Massimo Papini assolto, «Non faceva parte delle nuove Br»

Crolla il teorema accusatorio costruito contro Massimo Papini. Per i giudici non apperteneva alle nuove Br, aveva solo tentato di assistere la sua amica, Diana Blefari Melazzi, durante la malattia in carcere

Liberazione 24 marzo 2001

I pm Erminio Amelio e Luca Tescaroli avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione al termine di una requisitoria durata circa 14 ore. Per l’accusa era un appartenente alle cosiddette “nuove Brigate rosse”, referente di Diana Blefari Melazzi condannata all’ergastolo per l’attentato Biagi e suicidatasi nel carcere di Rebibbia il 31 ottobre del 2009. Massimo Papini aveva avuto in passato una relazione sentimentale con la donna. Poi le era rimasto vicino tentando in tutti i modi di aiutarla quando in carcere la Blefari cadde in preda a gravi crisi psichiatriche. Ieri pomeriggio la prima corte d’assise lo ha assolto, per non aver commesso il fatto. Una decisione molto netta che sbriciola il teorema dell’accusa. «Con l’assoluzione – hanno affermato gli avvocati difensori Francesco Romeo e Caterina Calia – termina l’atroce supplizio di Massimo Papini che ha subito 18 mesi di detenzione, gran parte della quale in regime di isolamento». Per i legali «Papini è stato sottoposto ad un processo solo per l’accanimento ingiustificato di investigatori ed inquirenti di diversi uffici giudiziari». La sua colpa? «essere rimasto accanto a Diana Blefari Melazzi, cui voleva bene e che ha cercato di far curare viste le terribili condizioni psichiche in cui versava».

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“Scarcerate Papini, accuse senza argomenti
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Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Cassazione: “Non è reato essere amici di inquisiti per banda armata”

Massimo Papini assolto per non aver commesso il fatto

Processo Papini: il naufragio di un teorema

Pochi minuti fa, la prima corte d’assise del tribunale di Roma ha assolto «per non aver commesso il fatto» Massimo Papini dall’accusa di appartenenza alle cosiddette nuove Brigate rosse.
Riportiamo di seguito un precedente articolo che introduce la vicenda

Amicizia e solidarietà sotto processo. Massimo Papini in aula lunedì 22 febbraio 2010

Un’inchiesta vuota e l’uso della malattia come strumento d’indagine

Paolo Persichetti
Liberazione 21 febbraio 2010

Si apre domani davanti alla prima corte d’assise del tribunale di Roma (piazzale Clodio) il processo contro Massimo Papini, 35 anni, romano. Un appuntamento atteso dopo la morte di Diana Blefari Melazzi, la sua ex fidanzata finita in carcere nel 2003 per appartenenza alle cosiddette “nuove Brigate rosse” e suicidatasi il 31 ottobre scorso nel carcere di Rebibbia. Una morte “annunciata” che ha fatto parlare di «uso della malattia come strumento d’indagine». Diana Blefari Melazzi, infatti, mise fine ai suoi giorni esattamente un mese dopo l’arresto del suo ex compagno che aveva tentato di scagionare fino all’ultimo. La sostanza delle accuse mosse contro Papini ruotano tutte attorno al suo rapporto con la donna, prima sentimentale poi d’amicizia, proseguito anche dopo il suo arresto attraverso un intenso scambio di lettere e poi grazie alle visite in carcere, autorizzate dall’amministrazione penitenziaria proprio in ragione delle pessime condizioni di salute mentale in cui versava la detenuta. Papini era riuscito a fare breccia nel muro che la sua amica aveva eretto contro il mondo convincendola ad accettare l’idea delle cure. Teneva un diario degli incontri, come gli avevano chiesto i medici, anche se questi erano tutti monitorati dalla polizia nella speranza che la detenuta nel corso dei colloqui si abbandonasse a qualche confidenza. In fondo l’arcano dell’inchiesta e della detenzione di Papini è tutto qui, nella convinzione degli inquirenti che la Blefari conservasse alcuni segreti: dal luogo dove sarebbero state nascoste le armi del gruppo, all’identità di un altro presunto componente del commando che colpì Marco Biagi. L’incarcerazione di Papini poteva servire da strumento di pressione. «L’attività investigativa sul territorio nazionale – aveva spiegato subito dopo il suo arresto uno dei massimi responsabili della polizia di prevenzione – non si è mai arrestata e non avrà tregua finché non saranno rinvenute le armi utilizzate». Un convincimento rivelatosi letale. Il dibattimento che si aprirà domani non è pero la prima verifica giudiziaria di un’inchiesta che negli anni ha assunto le sembianze di una vera e propria persecuzione macchiata poi dalla tragedia. Dopo anni d’indagini, pedinamenti e intercettazioni, già alla fine del 2008 la procura di Bologna chiese il suo arresto, asserendo un suo coinvolgimento nella rivendicazione dell’attentato Biagi. ll gip ritenne gli elementi depositati dall’accusa inadeguati a sostenere l’incriminazione. Il suo cellulare risultava agganciato alle 20,14 ad una cella vicino alla stazione Termini, zona di passaggio obbligata per rientrare nella sua abitazione, dove alle 21,55 venne effettuata la rivendicazione dell’attentato. Ma le indagini hanno provato che già alle 20,19 era al suo telefono di casa. Insomma non c’entrava nulla.
Passati gli atti alla procura romana, sulla base degli stessi elementi e soprattutto per il fatto di aver continuato a seguire la sua ex fidanzata lungo i meandri dolorosi e allucinati della sofferenza psichiatrica, Papini è stato arrestato il primo ottobre scorso in provincia di Salerno, su un set dove lavorava come attrezzista cinematografico. Il capo d’imputazione parla di un’appartenenza defilata al sodalizio sovversivo, relegata ad un livello periferico e in relazione con unico «referente», la Blefari per l’appunto, condotta dal 1996 fino alla data dell’arresto. Questa tracimazione temporale dell’accusa solleva non poche perplessità: primo perché Papini viene descritto per ben 13 anni come un aspirante militante sempre alla porte delle “nuove Br”, anche quando queste non esistevano; in secondo luogo perché la procura, dopo lo smantellamento del gruppo avvenuto nel 2003, ritiene ancora in attività la sigla Br-pcc. Ostinata tesi investigativa che sorpassa anche i più agguerriti accanimenti terapeutici. All’antiterrorismo sarebbero in grado di resuscitare persino la mummia di Tuthankamon pur di autogiustificare la loro attività che negli ultimi tempi sembra distinguersi per una marcata propensione all’azione preventiva, alla contestazione di reati che ancora non hanno preso forma. Contro Papini non c’è uno straccio di accusa per fatti specifici, gli si rimproverano soltanto dei contatti con la Blefari ritenuti sospetti. Tutto nasce dall’interpretazione di un documento, definito «Attosta», una specie di manuale (che poi si è rivelato essere il miglior modo per farsi identificare, una specie di involontario “pentito elettronico”) con il quale le “nuove Br” stabilivano le condotte cospirative da seguire. Per esempio, l’uso “dedicato ad un solo utente” delle carte telefoniche prepagate, o il ricorso sistematico a telefoni pubblici, erano indicati come le modalità di contatto tra militanti. Solo che nel suo rapporto con la Blefari, Papini, che pur accetta di chiamare da un certo momento in poi la sua amica in questo modo, venendo incontro ad una sua richiesta ritenuta un «po’ paranoica» dopo il suicidio della madre nel 2001, non rispetta mai alla lettera le prescrizioni. Insomma fa come gli pare. Rilevanti ai fini difensivi appaiono invece alcune lettere della Blefari, quella che gli lascia nell’ottobre 2003 poco prima di darsi alla latitanza: «Immagino che avrai un milione di dubbi, domande, ti starai spiegando adesso le mie “stranezze” e “paranoie” ma ora non ti posso spiegare»; o le altre dal carcere dove si dice «grata… perché non mi avete ripudiato», sottolinea che «un conto sono i rapporti personali, ed un conto quelli politici», fino a quella più esplicita, «visto che ora la mia identità politica clandestina ha l’opportunità di diventare pubblica, causa forza maggiore. Sta a te scegliere se continuare il nostro rapporto». Massimo Papini non ha mai avuto esitazioni. Ma oggi anche l’affetto e la solidarietà possono diventare un reato.

