Sans papiers impiegati per costruire CPT

Una ondata di arresti “molto particolari” sta colpendo in Francia i lavoratori immigrati che, proprio perché privi di permesso di soggiorno, vengono assunti nei cantieri pubblici con salari da fame

Paolo Persichetti
Liberazione
15 Agosto 2008

Una ondata di arresti “molto particolari” sta colpendo in Francia i lavoratori immigrati che, proprio perché privi di permesso di soggiorno, vengono assunti nei cantieri pubblici con salari da fame. Quattro di loro sono stati arrestati lunedì 4 agosto in un cantiere alle porte di Parigi, dove erano in corso lavori d’ampliamento di un centro di permanenza temporanea. Per i quattro il passaggio dal cantiere al carcere amministrativo è stato immediato. È bastato traversare i pochi metri che li separavano dai cancelli del “centro di retenzione amministrativa” (Cra) di Mesnil-Amelot, situato ai piedi della pista d’atterraggio dell’aeroporto Charles De Gaulle. Uno di loro, ltikat Tuma, 35 anni, di nazionalità turca, era in Francia da almeno due anni e mezzo ed era stato assunto da un’agenzia d’interim, l’Alpha. Il cantiere era sotto la diretta dipendenza del ministero della Difesa che aveva avviato i lavori per accrescere le dimensioni del campo in modo da poter raggiungere una capienza di 240 unità.
I centri di Mesnil-Amelot e Vincennes rivestono un’importanza strategica per la prefettura di Parigi. La loro immediata vicinanza con la capitale garantisce infatti la possibilità di effettuare rastrellamenti quotidiani dentro la città e nell’immediata periferia. Condotti in questi centri gli immigrati vengono poi smistati negli altri Cra del paese o imbarcati sugli aerei di linea. Un altro arresto, questa volta di un lavoratore proveniente dal Mali, sempre davanti ad un cantiere del ministero, questa volta degli Interni, situato a Lognes nello stesso dipartimento della Seine-et-Marne, è avvenuto nei giorni successivi. La notizia è stata riportata dal quotidiano Libération dell’altro ieri. Houdé Coulibaly, questo è il suo nome, era in Francia dal 2000 e anche lui lavorava per una impresa subappaltatrice, la Citc. In questo caso l’ipocrisia del ministero degli Interni francese ha raggiunto vette estreme. Poiché l’arresto è avvenuto all’entrata del cantiere e il datore di lavoro ha subito dichiarato la propria «buona fede», secondo le autorità il caso poteva ritenersi chiuso. Per il ministero Coulibaly altro non era che uno dei tanti sans papiers che vagabondano per i marciapiedi di Francia e che solo per caso si aggirava davanti al cantiere. Non v’era ragione d’indagare oltre e mettere il naso nel sottobosco di ditte appaltatrici, di un mercato di lavoro ormai senza più regole che ricorda la tratta degli schiavi, dove le società d’interim riescono a fare la cresta sull’abbattimento brutale dei costi grazie all’uso di forza-lavoro sottopagata, il lavoro negriero degli schiavi moderni. Come altrove in Europa, la stragrande maggioranza dei cantieri pubblici francesi impiegano immigrati in situazione irregolare, manodopera clandestina. Tutto questo ha un nome che sempre più si tende a sottacere con formule eufemizzanti: società di mercato, economia neoliberale. Insomma di capitalismo non si deve proprio parlare.
Le associazioni di sostegno ai sans-papiers hanno subito diramato appelli per manifestare davanti ai cancelli, ancora più indignate per il fatto che degli immigrati irregolari vengano utilizzati per costruire quelle che poi saranno le loro future prigioni. In effetti non passa giorno che non si verifichino scontri all’esterno e all’interno di questi Cra. I militanti delle numerose associazioni antiespulsioni e di sostegno ai lavoratori stranieri sono spesso confrontati alle forze di polizia mentre dentro i campi dilagano proteste e rivolte. Sabato 2 agosto, durante un presidio di protesta, all’interno del campo di Mesnil-Amelot è esplosa l’ennesima rivolta che ha provocato due principi d’incendio subito circoscritti. I migranti hanno poi denunciato un brutale pestaggio. Da giorni nello stesso centro è in corso uno sciopero della fame illimitato per protestare contro le condizioni di vita nella struttura e per chiedere la liberazione dei migranti rinchiusi, per la maggior parte lavoratori presenti in Francia da molti anni ma senza regolari documenti di soggiorno.

Centro di detenzione amministrativa di Vincennes, in fiamme.

