Il favoloso mondo di Maria Antonietta Calabrò

Nel mondo incantato della dietrologia, Virginio Rognoni, il ministro democristiano che autorizzò le torture diventa complice dei torturati

Virginio Rognoni «il reticente». Così lo descrive Maria Antonietta Calabrò in un articolo apparso su Repubblica del dicembre scorso e tornato d’attualità dopo la sua recente scomparsa, il 19 settembre 2022 (l’articolo della Calabrò è qui: https://www.repubblica.it/commenti/2021/12/18/news/calabro-330711621/). Come vedremo più avanti, Rognoni reticente certamente lo è stato ma non per le ragioni esposte dalla Calabro che accusa l’ex esponente della sinistra democristiana, negli anni 90 entrato nel Partito popolare di Martinazzoli e infine nella Margherita, ministro dell’Interno, della Giustizia e della Difesa tra il giugno 1978 e l’inizio degli anni 90, di aver snobbato la Commissione Moro 2. Secondo la giornalista, portavoce dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni (ex andreottiano) e coautrice del volume, Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta, Lindau 2019), anche Rognoni sarebbe stato coinvolto, come altri suoi compagni di partito, nel presunto patto di omertà stipulato tra brigatisti ed esponenti della Democrazia cristinana per celare le verità indicibili sul sequestro Moro.
Su questo enorme falso storico si rivia a Il patto di omerta? Un falso come i Protocolli dei saggi di Sion (La Polizia della storia, la fabbrica della fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2022, pp. 220-226).

Sulla tortura tacciono tutti
Nel suo articolo Calabrò inanella una lunga serie di notizie false, bugie, invenzioni, a cui ha risposto nei giorni scorsi Vladimiro Satta, elogiando dal suo punto di vista la figura di Virginio Rognoni (In memoria di Virginio Rognoni e per la verità storica). Tuttavia nel ritracciare – seppur in forma indiretta – l’attività di governo dell’esponente Dc, in anni dove più incisiva fu l’azione di contrasto alla lotta armata fino alla conclusione del fenomeno, Satta avrebbe fatto bene a ricordare anche il ruolo centrale che nel 1982 l’allora ministro dell’Interno ebbe nella decisione di introdurre la tortura come mezzo sistematico di interrogatorio nelle indagini contro i gruppi della sinistra armata. Risulta difficile accettare un’omissione del genere a quarant’anni dai fatti e in presenza ormai di una importante mole di testimonianze (leggi qui), ammissioni degli stessi torturatori e riconoscimenti provenienti anche dalla magistratura (vedi qui la docuserie pasata su Sky, il recente film il Tipografo che ha vinto il primo premio come miglior lungometraggio al festival «Visioni del cinema» di Milano).
Insieme a Cossiga, Rognoni è stato una delle figure politiche centrali della stagione dell’emergenza e per certi aspetti il suo ruolo appare addirittura superiore. Come ricorda lo stesso Satta fu Rognoni appena insediatosi al Viminale nel giugno del 1978 a richiamare il generale Dalla Chiesa fornendogli quei poteri speciali che gli permisero di rimettere in piedi la rete delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri. Un particolare apparato di polizia che agiva come forza d’intelligence, quindi sotto copertura, e di polizia giudiziaria: un ibrido assoluto proprio dei sistemi d’eccezione (vedi il documentario su Sky sulla storia della sezione speciale antiterrorismo dei cc di Roma).
Oltre ad aver guidato la stagione che vide imperversare l’apparato ministeriale che praticava il «trattamento» agli arrestati (waterboarding e altre sevizie), Rognoni ha gestito la fase più acuta della legislazione speciale d’emergenza, la politica dei pentimenti con il corollario della strage di via Fracchia e la seconda legge sulla dissociazione. E se è vero che la decisione di ricorrere alle tecniche di interrogatorio «non ortodosse» fu presa collegialmente dal governo, nel corso di una riunione del Comitato per l’informazione e la sicurezza che riuniva i ministri competenti, tenutasi l’8 gennaio 1982 (nel corso della riunione il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini richiamò più volte i presenti alla riservatezza sulle decisioni prese (Acs, Pcm, 8 gennaio 1982), toccò al ministro dell’Interno il compito di rendere operativa la decisone attraverso il capo della polizia e il responsabile dell’Ucigos. Chiamato in parlamento per rispondere su una parte delle violenze emerse durante gli interrogatori e denunciati dalla stampa, costati per altro l’arresto di alcuni giornalisti (L’arresto di PierVittorio Buffa de l’Espresso e Luca Villoresi di Repubblica), Rognoni provò a circoscrivere i fatti relegandoli a fenomeni episodici dovuti alla tensione e alla emotività delle forze dell’ordine implicate in indagini difficili. Anche a decenni di distanza non mutò atteggiamento ribadendo questa versione dai fatti (Virginio Rognoni, le torture? L’emotività era forte) nonostante dalle indagini della magistratura fosse emerso un quadro molto diverso. Stessa immutabile omertà istituzionale anche quando cominciarono a filtrare le testimonianze dei funzionari di polizia direttamente implicati nelle violenze. Un mutismo che non può non interrogare gli storici e pesare nel giudizio finale sulla sua figura politica e su quella intera stagione.