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«Scarcerate Papini. Accuse senza argomenti»

Conferenza stampa presso il tribunale di Roma. Un appello chiede la liberazione di Masimo Papini. Il prossimo 21 giugno il tribunale della libertà dovrà riesaminare il precedente rifiuto censurato dalla Cassazione

Paolo Persichetti
Liberazione
15 giugno 2010

Massimo Papini non è più solo. A sostenerlo in questi lunghi mesi d’isolamento carcerario non ci sono più soltanto i suoi avvocati e i suoi amici che hanno dato vita ad un combattivo comitato di difesa. Negli ultimi tempi il muro di silenzio che circondava il suo caso giudiziario si è rotto. Una petizione è stata firmata da esponenti del cinema e dello spettacolo, mondo nel quale Papini lavorava. Ieri hanno preso la parola durante una conferenza stampa tenutasi presso il tribunale di Roma la scenografa Paola Comencini, la deputata radicale Rita Bernardini e Gianluca Peciola, consigliere provinciale di SeL. Dopo una visita nel carcere Rebibbia, da parte della battagliera parlamentare radicale che senza tregua conduce nelle prigioni «visite di sindacato ispettivo» – come precisa con puntiglio – Radio radicale ha cominciato a trasmettere le udienze del processo, iniziato lo scorso 22 febbraio, nel quale Papini è accusato di partecipazione a banda armata per aver conservato negli anni un rapporto di amicizia con Diana Blefari Melazzi. La militante delle cosiddette «nuove Br» suicidatasi nel carcere femminile di Rebibbia il 31 ottobre, esattamente un mese dopo l’arresto dello stesso Papini, suo ex compagno, che aveva tentato di scagionare fino all’ultimo. L’attenzione comincia finalmente a focalizzarsi su una vicenda giudiziaria considerata, a torto, “minore”, come se il suo tragico intrecciarsi con la morte di una detenuta in condizioni psicologiche devastate dal 41 bis, messa per questo sotto pressione con l’arresto dell’unico punto di riferimento esistenziale che le era rimasto, non fosse una vicenda su cui vigilare con attenzione. Se la morte della Blefari ha fatto parlare di «uso della malattia come strumento d’indagine», finalizzato a costruire con tutti i mezzi una «collaborazione», quella contro Papini appare una vera e propria persecuzione. Indagato e arrestato all’inizio per fare pressione sulla donna, continua a essere mantenuto in carcere e sovraccaricato di accuse, senza lo straccio di un riscontro, per coprire a posteriori una condotta investigativa che viola le stesse regole in nome del quale pretende di agire.
Nel corso della conferenza stampa, Paola Comencini ha raccontato la sua amicizia lunga 12 anni, spiegando come Papini fosse stimato nel mondo del cinema per il suo lavoro nei set dei più grandi registi italiani. «Un’attività – ha sottolineato – che assorbiva talmente la sua esistenza e lo teneva così lontano da Roma da rendere inverosimili le accuse». Ha rivelato anche come al ritorno dai colloqui con la Blefari fosse molto provato. La donna, afflitta da rovinose crisi d’identità e disturbi percettivi fino ad arrivare ad allucinazioni visive, si fidava solo di Papini e aveva risposto in lui ogni speranza. «Massimo paga l’aver risposto a quel grido d’aiuto». E che il rapporto con Diana Blefari Melazzi fosse alla luce del sole l’ha precisato anche l’attuale fidanzata di Papini, Grazia, che ha sopraffatto la timidezza per spiegare con gli occhi lucidi come Massimo «fin dal primo giorno mi disse che aveva questa amica. Io stessa ho preparato da mangiare per lei e le ho mandato dei vestiti». Rita Bernardini ha denunciato le condizioni di detenzione proibitive in cui versa il detenuto, isolato 24 ore su 24, costretto a pochissima aria in un cubicolo di cemento, senza nemmeno la possibilità d’avere libri a sufficienza per trascorrere utilmente il tempo.
Mentre il processo si trascina senza che l’accusa sia mai riuscita a fornire uno straccio di prova della colpevolezza di Papini, un fatto nuovo potrebbe aprirgli presto le porte della prigione. Il prossimo 21 giugno il Tribunale della libertà dovrà riesaminare nuovamente il precedente rifiuto di scarcerarlo, pronunciato in ottobre ma cassato il 4 marzo dalla Cassazione. Una censura netta quella pronunciata dalla suprema corte che rimprovera il collegio del riesame di non aver spiegato perché Papini sarebbe colpevole. «Siamo di fronte ad un caso giudiziario paradigmatico», spiega l’avvocato Romeo. «A causa del nuovo pacchetto sicurezza del luglio 2009 – aggiunge il legale – Papini si è visto sottrarre importanti tutele processuali. Si è passati direttamente in corte d’assise senza il vaglio dell’udienza preliminare. Fase che non potrà mai più essere recuperata. E’ stato chiesto il giudizio immediato con il fascicolo dell’accusa incompleto. Le carte mancanti sono giunte soltanto a processo avanzato». Papini doveva essere processato a prescindere.

