategic lawsuit against public), ovvero azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica. Si tratta di azioni penali o civili intentate con la sola intenzione di intimidire il giornalista citato in giudizio, per dissuaderlo dal proseguire le sue inchieste o dare notizie scomode al soggetto che ha promosso la causa.

Allergia alla critica
Numerosi sono i casi di cronaca che riferiscono di querele mosse da esponenti del mondo politico e soprattutto del governo, o da attori economico-finanziari potenti, contro giornalisti o organi di stampa ritenuti scomodi, oppure intellettuali o esponenti della società civile che hanno posizioni non allineate. E’ recente la notizia che alcuni politici, e non solo, ricorrevano a delle agenzie specializzate nell’inviare lettere che, con la minaccia di portare in giudizio singoli cittadini per aver espresso opinioni critiche sui social nei loro confronti, chiedevano risarcimenti sulla base di una tabella. Vi è senza dubbio una tendenza diffusa a mettere il bavaglio, chiudere la bocca a qualunque critica o opinione che non sia gradita, acquiescente o controllata. E’ diffusa un’allergia alla critica che in qualche modo l’era dei social ha accentuato imbarbarendo le discussioni, impoverendole di contenuti e di democrazia.

Professionisti del vittimismo

Ma a comportarsi in questo modo non sono soltanto i detentori del potere economico e politico, ci sono anche soggetti collocati nei livelli intermedi della società. Peggio ancora sono quelli che oggi si ergono a vittime delle querele temerarie promosse da governo e politica, e chiedono con forza una legge in materia, ma hanno fatto largo uso fino a poco tempo fa dello stesso strumento intimidatorio. Basti pensare al caso di Roberto Saviano che sparava querele a raffica contro ogni critica mossa nei suoi confronti e da lui percepita come lesa maestà del suo autodichiarato magistero morale, denunciando macchine del fango.

L’uso della querela come scudo
Nella mia esperienza di lavoro giornalistico ho visto arrivare nei giornali dove ho lavorato le querele più diverse. Ricordo colleghi denunciati perché avevano definito neofasciste o naziste organizzazioni della estrema destra che tali sono o ne agitano i temi. Questi gruppi mettevano in pratica lo strumento della querela sistematica per garantirsi una impunità d’immagine e di azione. E talvolta accadeva che in tribunali periferici trovavano anche il giudice che dava loro ragione. Erano fascisti ma lo non si poteva dire. Io stesso sono stato querelato da uno dei capi di Casapound anche se per lui non è andata bene. Un’altra volta fece pervenire al giornale una lettera che con il pretesto di chiedere una rettifica, ci riempiva di insulti. L’ho conservata come un trofeo. Ho assistito all’obbrobrio di un garante dei detenuti che ha querelato un ergastolano perché in una intervista aveva denunciato la sua rete clientelare. Per fortuna poi è stato travolto da una nota indagine che ha colpito la Capitale per i suoi rapporti con uno degli inquisiti.

L’uso della querela come bavaglio

Il nostro giornale e io stesso venimmo querelati da Saviano. All’epoca ero in semilibertà e l’esposto denuncia scritto dal suo legale era una sequela di ingiurie, killer della penna o roba del genere. Nonostante per Saviano quell’esperienza sia finita molto male, con postumi anche personali come ho letto tempo fa in una intervista, la notizia della sua clamorosa sconfitta in tribunale, era la prima volta in assoluto (la prima di molte altre che poi arrivarono), fu censurata da tutta la stampa. «Non possiamo dare ragione a un ex brigatista e distruggere l’immagine di Saviano», fu la risposta. Eppure aveva torto marcio, si era inventato una storia assurda che coinvolgeva la madre di Peppino Impastato. Privo del coraggio di querelare gli amici e familiari del giovane militante comunista ucciso dalla mafia che l’avevano criticato, attaccò me in giudizio perché avevo riportato le loro dichiarazioni. Pensava che fossi l’obiettivo più fragile, facile da colpire. Chi mai avrebbe dato ragione a un ex brigatista, per giunta ancora in esecuzione pena? Per correre ai ripari, fuori tempo massimo, aveva cambiato persino versione aggravando la sua menzogna, anche se nessuno gliene ha mai chiesto conto. Nel mondo del mainstream funziona così: non si fanno domande scomode. Ebbene, nonostante il giudice mi dette ragione censurando duramente la querela, si allungò di un anno e mezzo la mia detenzione in semilibertà che poi era l’obiettivo ricercato da Saviano: mettermi il bavaglio facendomi richiudere in cella. Anche le associazioni vittimarie degli anni 70 utilizzano lo strumento della querela per intimidire ex esponenti di quella stagione politica o chi fra i pochi intellettuali di questo Paese ha ancora il coraggio di esprimere posizioni che divergono dalla narrazione dominate su quel periodo. Spesso questi attori, che oggi assumono posture vittimarie ma ieri denunciavano chi faceva lavoro di informazione, si autorappresentano come dei cavalieri solitari, Robin Hood che agitano temi d’interesse pubblico contro i poteri forti anche se appartengono essi stessi a gruppi editoriali-finanziari, fazioni di potere, magari solo temporaneamente all’opposizione. Una situazione che complica le cose e ci fa capire che dietro al più generale tema del sacrosanto diritto alla critica e libertà di parola si cela anche uno scontro tra fazioni politico-economico-editoriali e finanziarie, tutte interne all’establishment.