Tutta colpa del Lodo
Le prime indiscrezioni sulla esistenza di quello che successivamente venne definito «Lodo Moro» emersero – come ricorda lo stesso Satta nella sua replica – almeno fin da quando lo stesso Moro ne accennò nella lettera a Taviani durante il sequestro. Per sostenere la linea della trattativa il dirigente democristiano ricordava ai suoi compagni di partito la riconsegna di alcuni combattenti palestinesi arrestati dalle forze di polizia. Questione che solo recentemente ha visto emergere alcune acquisizioni documentali importanti e i primi approfondimenti storiografici. Grazie a questi lavori sappiamo che di «Lodi» ve ne furono diversi su scala europea e nell’ambito di quella politica mediterranea che mirava a fornire all’Italia gli approvvigionamenti petroliferi che mancavano alla sua importante industria di trasformazione. Ancor prima della messa in sicurezza del territorio italiano dagli effetti del conflitto palestinese-israeliano, l’asse strategico che mosse le scelte di politica estera italiana guardavano al petrolio, mondo da dove per altro pervenivano i finanziamenti alla corrente politica morotea. L’accordo stipulato con alcune organizzazioni palestinesi fu uno strumento di questa strategia nell’intricato puzzle mediorientale.
Secondo la Calabrò, che in questa circostanza non fa altro che riprendere la narrazione vittimaria diffusa dai settori atlantisti più oltranzisti e da Israele, l’accordo con i palestinesi non mirava a trasformare l’Italia in un territorio neutro, posto al riparo da attività belligeranti, in cambio del quale l’Italia avrebbe offerto sostegno politico alla causa palestinese nelle sedi internazionali, libertà di transito di uomini e armi con modalità concordate (agli Israeliani era già concesso da decenni), ma al contrario avrebbe stipulato l’autorizzazione, o un sostanziale atteggiamento di «non interferenza», alla realizzazione di azioni armate in territorio italiano purché gli obiettivi fossero stati solo «israeliani, ebrei o americani».
Non solo al giorno d’oggi non sono mai emerse prove documentali a sostegno di questa tesi ma la semplice constatazione di quanto è avvenuto dal momento della stipula degli accordi dimostra l’esatto contrario. Dopo il 1973, anno cruciale e tormentato che innescò l’avvio della trattativa a seguito del clamoroso attentato sventato contro l’allora premier israeliano Golda Meir da parte di un commando palestinese e il successivo massacro di Fiumicino del settembre 1973, da molte parti spiegato come un sabotaggio di matrice libica al Lodo in gestazione e che avviò a sua volta il coinvolgimento del regime di Gheddafi in questi accordi (e l’attentato di matrice israeliana contro Argo 16, l’aereo Douglas C-47 Dakota dei Servizi segreti italiani che aveva ricondotto in Libia alcuni dei guerriglieri palestinesi catturati), non ci furono più attentati di matrice arabo-israeliana in Italia. Una tregua di sette anni interrotta nell’ottobre del 1981 dall’uccisione da parte israeliana di un esponente dell’Olp all’interno dell’Hotel Flora in via Veneto a Roma. Il conflitto palestinese-israeliano era giunto in Italia il 16 ottobre 1972 con con l’uccisone da parte di un commando del Mossad dell’intellettuale e poeta palestinese Zuaiter che svolgeva il ruolo di rappresentante dell’Olp. L’assassinio si inquadrava nell’azione di rappresaglia che Israele aveva pianificato contro Settembre nero (a cui Zuaiter non apparteneva), l’organizzazione della guerriglia palestinese responsabile del sequestro della squadra israeliana che partecipava alle olimpiadi di Monaco. Dopo l’invasione israeliana del sud del Libano e la cacciata delle formazioni palestinesi e il successivo massacro di civili (in prevalenza anziani, donne e bambini) nei campi palestinesi di Sabra e Chatila da parte delle formazioni cristiane della destra maronita appoggiate dall’esercito Israeliano, si scatenò una nuova ondata di attentati palestinesi in Europa. Tuttavia a colpire in Italia nell’ottobre 1982 con una attentato condotto per la prima volta contro un obiettivo religioso, la Sinagoga della comunità ebraica romana dove morì un bambino e vi furono diversi feriti, fu una formazione palestinese non coinvolta nel Lodo e che non aveva mai agito in precedenza sul territorio italiano. Circostanza che probabilmente spiega la sottovalutazione e l’incomprensione di alcune informative pervenute prima dell’episodio. Moro, il maggiore artefice anche se non il solo della politica dei Lodi, era morto da quattro anni e al governo c’era l’iperatlantista Giovanni Spadolini, ostile alla politica meditarranea, convintamente antiarabo e filoisraeliano. Un premier sicuramente contrario ai Lodi. E’ dunque probabile che questa nuova linea di politica estera abbia portato ad un raffreddamento delle relazioni con i contatti palestinesi al punto da non riuscire più a decifrare correttamente quel che stava avvenendo nella galassia Fedayn dopo i massacri dei civili nei campi profughi e prevenire eventuali attacchi sul territorio italiano. L’unico Lodo sul quale si possono nutrire fondati dubbi riguardo a una sostanziale indifferenza rispetto ad attentati commessi sul territorio italiano, è sicuramente l’accordo con i libici. Ne è la riprova il fatto che dopo il 1980 Gheddafi scatenò una feroce caccia ai propri oppositori che avevano trovato rifugio in territorio italiano. Vi furono numerosi omicidi realizzati da sicari del regime che una volta catturati vennero regolarmente riconsegnati dopo breve tempo al Rais.
La studiosa Valentine Lomellini, Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, Laterza, ritiene che per Lodo deve intendersi, in realtà, «un processo dinamico di negoziazione continua» che «si adattò al mutare degli interlocutori coinvolti». L’autrice dello studio suggerisce anche di chiamarlo «Lodo Italia», anziché Moro perché coinvolse i vertici delle istituzioni: Rumor prima, Andreotti successivamente e Craxi negli anni 80, insomma fu una stretegia di politica estera condivisa anche dall’opposizione, ovvero il Pci.