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I restroscena del suicidio di Nadia Blefari Melazzi

(ANSA) – BOLOGNA, 2 NOV – All’inizio dell’anno, la Procura bolognese sentì Diana Blefari Melazzi nel tentativo di sondare una sua eventuale disponibilità a collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura, tenendo conto anche dei segni di insofferenza per la detenzione già mostrati dalla brigatista. Ma lei – ha riferito la Procura – disse che non voleva collaborare in alcun modo. Gli inquirenti emiliani hanno confermato di essere al corrente dei problemi psichici della donna, fatto emerso anche durante l’interrogatorio a Massimo Papini, arrestato il primo ottobre su iniziativa delle Procure di Bologna e Roma con l’accusa di essere un militante delle nuove Br, ed ex compagno della Blefari. In quell’occasione l’uomo aveva ribadito al pm Enrico Cieri, titolare dell’inchiesta, il disagio psicologico in cui si trovava la brigatista esprimendo preoccupazione per questo. Inoltre, ha ricordato la Procura, durante il processo davanti alla Corte d’Assise di Bologna per l’omicidio Biagi, una perizia psichiatrica sulla donna stabilì che era capace di essere presente al processo. (ANSA). Y1C-GIO 02-NOV-09 15:34 NNN

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Cronache carcerarie
La morte di Blefari Melazzi e le carceri italiane


Esilio e castigo, retroscena di una estradizione /1

Estratti dal libro Esilio e castigo, Paolo Persichetti, La città del sole edizioni 2005

Retroscena dell’inchiesta e delle manipolazioni attorno alle indagini condotte dal “gruppo di lavoro sull’omicidio di Marco Biagi” e dalla procura di Bologna

Capitolo VII – “Blu come un camoscio” /Prima parte

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Perché non fu il pm Paolo Giovagnoli stesso a emettere subito il decreto di sequestro, invece di chiedere a un’altra autorità giudiziaria di farlo al suo posto, nell’ambito di un’inchiesta che ben poca utilità potrà ricavare da quel reperto? In quel settembre 2002, l’illecita esigenza di mantenere occulta l’indagine contro Persichetti e preservare la segretezza sembra essere preminente e assoluta. Circostanza che induce la procura bolognese a commettere un grossolano errore, probabilmente indotta dal delirio d’onnipotenza, dal senso d’impunità ricavato dal sostegno politico unanime che l’estradizione, strappata alla Francia con un bluff, aveva ottenuto. Bologna si sente un crocevia delle inchieste sul “nuovo terrorismo”. La città “sazia e disperata” esce dall’alveo della provincia opulenta e sonnacchiosa per salire alla ribalta delle indagini sull’eversione. Sente di avere in mano la pista giusta che la farà emergere sulle procure rivali. Ma la legge è chiara: un bene non può essere sottomesso a vincolo cautelare, e in ragione di ciò abusivamente sottoposto ad atti istruttori, in assenza di un motivato decreto di sequestro. Si pensa allora di aggirare l’ostacolo, interpretando in modo “creativo” l’art. 371 cpp, equiparando lo scambio del reperto a quello delle copie di atti e informazioni che può avvenire tra diverse autorità giudiziarie. In questo modo la procura potrà anche eludere la reazione della difesa, evitando la contestazione del sequestro e il contraddittorio preliminare che avrebbe aperto un varco sul fronte dell’accusa, disvelandone la trama e mettendo in luce l’inconsistenza indiziaria delle sue ipotesi. Per rinforzare il suo teorema con delle prove vere e solide, Giovagnoli