Non solo querele ma anche giornalismo temerario

Avrete capito che il tema delle querele temerarie è questione delicata e complessa che investe un principio di tutela generale e costituzionale della critica e della libertà di parola ma anche il modo in cui si fa giornalismo. Perché, è bene sottolinearlo, esiste anche un giornalismo «temerario», oggi molto di moda, che cancella diritti e rispetto della persona e in particolare dei soggetti più fragili, diffonde fake news e impiega fonti poco trasparenti. L’esempio più eclatante che si può fare riguarda Report, una trasmissione di approfondimento che troppo spesso diffonde inchieste realizzate grazie alla collusione con apparati informativi vicini a strutture d’intelligence. Una pericolosa vicinanza, se non sovrapposizione, che fa del giornalismo una semplice cassetta delle lettere di veline interessate, informazioni riservate, camuffate con falsi invii anonimi o testimoni travisati, che settori dell’apparato lasciano uscire per favorire o screditare un’area o un personaggio della politica, della finanza o dell’economia. Il giornalismo indipendente è un’altra cosa.

Una singolare richiesta

La storia che sto per raccontarvi riguarda proprio questo modo di concepire il lavoro giornalistico. In questi giorni ho ricevuto una singolare «richiesta di rettifica» da una collaboratrice del Fatto quotidiano. La signora ha intimato me e il direttore dell’Unità, Piero Sansonetti, con cui collaboro, di modificare un articolo apparso lo scorso 2 aprile (lo trovate qui), presente anche in Insorgenze.net.
Nelle sue doglianze l’autrice della lettera sembra imputarmi la colpa di non aver posseduto le doti divinatorie che mi avrebbero permesso di prevedere il futuro, per questo chiede la rettifica di una breve frase da me scritta tre mesi prima che fosse avvenuto l’episodio di cui avrei dovuto dare notizia e lo fa, per giunta, con sei mesi di ritardo.
L’articolo raccoglieva le smentite di due ex brigatisti alle affermazioni attribuitegli da una informativa dei carabinieri nel corso di una intercettazione, per altro illegittima come stabilito dal tribunale, riguardo la presenza di un «altro uomo» tra i brigatisti presenti in via Fani. L’informativa era stata riportata con rilievo sul Fatto quotidiano del 14 marzo dell’anno precedente dalla stessa giornalista, che oggi avanza le rimostranze, citando in extenso il presunto nuovo nome per ben otto volte. A conclusione del mio pezzo accennavo in una riga al fatto che la vicenda aveva suscitato uno strascico giudiziario. La persona imprudentemente tirata in ballo l’aveva, infatti, citata in giudizio, ecco il testo: «La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo». E’ poi successo che nel giugno successivo il tribunale civile di Genova, dove si è discussa la causa, ha ritenuto assenti gli estremi per un risarcimento del danno nei confronti del denunciante. Lo riferisce la sentenza che gentilmente la dogliante ha allegato insieme alla richiesta di rettifica.

Via Fani e l’invenzione dell’uomo in più

Facciamo un passo indietro per capire meglio i fatti: nella informativa citata, redatta nell’ambito della nuova inchiesta sui fatti della Spiotta avvenuti nel lontano 1975, appariva per una sola volta un nome nuovo tra i componenti della commando che aveva agito in via Fani, tale «Moroni», intercalato da ripetuti riferimenti a «Morucci» e «Matteo», che era il nome di battaglia di quest’ultimo, condannato nel processo Moro. Come spiegavo nell’articolo, si era trattato di un classico caso di misnaming. In una semplice postilla posta in fondo al testo, dunque nemmeno in una informativa a lui dedicata, i carabinieri – al contrario – ipotizzavano che accanto a quel cognome «Moroni» si potesse accostare il nome «Giorgio», mai pronunciato nella intercettazione.
Si trattava di una vecchia conoscenza dell’Arma, o meglio di una spina nel fianco, perché quel Giorgio Moroni fu oggetto di un clamoroso fallimento investigativo dei carabinieri di Dalla Chiesa che scambiarono dei militanti dell’Autonomia con gli introvabili membri della colonna genovese delle Br. Giorgio Moroni ottenne giustizia dopo una procedura di revisione che non solo lo vide assolto ma certificò le prove di una montatura orchestrata da elementi dei carabinieri e dei Servizi, per vantare un clamoroso successo investigativo. Per questa vicenda ottenne anche risarcimento per l’ingiusta detenzione subita.
Nonostante fosse stata edotta su queste circostanze, riferite in buona parte dai carabinieri nella postilla e da Giorgio Moroni stesso, in un colloquio tra i due, l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano, senza che ci fossero mai stati sviluppi investigativi di alcun tipo, aveva senza scrupolo alcuno messo in pasto all’opinione pubblica quel nome, riportato ben otto volte nel pezzo. Sarebbe bastato non citarlo, o riportare le semplici iniziali, dando in questo modo comunque conto del fatto di cronaca, ma troppo ghiotta era l’occasione di rilanciare a ridosso dell’anniversario di via Fani l’ennesimo mistero ancora irrisolto (perché inesistente) del sequestro Moro: «gli interrogativi sulla identità e numero di persone che parteciparono al sequestro non hanno mai trovato una risposta definitiva», glissava la giornalista.

