Estradizioni, il diritto virtuale italiano
Valentina Perniciaro
L’Altro 16 settembre 2009

Le uniche volte che il nostro paese è riuscito a prendere alcuni militanti della lotta armata riparati all’estero è stato possibile solo grazie alla frode, ad accordi sottobanco, a manovre che hanno aggirato leggi e trattati internazionali. Nel 1987-88 tre militanti accusati di partecipazione a banda armata arrivarono dopo una poco chiara triangolazione con Spagna e Francia, dove in quel momento Mitterrand affrontava la sua prima coabitazione e ministro dell’Interno, coautore dell’intera operazione insieme a quello italiano, era Charles Pasqua. Personaggio noto per gli intrighi e i metodi spicci affidati ad operazioni coperte dei servizi. Allora la Francia espulse in Spagna i tre italiani, richiesti dalla nostra magistratura per una processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia. Nel Frattempo la Spagna aveva negoziato lo scambio dei tre con quello di un militante basco accusato di appartenere all’Eta e da mesi detenuto Rebibbia. In questo modo non solo venne aggirata la dottrina Mitterrand ma lo stesso trattato che regolava la materia delle estradizioni tra paesi europei. Ai tre, per fortuna, andò bene perché nel corso dei processi le loro posizioni si alleggerirono. Alla fine scontarono “solo” alcuni anni di detenzione preventiva. Non è stato così per la prima “estradizione” diretta dalla Francia, quella di Paolo Persichetti nell’agosto 2002. Un polverone mediatico accompagnò l’episodio, volgarmente festeggiato con un brindisi a villa Certosa da Berlusconi e i suoi sodali durante una cena in cui era presente anche mamma Rosa. All’annuncio, dato via telefono dall’allora capo della polizia De Gennaro al ministro degli Interni Beppe Pisanu presente alla festa, si levò un coro di applausi e qualcuno invitò a levare i bicchieri in aria per brindare alla caccia riuscita. Non si trattava di un’estradizione realizzata secondo i crismi dei trattati europei ma di una consegna speciale. Erano gli anni in cui a livello internazionale era entrata in voga la prassi delle extraordinary rendition e da noi Cia e Sismi rapivano Abu Omar, l’Iman di via Quaranta a Milano mentre funzionava a pieno regime l’agenzia di disinformazione di Pio Pompa. Il vecchio decreto d’estradizione che pesava sulla testa di Persichetti, firmato nel 1994 dal primo ministro francese Balladur nel corso della seconda coabitazione (destra al governo e il socialista Mitterrand all’Eliseo), non era più valido perché due delle tre condanne inflitte erano prescritte. Per riaverlo l’Italia imbastì un’enorme montatura giudiziaria esportando a Parigi la pista investigativa che avrebbe dovuto condurre a scoprire gli autori dell’attentato mortale contro Marco Biagi, avvenuto pochi mesi prima. Gli investigatori bolognesi crearono di sana pianta la «pista francese», una pesante campagna stampa venne orientata contro gli esuli ritenuti gli animatori del «santuario parigino della lotta armata». Non c’era nulla di vero. Semmai a Parigi c’era la centrale politica dell’amnistia, una spina nel fianco da sempre mal sopportata dalle autorità e dalla magistratura italiana. Arrestato in serata, nel corso della notte Perichetti venne trasferito e consegnato all’alba sotto il tunnel del Monte Bianco. Viste le accuse indicate nelle rogatorie internazionali e l’inchiesta sull’attentato Biagi che l’aspettava in Italia, Persichetti avrebbe avuto il diritto di dimostrare la propria estraneità nel corso di una nuova e regolare procedura di estradizione, che mai ci fu.

Consegna straordinaria di Rita Algranati
Nel 2004 fu il turno di Rita Algranati e Maurizio Falessi, riparati da anni in Algeria. Vennero consegnati via il Cairo alla Digos dopo un accordo con i servizi algerini. Nessuna procedura d’estradizione, nessun giudice ha mai valutato se le pretese italiane fossero fondate, le accuse di natura politica o meno, i processi coretti. Nessun timbro o decreto ha mai sancito e reso legale quell’episodio. Fu un atto di pirateria internazionale, un’azione di contrabbando di vite umane. Presi e caricati a forza su un volo diretto in un paese terzo, ad attenderli trovarono le autorità italiane che preventivamente avevano concordato il tutto. Per giunta dopo un anno di carcere le condanne di Falessi risultarono prescritte. È arrivata poi la vicenda Battisti. Prima in Francia, dove il grosso della battaglia giudiziaria ruotò attorno alla contumacia. La tesi italiana era che questa non inficiava minimamente il diritto alla difesa, soprattutto perché a detta degli italiani Battisti aveva comunque nominato dalla latitanza un legale di fiducia. In realtà uno dei primi avvocati di Battisti venne arrestato per un certo periodo, mentre la nomina del secondo, si è poi accertato, era frutto di un falso. Tuttavia ancora non bastava. Bisognava convincere i giudici di una chambre d’accusation che seppur ben disposti erano comunque vincolati da leggi e giurisprudenza. Alla fine l’Italia strappò l’avviso favorevole sulla base di una promessa, il varo di una legge che avrebbe consentito alle persone condannate in contumacia di chiedere la riapertura del processo. Non si era mai visto che qualcuno venisse estradato in virtù di una legge che ancora non c’era. Era l’inizio del diritto virtuale all’italiana, la giustizia creativa che seguiva il solco delle evoluzioni della finanza. In effetti, una modifica derisoria dell’articolo 175 del codice di procedura venne poi introdotta, ma questa non ha mai previsto automatismi. È rimasto sempre un collegio di giudici a vagliarne la pertinenza. Così la Francia concesse l’estradizione sulla base dell’ennesimo raggiro: la promessa della riapertura di un processo che non sarebbe mai venuto, prova ne è il fatto che di fronte al Supremo tribunale brasiliano si discute d’ergastolo. Il Brasile ne chiede la commutazione, l’Italia risponde che non ce n’è bisogno perché si tratterebbe di una «pena virtuale». Ma il Brasile si farà fregare come la Francia?