Zainetto color camoscio blu

Daltonismo giudiziario: ecco lo zainetto che secondo il sostituto procuratore di Bologna Paolo Giovagnoli era di color camoscio

cerca in tutti i modi di guadagnare tempo. Solo la possibilità di agire in segreto gli avrebbe offerto la garanzia di poter continuare a indagare senza intralci, o meglio sarebbe dire imbastire impunemente artificiosi castelli indiziari, miserabili patacche probatorie. Solo restando nascosto poteva evitare il rischio di doversi misurare con un’estensione della domanda d’estradizione in presenza di un fascicolo terribilmente vuoto. Il 27 settembre 2002, la Digos romana risponde inviando copia delle agende, nonché gli estremi delle carte di credito e dei codici Imei dei telefonini cellulari sequestrati, e informa Giovagnoli che lo «zainetto marca Samsonite» era stato trasmesso presso l’ufficio del dottor Vitello, titolare del decreto di sequestro. Il 30 novembre 2002, alle ore 12.30, lo zainetto si trova negli uffici del nucleo operativo dei carabinieri di Bologna, dove viene sottoposto a ricognizione.

Com’era finito lì?
La risposta ce la dà Giovagnoli stesso, in una lettera che il 2 novembre aveva indirizzato al dirigente della Digos romana: «Facendo seguito al colloquio presso codesto ufficio del 11.10.2002 – scrive il sostituto procuratore bolognese – chiedo che vogliate trasmettere a questo ufficio per il tramite della polizia giudiziaria Digos, lo zaino nonché la copia del disco per personal computer sequestrati al detenuto in riferimento e della consulenza tecnica disposta sullo stesso disco, nonché di altri atti eventualmente compiuti nell’ambito dello stesso procedimento». Stupisce questo ossessivo attaccamento a un banale portacomputer, dalle pareti rigide e imbottite, che non è destinato ad allargarsi a sacco come un normale zaino da spalla, che dunque non lo è anche se alcuni vorrebbero che fosse. C’è da parte del sostituto procuratore di Bologna una sorta di feticismo compulsivo che ricorda la coperta di Linus, quell’infantile oggetto di transizione che ha preso il posto dell’orsacchiotto o del succhiotto, spesso sinonimo d’infanzia infelice.
Eppure i telefonini, le carte di credito, le agende telefoniche sono tradizionalmente risorse fondamentali per le indagini. Veri e propri tesori informativi. Come mai in questo caso non destano nessun particolare interesse? Ma perché da essi non emerge nulla. Anzi solo prove difensive. Le schede ricaricabili Sim non sono attivabili in Italia. Gli stessi telefoni non funzionano con carte italiane, mentre il traffico telefonico non conduce oltre il giro dei familiari. Le carte di credito funzionano solo Oltralpe. Le agendine sono stracolme di nomi francesi, oppure di giornalisti e addirittura di qualche politico italiano. Quanto all’agenda di lavoro, essa suscita solo imbarazzo negli inquirenti. Infatti, nei giorni che precedono o che coincidono con l’attentato sono annotati numerosi e precisi impegni e appuntamenti. Sono tutti molto dettagliati, quindi verificabili, come[…] gli impegni per il 13, il 14 (lezione all’università, sala b 235, ore 16.30-19.00) […]

di blu c'è solo un bel cielo

Camoscio: di blu c’è solo un bel cielo

Insomma, gli inquirenti avevano in mano una mole enorme d’elementi e spunti d’indagine per verificare da subito, senza particolari difficoltà, i suoi spostamenti in quei giorni del marzo 2002. Peraltro sarebbe bastato chiedere a lui stesso, cosa che al contrario non hanno mai fatto, neanche quando decisero di ascoltarlo come teste informato sui fatti, il 12 febbraio 2003. Periodo nel quale la procura cercava ancora di nascondere le proprie intenzioni. Capziosamente invece si sono solo interessati ai computers presenti nella sua abitazione ed a quelli di due suoi vecchi amici, di cui uno ex coimputato, presso i quali hanno cercato tracce probatorie collegate alle sue attività. Il postulato accusatorio li conduceva a cercare il suo fantasma in Italia e ignorare la sua presenza fisica in Francia.

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Esilio e castigo, restroscena di una estradizione /2

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Retroscena di una inchiesta e manipolazioni attorno alle indagini condotte dal “gruppo di lavoro sull’omicidio di Marco Biagi” e dalla procura di Bologna

Capitolo VII – “Blu come un camoscio” /Seconda parte

 

Questo accecamento colpevolista è all’origine di un grottesco episodio d’omonimia. Il 23 gennaio 2003, Giovagnoli invia la Digos nell’abitazione di un’attivista romana, già attenzionata in precedenti indagini e confusa con la sorella di uno dei suoi amici perquisiti. Nessuno in procura e in questura si era preoccupato di verificare la reale consanguineità tra i due. La semplice omonimia bastava agli inquirenti, a cui non sembrava vero di aver finalmente trovato il “contatto” tra Persichetti e ambienti ritenuti “filoeversivi”, così da poter avvalorare lo sgangherato teorema della centrale francese. Ovviamente la perquisizione non darà alcun esito, perché i due non si conoscevano affatto. Se gli investigatori avessero controllato meglio, invece di lasciarsi sopraffare dall’abusiva correlazione fra due cognomi identici, si sarebbero accorti dell’errore maldestro.