Il testo e il suo contesto

Messaggi temerari

Accanto al testo esiste un contesto, che in questo caso è decisivo: riproporre la solita litania dietrologica, la narrazione complottista di fronte alla quale qualunque scorrettezza e temerarietà appare giustificata. Nella sentenza leggiamo che lo stesso giudice conviene sulla «verosimile assoluta infondatezza delle parole pronunciate dall’Azzolini», oltre a dirsi «consapevole della sofferenza e comprensibile doglianza dell’attore (Giorgio Moroni ndr) per l’ennesimo coinvolgimento in vicende alle quali risulta essere del tutto estraneo, oggi come in passato». Il giudice riconosce dunque la legittimità in astratto della doglianza ma ritiene che questa «non costituisce elemento di contestazione nei confronti della giornalista», che si sarebbe limitata a riferire con «atteggiamento di scrittura assolutamente neutro» i contenuti di una informativa dei carabinieri. Semmai – suggerisce – questa andava rivolta all’indirizzo degli inquirenti. Un’affermazione quantomai inopportuna poiché è di fatto impossibile attaccare l’attività investigativa, dimostrandone dolo o colpa, salvo detenere il potere politico-amministrativo per esercitare una censura nei confronti di chi ha stilato la postilla contenuta nella informativa.
Una sentenza ampiamente autocontradditoria poiché «i canoni di verità, continenza e pertinenza» richiamati sono smentiti da alcune affermazioni presenti nella nota difensiva della giornalista, dove si affermava – riporta la sentenza – che Autonomia operaia, gruppo al quale aveva appartenuto Giorgio Moroni, era «ritenuta all’epoca la faccia della stessa medaglia delle Brigate rosse». Affermazione storicamente inesatta e pregiudizievole. Insomma se un antico detto riferisce che esiste un giudice a Berlino, a Genova a quanto pare non se ne è trovata traccia.

Quale giornalismo?
Ma quel che ai nostri occhi appare più disdicevole nelle motivazioni della sentenza è la concezione del lavoro giornalistico proposto, inteso come semplice megafono, stampella di informative provenienti dalle attività di indagine, tanto più se verosimilmente infondate, magari di verbali di collaboratori di giustizia che parlano di fatti riportati de relato, spesso antecedenti la loro stessa nascita. Come se il giornalista sia sprovvisto di autonome capacità di discernimento, privo di una propria sfera critica di valutazione che gli consenta di capire se ha davanti una falsa notizia, una informazione priva di riscontri o che necessita di ulteriori verifiche e approfondimenti. Ricordiamo che l’informativa dei carabinieri, fatta pervenire da mani amiche al Fatto quotidiano, venne pubblicata prima del rinvio a giudizio e dell’apertura del processo con il deposito completo e pubblico degli atti di indagine. Dunque prima ancora che i giornalisti e studiosi potessero ascoltare autonomamente il sonoro delle intercettazioni e capire se quella nota fosse stata presa in considerazione dalla procura. Una avventatezza che contrasta col noto decalogo del giornalista, riportato in una famosa sentenza di cassazione dell’ottobre 1984 (la potete trovare qui).

La nota di Stampa romana

Come se già non bastasse questa vicenda si è conclusa, lo abbiamo appreso solo durante la redazione di questo testo, con un comunicato dell’associazione Stampa romana che censurava l’azione giudiziaria «intentata da un ex militante dell’eversione», lamentando la necessità di una legge che tutelasse i giornalisti vittime di citazioni in giudizio temerarie (potete leggerla qui). Che Giorgio Moroni sia stato un ex militante è un fatto noto, da lui mai smentito e persino storicizzato in un volume sulla storia dell’Autonomia operaia a Genova; che sia stato un membro «dell’eversione» non sta scritto, invece, in nessuna sentenza poiché, oltre ad essere stato assolto e risarcito, risulta anche incensurato. L’affermazione dell’organo sindacale è dunque incredibilmente diffamatoria nei confronti di un libero cittadino che ha agito legittimamente a tutela dei propri interessi, come riconosciuto anche nella sentenza.
Ci auguriamo che quanto prima Stampa romana presenti le sue scuse a Giorgio Moroni mentre attendiamo che il Fatto quotidiano, e la giornalista che ha avanzato le sue rimostranze, colmi il debito di informazione che ha contratto con i suoi lettori, informandoli finalmente della smentita pronunciata dai due ex brigatisti sul presunto «uomo in più» presente in via Fani. Oltre a essere un atto dovuto, darebbe prova di onestà intellettuale!