Haddad non Habash
Scrive Calabrò: «Quando egli [Moro] venne rapito dalle Br, operarono sul campo terroristi tedeschi della Raf gestiti dalla Stasi della Ddr, in stretto contatto con i terroristi palestinesi. Mentre a Berlino Est aveva trovato stabile rifugio proprio George Habbash, leader del Fplp, il “firmatario” palestinese dell’accordo con l’Italia».
Era Wadie Haddad e non George Habbash ad aver trovato rifugio stabile in Ddr. La Calabrò confonde i due nomi, il che la dice lunga sulla sua comprensione della complicata realtà palestinese. Per giunta nel 1978 Haddad era in fin di vita a causa di un avvelenamento, come mi ha ricordato recentemente Gianluca Falanga, realizzato con molta probabilità dal Mossad. Wadie Haddad, lo stratega dei dirottamenti aerei e delle azioni palestinesi in Europa, non era certo in grado di organizzare alcunché. George Habash era invece la gola profonda del colonnello del Sismi Giovannone, provenivano da lui le informazioni racconte nel cablo del 18 febbraio 1978 ed era la sua organizzazione ad aver stipulato uno dei Lodi, come riconosce anche Calabrò. Il livello di collaborazione col Sismi aveva raggiunto un livello di integrazione notevole tanto che un suo uomo in Italia era addirittura sostenuto economicamente da Giovannone. Come può sostenere Calabrò, e con lei Fioroni, che una delle organizzazioni più coinvolte nel Lodo Moro abbia organizzato e partecipato al rapimento e alla uccisione del suo artefice? Prima della totale inesistenza di prove fattuali e di rapporti con le Brigate rosse è la logica stessa che viene meno ad una affermazione del genere. Al punto che la Calabrò aggiunge ridicolo al ridicolo quando prova a risolvere il dilemma sostenendo che il vero artefice del Lodo con i palestinesi fu Andreotti (che semmai se ne occupo’ successivamente) e non Moro.