La vera sorella dell’amico di Persichetti si chiamava Nicoletta, come era facile rilevare anche dall’agendina telefonica a lui sequestrata, e non Paola, coma la donna perquisita. Ennesima dimostrazione dei metodi approssimativi di un’inchiesta incapace d’accertamenti banali, quanto essenziali, per evitare scambi di persona. Ancora una volta, però, l’errore era figlio di postulati che non solo sfuggivano a qualsiasi verifica, ma addirittura si avvalevano di farneticanti invenzioni e contraffazioni della realtà. Solo grazie all’indagine difensiva condotta dall’avvocato Francesco Romeo, nel giugno 2003, verranno finalmente depositate agli atti sedici testimonianze che dettagliano ad abundantiam i suoi movimenti e le sue attività nel periodo incriminato. Le annotazioni presenti nell’agenda trovano così ampi riscontri a cui si aggiungeranno anche nuove circostanze, come la “cena politica” del 19 marzo al Marais, o gli appunti forniti da alcuni studenti sulla lezione tenuta il 14 marzo. Insomma, un piccolo campione, selezionato unicamente per esigenze di sinteticità, di quanto la procura avrebbe potuto raccogliere se solo avesse avuto l’intenzione di accertare la verità e non di fabbricare un colpevole. Ma ormai a Bologna sono obnubilati. Non possono tornare indietro. Tengono stretta la preda che hanno inventato. Ogni loro passo successivo è viziato dalla necessità di legittimare il postulato iniziale. C’è una compresenza di elementi diversi tra investigatori e magistrati che dà luogo a un impasto surreale, una sinergia che non funziona e che risponde a strani imput.
Il gruppo di lavoro su Marco Biagi è un coacervo estemporaneo d’incompetenze e limiti che si sommano l’un l’altro. Lo dirige l’ex capo della mobile veneziana, un funzionario assolutamente digiuno d’inchieste sui gruppi sovversivi, senza background culturale sul fenomeno. Non conosce le storie di quei movimenti, le loro filiazioni, le differenze culturali, confonde le sigle, sottovaluta le scissioni, ignora la discontinuità decisiva del decennio 90. Per lui e per gli altri “mobilieri” un ex brigatista vale l’altro, le sigle si equivalgono, pure quelle scomparse da più di un decennio. Le resuscitano, attribuiscono intenzioni, riscrivono biografie e identità pur di far coincidere la realtà con i loro pregiudizi e la loro ignoranza. Quelli delle Digos non sono da meno. Anche loro sono malmessi dopo che alla fine degli anni 80 il fenomeno della lotta armata si è estinto. Molte “memorie storiche” sono andate in pensione, i nuovi non hanno esperienza, si sono fatti le ossa con l’hooliganismo degli stadi e qualche centro sociale. Non sanno leggere i documenti, altrimenti saprebbero quello che gli autori dei nuovi attentati ribadiscono da tre anni in tutte le salse: siamo gli Ncc, più qualche altro raccolto per strada, abbiamo ripreso la bandiera delle Br-Pcc di cui intendiamo proseguire il percorso interrotto – la cosiddetta “continuità oggettiva” – e le Br-Pcc a cui guardiamo non sono quelle della «ritirara strategica»(1) dell’82, ma quelle della prima posizione fuoriuscite dalla rottura organizzativa dell’84-85. In un manoscritto di dodici pagine a circolazione interna e nel quale si delinea in piena franchezza il bilancio fallimentare del «rilancio» della lotta armata avvenuto con l’azione D’Antona, documento citato dal Corriere della sera del 18 maggio 2004 e ritrovato dalla Digos nel dicembre 2003, all’interno del deposito che le «nuove Br» avevano predisposto in tutta fretta in via Montecuccoli a Roma, dopo il conflitto a fuoco del marzo precedente sul treno Roma-Arezzo, si può leggere: «Noi storicamente non siamo le Br-Pcc ma gli Ncc[…] le Br-Pcc appartengono al proletariato, sono state il suo strumento politico-organizzativo e la classe vi si riconosce, per cui anche la non appartenenza politico-organizzativa dà un diritto-dovere di riprenderne il cammino».
Quelli delle Digos non sono da meno. Anche loro sono malmessi dopo che alla fine degli anni 80 il fenomeno della lotta armata si è estinto. Molte “memorie storiche” sono andate in pensione, i nuovi non hanno esperienza, si sono fatti le ossa con l’hooliganismo degli stadi e qualche centro sociale. Non sanno leggere i documenti, altrimenti saprebbero quello che gli autori dei nuovi attentati ribadiscono da tre anni in tutte le salse: siamo gli Ncc, più qualche altro raccolto per strada, abbiamo ripreso la bandiera delle Br-Pcc di cui intendiamo proseguire il percorso interrotto – la cosiddetta “continuità oggettiva” – e le Br-Pcc a cui guardiamo non sono quelle della «ritirara strategica»(1) dell’82, ma quelle della prima posizione fuoriuscite dalla rottura organizzativa dell’84-85. In un manoscritto di dodici pagine a circolazione interna e nel quale si delinea in piena franchezza il bilancio fallimentare del «rilancio» della lotta armata avvenuto con l’azione D’Antona, documento citato dal Corriere della sera del 18 maggio 2004 e ritrovato dalla Digos nel dicembre 2003, all’interno del deposito che le «nuove Br» avevano predisposto in tutta fretta in via Montecuccoli a Roma, dopo il conflitto a fuoco del marzo precedente sul treno Roma-Arezzo, si può leggere: «Noi storicamente non siamo le Br-Pcc ma gli Ncc[…] le Br-Pcc appartengono al proletariato, sono state il suo strumento politico-organizzativo e la classe vi si riconosce, per cui anche la non appartenenza politico-organizzativa dà un diritto-dovere di riprenderne il cammino».