Dopo la vignetta sui detenuti violentatori Vauro si spiega

Ho ricevo da un altro detenuto questa parodia della vignetta di Vauro che pubblico ancor più volentieri perché viene da un’intelligenza rinchiusa da quasi tre decenni

Vauro Senesi, tu pensi che i carcerati sono degli stupratori sei della stessa pasta di Fiorito
Guardare e vedere a volte sono cose diverse. Tutti noi guardiamo ma non sempre vediamo la stessa cosa. Per esempio, questa vignetta di Vauro Senesi che ha inaugurato stamani la sua collaborazione con il Fatto quotidiano, l’organo del partito giustizalista italiano, i manettari per farla breve, dopo aver lasciato di corsa il manifesto come i topi che fuggono dalla nave che affonda.
Vauro ora è nel suo ambiente naturale, come già lo era con Anno zero; da anni le sue vignette grondano questo tipo di risentimento da sotterraneo di questura.
Cosa vedete voi in questa vignetta?
Io intanto non vedo la porta. Sarà che in cella ci rientro ogni sera e dunque ho l’occhio abituato. Mi chiedo perché le celle di Vauro non hanno quasi mai il blindo. L’ho notato spesso nei suoi disegni sul carcere. Chi vi è dentro sembra murato come la monaca di Monza. I suoi interni carcerari sono claustrofobici. Continua a leggere

Link utili
Di Pietro e l’Idv da dieci anni sono le stampelle di Berlusconi
Congresso Idv, i giustizilisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra radicale
Avviso per il popolo viola: cambiate giornale il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano
Sgom, Diliberto la tua rabbia sarà la nostra gioia
Sgommiamo Oliviero Diliberto dalla scena politica

Violante contro Trasibulo e la democrazia ateniese: «L’amnistia è più fascista che democratica»

Escogitata dal democratico Trasibulo nel lontano 403 avanti cristo, a conclusione della guerra civile vinta contro gli oligarchi, l’amnistia per Luciano Violante è  – al contrario – un istituto giuridico tipico dei regimi autoritari, come quello fascista, o ancora non pienamente democratici, come l’Italia post-unitaria.
Tesi che non trova fondamento storico: dopo i massacri e la repressione seguita ai moti del 1848 in Europa, ed ancora di più sulle ceneri della Comune parigina, radicali, socialisti e blanquisti, cioè l’ala più progressista della borghesia e le prime organizzazioni politiche del movimento operaio, si riorganizzarono attorno alla parola d’ordine dell’amnistia, sulla quale fondarono o rifondarono la propria esistenza fino a farne una leva di liberazione più generale negli anni della Terza Repubblica francese. La sinistra politica e sociale ricostruì la propria legittimità grazie alla battaglia per l’amnistia che diverrà per buona parte del Novecento uno dei repertori più utilizzati, un vero e proprio segno identitario anteposto alle politiche repressive dello Stato, all’azione dei suoi bracci secolari: magistratura e forze di polizia. Gli Stati uniti d’America, fedeli allo loro costituzione, misero fine alla guerra civile tra unionisti del Nord e confederali del Sud con un’amnistia. Più recentemente, in Gran Bretagna, il moderatissimo Tony Blair nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati


di Paolo Persichetti

«Come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a «deporre il risentimento» (me mnesikakein, letteralmente «non ricordare i mali, non avere cattivi ricordi») nei confronti dei suoi avversari. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento. Non si trattava tanto, a ben guardare, di memoria e di dimenticanza, quanto di saper distinguere i momenti del loro esercizio».

Giorgio Agamben, il manifesto 23 dicembre 1997

«Il maggior numero di amnistie si è registrato durante il regime fascista: in 22 anni di dittatura ce ne sono state 51». Per Luciano Violante l’amnistia sarebbe dunque un’istituzione giuridica predemocratica. Lo ha detto con una bella faccia tosta durante il meeting di Comunione e Liberazione tenutosi a Rimini come ogni anno in pieno agosto. Erano i giorni in cui imperversava la polemica tra Scalfari e Zagrebelsky, innescata dallo scontro tra Quirinale e procura di Palermo attorno alla vicenda della trattativa tra Stato e Mafia e alle intercettazioni telefoniche nelle quali sono finite le voci del capo dello Stato e di un suo importante collaboratore.