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confronti dei fuoriusciti riparati in Francia. Tra questi il primo a cadere nella rete è stato Cesare Battisti, attorno alla cui vicenda si è aperta un‘accesissima disputa giuridica e storica che ha chiamato in causa temi molto rilevanti: l’esercizio o meno della giustizia d’eccezione, il rapporto con il passato, il ruolo e l’uso politico della memoria; oppure questioni etiche come l’evocazione del male, il problema della colpa e dell’eventuale elaborazione sociale del lutto. Una discussione ampia e dai toni spesso crudi, a volte persino impropri e caricaturali, che dimostra come i passati rivoluzionari fatichino a diventare storia. Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che non diventano memoria, ma sono solo ostaggio di quel che riserverà la storia. Non un passato che torna ma un futuro che manca. Oltre trent’anni ci separano dall’inizio della lotta armata, almeno quindici dalla sua conclusione, riconosciuta con documenti politici e dichiarazioni ufficiali, tra il 1987 e il 1989, dagli stessi protagonisti. L’80% dei prigionieri è in carcere da un periodo che oscilla tra i 21 e i 26 anni; i restanti almeno da 16. Poi ci sono i casi estremi, come quello di Paolo Maurizio Ferrari rinchiuso da trent’anni. Tutto ciò non appaga affatto i partigiani della certezza della pena. I fautori della legalità ritengono, infatti, che vi siano tuttora conti aperti, anche quando le indagini hanno dimostrato che i due attentati del 1999 e del 2002, venuti inaspettatatamente ad interrompere oltre un decennio di silenzio, nulla hanno a che vedere con il passato e tanto meno con un fantomatico “santuario francese”, inizialmente accreditato dalle autorità per giustificare le estradizioni. La coazione a ripetere vuoti gesti del passato, era solo l’opera di un piccolo gruppo che ha trovato conforto nei suoi propositi grazie alla rimozione degli anni 70, al rifiuto ostinato dell’amnistia che ha congelato il tempo e cristallizzato le epoche, tentando di impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi.
In realtà l’esperienza italiana ha innovato il repertorio classico dello stato d’eccezione, mettendo in pratica un modello molto diverso da quella situazione di “sospensione” o “vuoto” del diritto di cui ha recentemente scritto il filosofo Giorgio Agamben (Lo stato d’eccezione , Bollati Boringhieri 2003). L’Italia non ha affatto sospeso il diritto ordinario; non ha avuto bisogno di dotarsi di giurisdizioni speciali (troppo forte era il ricordo del tribunale speciale fascista). Al contrario ha stravolto, deformato, inquinato il diritto penale corrente, camuffando sapientemente l’eccezione e rendendola in questo modo permanente. L’Italia ha fatto a meno di giudici militari perché, sotto la toga, la magistratura ordinaria ha indossato l’uniforme dello Stato etico, sposando una vocazione purificatrice e combattente del proprio ruolo, dotandosi di un potentissimo arsenale penale speciale. Larghi settori della società italiana rimproverano i prigionieri e in rifugiati di non aver mai fatto atto di pubblico pentimento e per questo di aver eluso il senso di colpa, mantenendo per giunta un atteggiamento ambiguo nei confronti di una cultura politica che non esclude il ricorso alla violenza. Il superamento del passato resta ancora un terreno di controversia. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate, da discutere con le tecniche fredde e puntigliose delle scienze sociali; per i media, per la quasi totalità del ceto politico e per larghi settori della società civile è tuttora una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa del passato una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze, che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Un percorso a senso unico che pretende di imporre i valori dei vincitori come l’orizzonte della maturità.
qualcosa che racchiude il massimo d’irrealismo politico e d’immoralità etica. Strano destino quello di un istituto nato con la democrazia ateniese e divenuto