A Bologna, Vittorio Rizzi spiega ad un giornalista che lo intervista in posizione genuflessa (Repubblica del 26 ottobre 2003) che l’inchiesta è ripartita dalla «indagine di sistema», come prescrive il manuale del piccolo detective. In sostanza «riapri i faldoni, rileggi una per una le carte, verifichi vecchie intuizioni, misuri se una connessione logica valida ieri lo sia ancora oggi o se il tempo non l’abbia contraddetta. Rileggi tutto. Ma proprio tutto» ma non capisci nulla perché non hai le basi, perché non è come acchiappare spacciatori, rapinatori, mafiosi, prosseneti o mariti che menano alle mogli. Insomma postulano che tutto venga dal passato, che qualcuno tiri le fila, magari da lontano, protetto in qualche santuario e invece i “nuovi” sono lì, sotto il loro naso che girano indisturbati da tre anni. E così ripescano vecchi fascicoli, si interessano a “latitanti” che potrebbero tranquillamente incontrare in strada, nei posti di lavoro, in ritrovi pubblici se solo facessero un salto a Parigi. Rileggono impolverati dossier, incollano A 4 sui muri, giocano ai rebus e ai quiz ma dimenticano di consultare le emeroteche, le videoteche, le librerie, dove informazioni sui rifugiati e i loro interventi pubblici non mancano di certo. È vero, non sono topi di biblioteca. Loro guardano i film di Starki e Hutch. Hanno il grilletto facile e sfondano le porte. Non pensano, menano… quando gli riesce, come a Genova. E così focalizzano l’attenzione su Persichetti. È un quarantenne, condannato per un processo della fine degli anni 80. Uno degli ultimi, dunque per forza deve sapere qualcosa. Poco importa che non abbia mai avuto nulla a che vedere con le Br-Pcc nella sua traiettoria giudiziaria. Potrebbe aver mutato idea. Le posizioni politiche si cambiano come le maglie delle squadre di calcio, pensano i “mobilieri”. E poi Persichetti è scappato in Francia, vuol dire che aveva cattive intenzioni e non che volesse risparmiarsi vent’anni di galera. situazione non ci sono solo degli investigatori che al massimo potrebbero rimpiazzare i Dupont presenti nei fumetti di Tintin, c’è anche un magistrato molto particolare, che è lì, se è vero quel che ha scritto Il Messaggero del 31 ottobre 2003: «Con il dolore e la rabbia di chi si è visto portare via un carissimo amico[…]. Un’amicizia di tanti anni, quelli della giovinezza, del matrimonio e della nascita dei figli, che Marco Biagi e Paolo Giovagnoli hanno visto crescere e diventare grandi insieme fino a quella tragica sera». Se ciò trovasse conferma – e l’assenza di ogni smentita suona come silenzio-assenso (2) – ci troveremmo di fronte a una insostenibile sovrapposizione di ruoli tra funzioni della pubblica accusa e interessi della parte civile. Verrebbe offuscata la fiducia nella serenità interiore del magistrato e atroce sarebbe la sensazione di vedere il diritto penale ridotto a escrescenza della Sharia islamica, la procura di Bologna in un avamposto talebano.
Ormai l’indagine contro Persichetti ha assunto un valore identitario e recedere, quando si è andati troppo oltre nell’ipotesi accusatoria, equivarrebbe a riconoscere un errore dalla portata troppo grande: il fallimento del teorema che lega vecchie e nuove Br e nega ogni discontinuità. Non mollare vuol dire dunque attaccarsi a ciò che resta: al portacomputer. Ed è qui che assistiamo a un evento miracoloso, l’improvvisa modificazione cromatica dello zaino che ne stempera il pigmento. D’altronde l’Italia è il paese delle madonne che lacrimano sangue, degli eczemi che si trasformano in stigmate. Perché stupirsi se anche la miscredente Bologna viene finalmente toccata dal segno divino?