Si rompe il fronte giustizialista
Sceso in difesa di Napolitano, Violante ha denunciato la pericolosità di un blocco politico-editoriale che farebbe capo «al Fatto quotidiano, Grillo e Di Pietro», e che starebbe «reindirizzando il populismo italiano verso un populismo giuridico», intenzionato – sempre secondo le sue parole – a «sostituire la democrazia con il processo penale per questo incita le procure a farsi levatrici di un nuovo ordine».
Populismo giuridico è un termine impreciso e fuorviante rispetto alle definizioni impiegate sull’argomento dalla letteratura scientifica negli ultimi venti anni, dalla pubblicazione nel 1997 del testo di Torbjorn Vallinder e Neal Tate, The Global Expansion of Judicial Power, nel quale si adoperava il termine “giudizializzazione”, ai testi francesi di Antoine Garapon e Dénis Salas che parlavano di “giudiziarizzazione”, paventando un governo dei giudici e una Repubblica penale; lavori ripresi in Italia da Carlo Guarneri sulla democrazia giudiziaria.
Al di là del neologismo imperfetto, la denuncia di Violante è apparsa molto forte e soprattutto sorprendente nella bocca di un esponente politico da sempre ritenuto il maggiore rappresentante del partito dei giudici, l’anello di congiunzione con le procure d’assalto insieme al blocco editorial-finanziario capeggiato da Carlo De Benedetti, il teorico di un sostanzialismo giuridico che vede nell’azione penale, nel protagonismo giudiziario, lo strumento principe dell’azione politica.
La rottura è forte anche perché ha messo fine a sodalizi antichi come il legame storico intrecciato con Giancarlo Caselli (oggi firma di punta del Fatto quotidiano) negli anni della guerra giudiziaria alla sovversione sociale e alla lotta armata per il comunismo nelle fabbriche, rinsaldata negli anni dell’antimafia quando Violante divenne presidente della commissione parlamentare (1992-1994) e Caselli procuratore della repubblica di Palermo (1993-1999) ed insieme condussero una manovra a tenaglia contro Andreotti e i suoi legami mafiosi, sponsorizzando la “banda del bacio” con i fedeli fgliocci Ingroia e Scarpinato a tentare in tutti i modi di provare la veridicità delle parole del pentito Di Maggio sul bacio d’iniziazione mafiosa che Riina avrebbe dato ad Andreotti. Anche questa finita in un plateale fallimento.
A questo punto è normale chiedersi se questa sortita sia la prova che qualcosa è veramente cambiato nella cultura politico-giuridica di Violante, ora che anche egli grida alle malefatte del giustizialismo. La risposta fornita contro l’amnistia, e soprattutto l’argomento prescelto, sembrano dirci di no anche se è vero che da circa un decennio il vecchio responsabile della sezione problemi dello Stato del Pci ha gradualmente elaborato una presa di distanze dalla stagione dell’interventismo giudiziario più sfrenato, priva tuttavia di qualsiasi accenno autocritico.

Il Frankenstein giustizialista non da più retta al suo inventore
Più che una rottura con la filosofia giustizial-emergenzialista, costruita attorno al mito della forza emancipatrice dell’intervento penale, quella di Violante appare solo un’azione di contrasto, un’opposizione tattica verso un fenomeno, il populismo giustizialista – di cui lui e il suo partito hanno perso da diverso tempo il controllo, dopo averlo lungamente accarezzato e sospinto negli anni in cui serviva a fare campagna contro Berlusconi.
Violante è consapevole che la dinamica politica avviata da Tangentopoli si è rivelata nel tempo un disastro per le sorti del suo schieramento politico, non solo perché ha favorito il fronte avverso consentendo il lungo regno berlusconiano ma soprattutto perché ha traghettato la società verso i lidi di un qualunquismo forcaiolo che come una valanga si abbatte ormai senza più alcuna distinzione sul ceto politico, fino a travolgere il deus ex machina del governo Monti.

Le amnistie del perido post-unitario e del Fascismo
Che il periodo repubblicano abbia dato luogo, come dice Violante, ad un minor numero di atti di clemenza è vero solo in parte. Una più durevole stabilità politica interna e internazionale (non ci sono state guerre, solo guerriglie, in Europa) e l’introduzione del voto parlamentare (per giunta divenuto ancora più restrittivo negli ultimi 20 anni, grazie proprio ad una sua iniziativa parlamentare), al posto della semplice volontà del monarca o del governo, hanno reso più laborioso il varo delle clemenze. Almeno 230 sono state quelle censite tra il 1861 e il 1943. Varate per fare fronte ad una lunga fase storica caratterizzata da periodi controversi: prima le violente repressioni post-unitarie, il brigantaggio, le rivolte agrarie, i moti popolari, le persecuzioni di anarchici e socialisti in un Paese dove la rappresentanza parlamentare restava censitaria. Successivamente due conflitti mondiali, il ciclo rivoluzionario degli anni 20 e l’avvento violento del Fascismo, che una volta stabilizzato ha fatto ricorso a numerose amnistie autolegittimanti contro gli oppositori politici, mantenendoli tuttavia sotto un rigido controllo poliziesco in luoghi di confino, spesso isole lontane.