Via Monte Nevoso e il documento sulla Nato scritto da Bonisoli
Scrive ancora Calabrò: «Quando fu scoperto il covo Br di via Montenevoso, dove (sappiamo oggi) venne ritrovata la copia di documento riservatissimo relativo all’organizzazione Stay Behind della Nato».
Anche qui siamo all’ennesima fake news. Il «documento riservatissimo» altro non era che un dattiloscritto realizzato da Franco Bonisoli, esponente della Comitato esecutivo e dirigente della colonna milanese delle Br. Una relazione sulla evoluzione delle politiche Nato in Europa tratta da riviste specializzate e ritagli di giornale ritrovati ben ordinati in una cartellina all’interno stesso archivio di Monte Nevoso. L’analisi del contenuto realizzata dai Carabinieri ha riscontrato assonanze e citazioni prese dal materiale appena citato. Anziché leggere Sergio Flamigni sarebbe bastato consultare le carte del verbale di sequestro per evitare di scrivere simili baggianate (vedi immagine documento).

Prima pagina del documento sulla Nato ritrovato in via Monte Nevoso Migs busta 13

Il falso cartellino segnaletico di Casimirri
Casimirri non venne mai arrestato nel maggio del 1982 come scrive Calabrò. Il cartellino segnaletico fatto pervenire nel 2015 alla Commissione Moro 2 è un falso grossolano già accertato nel corso delle successive attività della Commissione stessa. A provarlo, oltre alle irregolarità presenti nel cartellino stesso, è la foto che vi è presente: ripresa dalla patente di guida che ritrae un Casimirri diciannovenne. Manca infatti la fotosegnalazione che viene presa al momento dell’arresto, frontale e laterale, e che avrebbe dovuto raffigurare un uomo di 31 anni (Casimirri è nato nel 1951), molto più simile alla foto presente sulla sua carta d’identità.

Il falso cartellino fotosegnaletico raffigurante Alessio Casimirri diciottenne anziché trentunenne

La foto raffigura Casimirri nell’agosto del 1977 all’età di 26 anni

La domanda giusta allora era un’altra: chi è perché ha inviato quel falso grossolano alla Commissione, ritenuta evidentemente talmente ingenua e impreparata da poterlo prendere sul serio, come poi è accaduto? La Calabrò avrebbe fatto meglio a trovare una risposta a questa domanda. Su questo argomento ritorneremo prossimamente, intanto chi vuole saperne di più può leggere La polizia della storia, la fabbrica delle fake news, Deriveapprodi 2022, alle pp. 230-234.