Ad aggravare la situazione non ci sono solo degli investigatori che al massimo potrebbero rimpiazzare i Dupont presenti nei fumetti di Tintin, c’è anche un magistrato molto particolare, che è lì, se è vero quel che ha scritto Il Messaggero del 31 ottobre 2003: «Con il dolore e la rabbia di chi si è visto portare via un carissimo amico[…]. Un’amicizia di tanti anni, quelli della giovinezza, del matrimonio e della nascita dei figli, che Marco Biagi e Paolo Giovagnoli hanno visto crescere e diventare grandi insieme fino a quella tragica sera». Se ciò trovasse conferma – e l’assenza di ogni smentita suona come silenzio-assenso (2) – ci troveremmo di fronte a una insostenibile sovrapposizione di ruoli tra funzioni della pubblica accusa e interessi della parte civile. Verrebbe offuscata la fiducia nella serenità interiore del magistrato e atroce sarebbe la sensazione di vedere il diritto penale ridotto a escrescenza della Sharia islamica, la procura di Bologna in un avamposto talebano. Ormai l’indagine contro Persichetti ha assunto un valore identitario e recedere, quando si è andati troppo oltre nell’ipotesi accusatoria, equivarrebbe a riconoscere un errore dalla portata troppo grande: il fallimento del teorema che lega vecchie e nuove Br e nega ogni discontinuità. Non mollare vuol dire dunque attaccarsi a ciò che resta: al portacomputer. Ed è qui che assistiamo a un evento miracoloso, l’improvvisa modificazione cromatica dello zaino che ne stempera il pigmento. D’altronde l’Italia è il paese delle madonne che lacrimano sangue, degli eczemi che si trasformano in stigmate. Perché stupirsi se anche la miscredente Bologna viene finalmente toccata dal segno divino?
Una sprovveduta quarantenne con l’hobby delle passeggiate canine si trova così travolta in una storia troppo grande per le sue fragili spalle. Questa volta sono i carabinieri che entrano in azione quasi a voler bilanciare la loro assenza fino ad ora riscontrata nelle indagini. Un po’ di luci della ribalta spettano anche a loro. Chiamano la teste, la pressano, gli suggeriscono delle risposte, la condizionano. Se la lavorano insomma. E per lei è difficile dire di no. Tentenna, è esitante, non ricorda bene, ma alla fine finisce per sottoscrivere sempre la versione che l’Arma ha già confezionato. In una deposizione del 23 marzo 2002, di pochi giorni successiva all’attentato, quando la memoria era ancora fresca e i ricordi non ancora inquinati da pressioni successive, aveva raccontato di «uno zainetto color camoscio» portato in spalla da un individuo sospetto.
Il 30 novembre, sette mesi dopo, viene messa davanti a quattro borse, tra cui quella di Persichetti trafugata dalla procura romana. La messa in scena orchestrata è perfetta. Non c’è un solo zaino chiaro tra tutti quelli esposti. Addirittura una delle borse ha una forma allungata (come quelle sportive) con la cintola a tracolla. Un altro zaino è bicolore. Restano, in effetti, due sacchi in tinta unita. Uno è nero, l’altro è quello bleu marine di Persichetti. Siamo di fronte a quella che in gergo viene definita “tecnica a imbuto”, concepita per incanalare testi sovente fragili e sprovveduti, ansiosi di testimoniare il loro dovere di cittadini, ossequiosi delle istituzioni, e nella fattispecie delle uniformi. Nonostante gli sforzi predisposti per sollevarla dal peso del dubbio, la nostra testimone resta estremamente titubante. Sentiamola:
«Posso dire che il ricordo dello zaino che la persona portava a spalle non è molto nitido, comunque nella forma e nel colore può avvicinarsi ai primi due zaini che mi avete mostrato contrassegnati dai n° 1 e 2 [quello nero e quello blu di Persichetti, NdA].
Sicuramente il colore dello zaino non era molto scuro [e certo aveva parlato di color camoscio, nda] e per questo può avvicinarsi al secondo zaino, contrassegnato dal n° 2 [quello di Persichetti, NdA].»
Ma sì, perché non averci pensato prima? Il blu è meno scuro del nero, per questo può tranquillamente definirsi un colore chiaro. Di questo passo anche la notte più buia sarà splendente come il sole a mezzogiorno. Giovagnoli, riassumendo l’episodio nel rapporto inviato al GIP per chiedere il rigetto dell’istanza di dissequestro presentata dalla difesa nell’aprile 2003, scrive con imperturbabile candore: «La teste il 30-11-2002 ha riconosciuto lo zaino sopraindicato come quello portato dalla persona da lei notata nei pressi della casa del professor Biagi».
Vero, come un camoscio blu.