Le amnistie nei due momenti della fase repubblicana
Dopo il 1944 i provvedimenti di clemenza sono stati in tutto 34: solo due negli ultimi 22 anni, ben 32 nel primo quarantennio della Repubblica. 18, tra il 1944 e il 1953, hanno sanato i postumi penali del conflitto bellico e della guerra civile; 3 amnistie-indulto sono intervenute negli anni 60 per chiudere l’epoca bellica e riequilibrare la repressione contro moti cittadini e lotte agrarie. Ancora 3 amnistie hanno affrontato il Sessanttotto e il successivo “Autunno caldo”. Altre 5 piccole amnistie, di cui 2 per reati tributari, sono state varate tra il ‘78 e l’86, poi c’è stato il provvedimento del 1990 concepito per compensare le disparità di trattamento tra vecchio e nuovo regime processuale provocate dal nuovo codice di procedura penale. Infine più nulla fino all’indultino del 2003 e all’indulto del 2006, varati per affrontare il sovraffollamento carcerario.
Non è vero dunque che il periodo repubblicano abbia fatto a meno della clemenza che la dottrina giuridica concepisce come uno strumento della politica penale in grado di calmierare gli eccessi repressivi o il perdurare oltre ogni ragione della punizione.

I provvedimenti di amnistia e indulto concessi dopo il 1943

Regio decreto 5 aprile 1944, n. 96. Amnistia e indulto per reati comuni, militari e annonari
Decreto Luogotenente 26 ottobre 1944, n. 17. Concessione di amnistia e indulto per reati in materia finanziaria
Decreto Lgt. 8 giugno 1945. Applicazione degli articoli 1 e 2 del Regio Decreto 5 aprile 1944, n. 96, nei territori liberati dopo il 4 aprile 1944
Decreto Lgt. 17 novembre 1945, n. 719. Amnistia per reati politici antifascisti.
Decreto Lgt. 29 marzo 1946, n. 132. Amnistia e condono per reati militari
Decreto Lgt. 29 marzo 1946, n. 133. Indulto per alcuni reati di mancato conferimento degli ammassi
Decreto Presidenziale 22 giugno 1946, n. 4. Amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari
Decreto Presidenziale 27 giugno 1946, n. 25. Amnistia per reati finanziari
Decreto legislativo 18 gennaio 1947, n. 244. Estensione dell’amnistia, dell’indulto e della grazia ai condannati in territori attualmente sottratti all’Amministrazione italiana
Decreto C.P.S. 1 marzo 1947, n. 92. Amnistia e indulto per reati militari in occasione del giuramento alla Repubblica delle Forze Armate
Decreto C.P.S. 8 maggio 1947, n. 460. Amnistia e indulto per reati riguardo ai quali vi è stata una sospensione del procedimento o della esecuzione per causa di guerra
Decreto C.P.S. 25 giugno 1947, n. 513. Amnistia e indulto per reati commessi in relazione con vertenze agrarie
Decreto Presidente della Repubblica 9 febbraio 1948, n. 138. Amnistia per reati finanziari
D.P.R. 28 febbraio 1948, n. 138. Amnistia per reati finanziari
D.P.R. 27 dicembre 1948, n. 1464. Concessione di amnistia e indulto in materia di detenzione abusiva di armi
D.P.R. 26 agosto 1949, n. 602. Concessione di amnistia e indulto per reati elettorali
D.P.R. 23 dicembre 1949, n. 929. Concessione di amnistia e condono in materia annonaria
D.P.R. 23 dicembre 1949, n. 930. Concessione di indulto
D.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 11 luglio 1959, n. 460. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 24 gennaio 1963, n. 5. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 4 giugno 1966, n. 332. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 25 ottobre 1968, n. 1084. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 22 maggio 1970, n. 283. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 22 dicembre 1973, n. 834. Concessione di amnistia in materia di reati finanziari
D.P.R. 4 agosto 1978, n. 413. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 9 agosto 1982, n. 525. Concessione di amnistia per reati tributari
D.P.R. 22 febbraio 1983, n. 43. Concessione di amnistia per reati tributari
D.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865. Concessione di amnistia e indulto
D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75. Concessione di amnistia
D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394. Concessione di indulto
Legge n. 207, 3 agosto 2003. Concessione del cosiddetto “indultino”
Legge n. 241, 31 luglio 2006. Concessione di indulto.


Un’invenzione della democrazia ateniese

D’altronde la prima amnistia di cui si ha notizia è concessa dal democratico ateniese Trasibulo nel 403 avanti cristo. Dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a «deporre il risentimento» (me mnesikakein, letteralmente «non ricordare i mali, non avere cattivi ricordi») nei confronti dei suoi avversari.
«Secondo me, amnistia è la parola più bella del linguaggio umano», faceva dire Victor Hugo a Gauvin, il personaggio che in Quattre-vingt-treize si oppone al giacobino Cimourdain e al vandeano Lantenac.
Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie.

Cosa è accaduto nel frattempo?
La finzione che presuppone il gioco democratico moderno, ovvero quel volersi proporre come il compimento stesso della politica, il grado più elevato della sua capacità inclusiva, si è trasformato in una gabbia totalitaria incapace di concepire l’altro da sè. Evocare l’amnistia equivarrebbe a voler riconoscere la persistenza di conflitti di fondo, la presenza di una disarmonia politica, ma la democrazia concepita come stadio finale della storia non lo accetta e così depolicizza il conflitto e criminalizza il nemico interno.
La soluzione starebbe nell’abbandono di quest’ipocrisia accettando l’idea del conflitto, unica residua possibilità di calare di nuovo l’idea di democrazia tra le rughe della storia, consentendo di recuperare quei necessari strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, dopo aver affrontato fasi traumatiche di scontro. Una bestemmia per gli attuali regimi che si vogliono democratici inchiodati ad un insanabile paradosso: ribadire la figura del nemico irriconciliabile nel momento in cui vorrebbero affermarsi come un modello di superamento dell’inimicizia politica.

Bibliografia utile
Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986, pp. 278
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

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Avviso per il “Popolo viola”: cambiate giornale. Il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano. Tra fascisti ci si intende

Letture consigliate – Le molte affinità elettive che legano la destra postfascista ai giustizialisti del Fatto quotidiano

«Il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano»

di Luciano Lanna
Il Secolo d’Italia 23 mrzo 2011

Tanti auguri al Fatto Quotidiano che oggi inaugura ufficialmente la nuova sede di via Valadier a Roma, dove la redazione si è trasferita dal primo febbraio, e festeggia i 18 mesi di vita e di successo. Lo facciamo anche perché lo si avverte davvero come un giornale con il quale condividiamo molte cose. Dalla presenza sulle sue colonne della firma del nostro amico Massimo Fini al fatto che molto ci accomuna al direttore e al vicedirettore, Antonio Padellaro e Marco Travaglio. «Mio padre è stato fascista convinto. Zio Nazareno, uno dei discepoli di Bottai», ha confessato tempo fa l’ex direttore dell’Unità Padellaro a Claudio Sabelli Fioretti. Aggiungendo: «I miei miti erano i grandi scrittori americani. Ma la bella stagione è durata poco. Sono stato immesso subito in questo meccanismo mostruoso che è il giornalismo». E ancora: «Non ho mai votato Pci in vita mia. Anzi votai Craxi quando diventò segretario. Ma venivo visto come uno strano giornalista non rassicurante in un posto importante…». Marco Travaglio, poi, montanelliano e di destra, ha ribadito le sue idee anche ieri sera in tv a Niente di personale di Antonello Piroso. E anche lui si era confessato con Sabelli Fioretti: «Non sono stato in Lotta Continua, né in Potere Operaio, né in Cl. Non sono mai stato iscritto a niente. Io sono anticomunista oggi come lo ero allora». Anzi, Travaglio ci tiene a ribadire di non avere niente a che vedere con qualsiasi sinistra: «Se non fosse Berlusconi il capo della destra, io starei lì!». E anche tutto questo, come il dato che Massimo Fini con i suoi libri – da La ragione aveva torto a Il ribelle – sia uno degli autori più letti a destra, è solo la conferma dell’anomalia italiana, quel mondo alla rovescia determinato dal primato dell’antipolitica che da una ventina d’anni allontana l’Italia dagli altri paesi europei. Poi non è di sinistra, ma è da sempre un liberale doc, il responsabile dell’inserto settimanale del Fatto dedicato alla cultura, Riccardo Chiaberge: «Da quando è uscito – dice Padellaro – abbiamo 4mila lettori in più».

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Macchina del fango sul movimento: gli infiltrati di Vauro Senesi e la stupidità sulla punta della sua matita

Paolo  Persichetti
Gli Altri 24 dicembre 2010

Con questa stupida vignetta, per non utilizzare altre definizioni ben più appropiate, come quella di infame (perché addita al pubblico ludibrio una categoria sociale in lotta, ne stupra l’identità e le ragioni spacciandola per il suo contrario) apparsa sul manifesto del 16 dicembre 2010, Vauro Senesi ha inteso riassumere il senso della giornata nazionale di protesta del 14 dicembre a Roma