Tra gli inquirenti più daltonici spicca Vittorio Rizzi, “tutto chiacchiere e telefonini”, attuale capo della Mobile romana

Paolo Giovagnoli

Daltonico d’eccellenza: Paolo Giovagnoli

Link
Esilio e castigo, retroscena di una estradizione-1
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi
Paolo Giovagnoli, quando il pm faceva le autoriduzioni
Paolo Giovagnoli, lo smemorato di Bologna
Storia della dottrina Mitterrand
Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Note

1) Nei primi mesi del 1982, dopo il fallimento del sequestro del generale statunitense James Lee Dozier, le torture inflitte ai militanti catturati e le ondate di arresti che seguirono, quel che resta delle gruppo dirigente delle Br-Pcc lancia la proposta di una «ritirata strategica» che, prendendo atto delle dure sconfitte militari subite, avrebbe dovuto avviare una riflessione sulle prospettive della lotta armata e sulla necessità di ritornare ad un rapporto più interno con i propri settori sociali di riferimento.

2) In effetti, a conclusione dell’arringa pronunciata durante il processo in corte d’assise, Paolo Giovagnoli abbandonandosi ad alcuni istanti d’emozione ha ricordato questa amicizia.

2/ fine

 

Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi

La montatura – Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi

Giovanni Bianconi
Corriere della sera, 20 maggio 2003 – Pagina 15

ROMA – L’ unica persona indagata ufficialmente dalla Procura di Bologna per l’ omicidio del professor Marco Biagi è Nadia Desdemona Lioce, la brigatista che si rifiuta di rispondere alle domande dei giudici e continua a lanciare proclami di lotta armata. Ma agli atti dell’ inchiesta ci sono tracce di una sorta di indagine occulta, per lo stesso delitto, su un altro nome noto dell’ eversione italiana, seppure di epoca diversa. Il quale, al contrario della Lioce, ha sempre dichiarato di non aver nulla a che fare con le nuove Br. L’ inchiesta parallela riguarda Paolo Persichetti, già militante del gruppo fuoriuscito dalle Br chiamato Unione dei comunisti combattenti, condannato a 22 anni e mezzo di prigione per l’assassinio del generale Giorgieri (1987), arrestato l’ estate scorsa a Parigi dopo dieci anni di latitanza trascorsi per lo più alla luce del sole, e rispedito in patria in meno di 24 ore. Dalla fine di agosto Persichetti è rinchiuso in un carcere italiano su iniziativa – si scopre ora – della Procura di Bologna che, tentando di risalire ai killer di Biagi, mise sotto controllo anche i suoi telefoni parigini. L’ex brigatista non è stato iscritto nel registro degli indagati né allora né dopo. Tuttavia gli investigatori hanno continuato a svolgere accertamenti sul suo conto in gran segreto, come sarebbe normale se successivamente Persichetti non fosse stato interrogato dal pubblico ministero titolare dell’ inchiesta sulla morte di Biagi in qualità di semplice testimone, senza alcun cenno alle attività in corso. Quando fu arrestato in Francia, il 25 agosto 2002, Persichetti aveva con sé uno zainetto blu sequestrato dai magistrati romani e poi «prestato» (non è chiaro a quale titolo) a quelli di Bologna, dove si trova tuttora. L’ultima risposta all’avvocato Francesco Romeo che assiste l’ex-brigatista è del 2 aprile scorso, e leggendola si scopre che proprio lo zaino è il motivo dell’ indagine occulta. Biagi fu ucciso sotto casa nel marzo 2002, e una donna raccontò di aver notato una persona aggirarsi nella zona qualche giorno prima del delitto. «Non l’ avevo mai visto prima – disse la signora C.C., che abita nelle stesse strade -, e l’ho incontrato per ben tre volte: il pomeriggio di giovedì 14 marzo, la mattina di domenica 17 e verso le 18,30 del lunedì 18». Biagi fu assassinato martedì 19. La donna fece l’identikit di un uomo tra i 30 e i 40 anni, statura e corporatura media, capelli castani un po’ ricci, barba di qualche giorno. «L’ho sempre visto con delle riviste e uno zainetto», aggiunse. Cinque mesi più tardi, quando i telegiornali trasmisero le immagini di Persichetti arrestato in Francia, i carabinieri di Bologna si ricordarono di quell’ identikit e telefonarono alla signora C.C. per chiederle se riconosceva nell’ ex brigatista il personaggio che aveva visto aggirarsi intorno a casa Biagi. La donna era in vacanza, rispose che non aveva visto né la tv né i giornali ma promise di farlo. Tornata in città telefonò ai carabinieri per dire di «essere rimasta impressionata dalla somiglianza» tra l’ uomo che aveva visto e la foto pubblicata da un quotidiano, «in particolare per la capigliatura e i tratti somatici del viso». Passano tre mesi. Alla testimone vengono fatti vedere quattro zainetti, tra i quali quello di Persichetti, per verificare se riconosce quello portato in spalla dal personaggio misterioso. La donna ammette che il suo ricordo «non è molto nitido», però indica i primi due «per forma e colore» e poi, «siccome il colore non era molto scuro» dice che «può avvicinarsi al secondo zaino». Cioè quello di Persichetti. I carabinieri pongono le stesse domande a un altro testimone, B.F., che pure aveva descritto un personaggio sospetto intorno all’ abitazione di Biagi con i capelli ricci e la barba incolta, ma l’ uomo non riconosce le foto di Persichetti. Il quale ha detto e scritto molto contro il terrorismo delle nuove Br, fin dai tempi del delitto D’Antona, e non viene informato degli accertamenti a suo carico. Nemmeno il 12 febbraio 2003, quando il pm Giovagnoli va a interrogarlo sul delitto Biagi come «persona informata dei fatti». Al magistrato Persichetti manifesta il proprio stupore, «in quanto io sono stato condannato per un fatto di terrorismo avvenuto molti anni fa, compiuto da un’associazione diversa dalle Br-partito comunista combattente che hanno rivendicato l’omicidio di Biagi». Il pm tace sull’ identikit che gli rassomiglierebbe e sul riconoscimento dello zainetto, non chiede di eventuali spostamenti nel periodo del delitto. Usa il «testimone» Persichetti come fosse un consulente, e quello risponde: «Non mi sono potuto fare nessuna idea di chi siano le persone che fanno parte delle Br che hanno rivendicato gli omicidi D’Antona e Biagi. Posso solo darne una valutazione politica… Sono un gruppo poco forte militarmente ma che suscita grande allarme politico e mediatico, quindi utili a chi ha interesse ad un clima di emergenza». Considerazioni piuttosto semplici e comuni, ma Persichetti – che come tanti altri ex-terroristi non ha mai voluto mescolarsi a pentiti e dissociati – precisa: «Peraltro voglio dire che se pure conoscessi qualche elemento utile all’individuazione degli autori dei due più recenti omicidi non lo direi perché non voglio essere considerato un delatore o una spia. Comunque si tratta di un’ affermazione meramente ipotetica, perché ripeto di non avere nessuna informazione di tal genere». Il pm gli chiede di vari personaggi, compresi Nadia Lioce e Mario Galesi, ma Persichetti replica: «Non li ho mai conosciuti». Nei mesi successivi cominciano le richieste per la restituzione dello zainetto, la risposta dei pm è negativa. Nei prossimi giorni sono previste le udienze davanti ai giudici di Roma e Bologna per ottenerne il dissequestro. E forse si saprà se l’indagine occulta contro l’ ex-brigatista non indagato è finita o prosegue.

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Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione -2
Esilio e castigo, retroscena di una estradizione-1
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