Vignetta di Vauro apparsa sul manifesto di giovedì 16 dicembre

Il vignettista del manifesto e di Anno zero, noto per le sue posizioni giustizialiste, sposa appieno la linea del Pd, espressa dalla senatrice Anna Finocchiaro, e soprattutto dal suo segretario di partito, Oliviero Diliberto, che hanno subito gridato alla presenza di infiltrati negli scontri avvenuti durante e alla fine dell’imponente manifestazione del 14 dicembre. La vignetta è una citazione di un’altra famosa vignetta di Giorgio Forattini che nel 1977 raffigurò il poliziotto Giovanni Santone camuffato da manifestante (immortalato da Tano D’Amico nel corso degli scontri dove fu uccisa dalle forze dell’ordine Giorgiana Masi) con la testa del ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Foto e vignetta sottolineavano la decisione presa dall’allora ministro dell’Interno di utilizzare agenti travestiti per sparare contro i manifestanti (non certo contro la polizia). Con una ellisse Vauro mette accanto alla vecchia immagine quella del giovane manifestante fotografato durante gli scontri del 14 dicembre con maganello e manette, appena raccolti in strada come trofei, ma questa volta con il volto dell’attuale ministro degli Interni, Robero Maroni. Un modo per dire: infiltrati di allora, infiltrati di oggi.
Alcune sequenze fotografiche che raffigurano un manifestante in diversi momenti degli scontri di martedì, prima con dei fumogeni, poi con una pala, successivamente nell’atto di lanciare pezzi di arredo urbano contro le forze di polizia, infine con un manganello e un paio di manette in mano in uno dei momenti di maggiore tensione della giornata (l’aggressione ad un finanziere da parte di altri manifestanti); avevano indotto alcuni organi d’informazione e diversi siti internet, adusi da sempre alla dietrologia, a supporre la presenza di agenti provocatori infiltrati per suscitare e fomentare gli incidenti. Una tesi cara alla sinistra istituzionale che fin dal dopoguerra si autoconsola con questa favola ogni qualvolta tumulti e movimenti sociali imprevisti scavalcano le sue posizioni ponendo questioni politiche scomode. I giustizialisti del Fatto avevano titolato, “Hanno vinto i peggiori”, associando il rigetto della sfiducia votato dal parlamento con la piazza che aveva partecipato agli scontri, dimenticando che due dei tre voti decisivi per il salvataggio di Berlusconi provenivano dall’Idv di Di Pietro, punto di riferimento politico proprio del Fatto (per poi dare sul loro sito online un contributo di verità diffondendo le immagini che chiarivano ogni cosa sull’accaduto, mostrando che dietro quel manifestante travisato c’era un ragazzo, nel frattempo fermato, risultato minorenne). Il teorema degli infiltrati e della minoranza cattiva dei black bloc, che avrebbe prevaricato la maggioranza docile e pacifica del corteo, veniva ripreso dai soliti giornalisti di Repubblica che immediatamente pubblicavano una lettera di Roberto Saviano al movimento. Flop strepitoso, errore di marketing notevole del quotidiano repubblichino e dell’agenzia emergenziale che utilizza Saviano come portavoce. Le retoriche amenità del predicatore sono miserabilmente fallite. Utilizzandolo come pompiere i suoi mandanti speravano che l’autorità acquisita dopo l’imponente battage mediatico costruito attorno all’evento industrial-editoriale di Gomorra, alla postura di martire perseguitato sapientemente diffusa sui media, potesse influire e orientare politicamente i giovani manifestanti addomesticandone i propositi e domandone i comportamenti ma la lettera è stata rinviata al mittente. Nemmeno la logorroica replica del giorno successivo, una tripla pagina di R2, è servita. D’altronde uno che dice agli studenti di scendere in piazza a viso aperto ma si nasconde dietro una scorta di polizia, che passa le vacanze nella villa del banchiere Alessandro Profumo, che si incontra col finanziere Carlo De Bendetti,  che è al libro paga contemporaneamente del gruppo Espresso-Repubblica, della Mondadori e di Mediaset via Endemol, un po’ come Arlecchino servo di due padroni, come può pretendere di salire sul pulpito per lanciare prediche ad una generazione precaria? L’evento sociale del 14 dicembre ha fatto da spartiacque, da cartina di tornasole, da prova della verità squarciando il velo di ipocrisia e menzogna che ammanta operazioni di orientamento dell’opinione pubblica come quella che impiega il soldato Saviano. Repubblica nei giorni successivi è corsa ai ripari, rettificando linea politica e pubblicando analisi molto più comprensive di quanto avvenuto il 14 dicembre.
Nel frattempo del misterioso manifestante si è venuto a sapere tutto, nome e cognome, percorso scolastico, età, storia dei genitori. Fallita l’operazione “infiltrato” è stata subito messa in piedi quella sui “cattivi maestri”. “Figlio di un brigatista” hanno scritto alcuni giornali.  S.M. non poteva restare un semplice liceale minorenne come molti altri suoi coetanei scesi in piazza, doveva essere per forza uno sbirro o un adolescente brigatista, che per i teorici della dietrologia equivale più o meno alla stessa categoria degli agenti provocatori esterni al movimento. Se fosse stato veramente figlio di un ex militante delle Brigate rosse – complesso di Edipo permettendo – ovviamente non ci sarebbe stato nulla di male. Ma la realtà è diversa, oltre a non esser vero (il padre è stato coinvolto negli anni 70 in vicende legate ad ambienti dell’autonomia) la falsa notizia era solo funzionale ad alimentare una ulteriore campagna distorsiva sulla realtà del movimento. Riconsegnato alla famiglia dopo il fermo, come prevede la legge per i minorenni, la notorietà attribuita alle sue gesta, le fortissime polemiche politiche che hanno chiamato il ministro dell’Interno a rispondere in parlamento, hanno alla fine provocato l’arresto del giovane e il suo rinvio a giudizio per  “rapina aggravata” delle manette e del manganello, in realtà abbandonati durante gli scontri. Dopo questo bel risultato ottenuto ci aspettiamo che tutti i partecipanti a questa fiera della stupidità, a partire dalla senatrice Anna Finocchiaro, passando per l’ex ministro della Giustizia Oliviero Diliberto fino al vignettista Vauro Senesi, si adoperino per aiutare la famiglia del ragazzo versando una parte dei loro emolumenti per sostenerne la difesa giuridica. Se ciò non dovesse accadere sarebbe più che normale che incontrandoli nei prossimi cortei gliene venga chiesto conto.

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