Vincennes dopo l'incendio

Questi recenti episodi di protesta sono solo gli ultimi di una lunga serie di mobilitazioni che dalla fine del 2007 proseguono quasi senza interruzione, e in particolare nei due Cra di Vincennes e in quello di Mesnil-Amelot. Nonostante i continui spostamenti e il veloce turn over degli internati, i migranti hanno perfezionato un efficace repertorio di lotte, una vera e propria scuola di rivolta che mette in continua difficoltà i gestori dei campi: scioperi della fame, rifiuto di rientrare nelle proprie celle fino alla distruzione sistematica dei centri. Queste modalità di opposizione fisica all’internamento amministrativo vengono accompagnate da una forte capacità comunicativa, dalla tessitura di reti con le associazioni che presidiano quotidianamente l’esterno dei campi. Un vero modello di resistenza umana, di sovversione sociale che sembra allargarsi a macchia d’olio. Da questo intreccio è scaturito l’episodio ritenuto fino ad ora il momento più alto della battaglia contro i campi d’internamento: l’incendio e la completa distruzione del Centro di retenzione di Vincennes, avvenuto il 22 giugno scorso, all’indomani del decesso all’interno del campo per mancanza di cure di un immigrato tunisino. Evento che ha dato definitivamente fuoco alle polveri della rivolta. Memore dello smacco di Vincennes, per il quale le autorità individuarono una «responsabilità morale» nell’opera di sostegno promossa dal Resf (Rete di educazione senza frontiere), il ministro della emigrazione, Brice Hortefeux (uomo di fiducia di Sarkozy), dopo gli ultimi episodi di protesta avvenuti a Mesnil-Amelot ha disposto il divieto di manifestare in prossimità del campo, denunciato il porta parola di un’altra associazione, Sos Sans Papiers, indicata come fomentatrice della rivolta e stilato una lista nera delle associazioni di sostegno. Una galassia eteroclita composta da insegnati, studenti, genitori, giuristi, sindacalisti, persino dirigenti d’impresa. Considerati pericolosi sovversivi. Oltre al Resf, al suo interno spiccano Gisti, organismo di giuristi militanti, Fasti, Ldh, Mrap, sindacati come Fsu, Sud, insieme ad una miriade di comitati e reti locali che animano una nuova organizzazione del conflitto e della solidarietà.

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Migranti: i dannati della nostra terra

Libri – I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale, Renato Curcio, sensibili alle foglie pp. 136, euro 14

Paolo Persichetti
Liberazione 3 luglio 2008

Parole semplici che raccontano storie terribili sono quelle raccolte da Renato Curcio nella sua ultima ricerca sociale sul lavoro migrante. I «dannati della terra», espressione impiegata da Frantz Fanon in un testo del 1961 per indicare la moltitudine degli esclusi, sono diventati oggi quei dannati del lavoro che danno titolo al volume edito da Sensibili alle foglie ( I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale , pp. 136, euro 14).
 Donne e uomini, persone con valigie cariche di storie e non reati ambulanti. «Imprenditori dei sogni», come dovremmo in realtà chiamarli se fossimo in grado di frantumare gli occhiali deformanti dell’opposizione regolari/irregolari. Una scena imponente di milioni di umani che da città e villaggi di ogni continente si mettono in viaggio animati dall’immaginazione di un futuro diverso da quello disegnato per tutti noi dai consigli di amministrazione delle aziende globali. «Umani non ancora infettati dalla “codificazione feticistica” che come un virus epidemico sta spegnendo il pensiero della discontinuità negli autoctoni del Vecchio continente». Umanità ancora umana che non sa che farsene dei piccoli sogni a “prezzi mai visti” smerciati da Carrefour. C’è altro e di meglio in ciascuno di loro, scrive Curcio: «l’energia di chi pensa ancora la crescita non soltanto come una variabile economica[…] di chi rivendica per sé il diritto primordiale a esistere, prima di ogni legge degli uomini, prima del capitale, prima del mercato, prima delle carnivore ambizioni delle imprese globali». 
Loro, i migranti, sanno di non essere più radice ma vento. Sopravvissuti a viaggi spaventosi, le loro radici sono ormai gambe che spostano il mondo, scirocco e grecale, libeccio e levante. Solcano autostrade, passano valichi e navigano mari, s’ingegnano a trovare sempre nuovi cammini, molti muoiono lungo strade di stenti, sui sentieri del deserto oppure naufraghi nel cimitero liquido dei mari. Approdano sulle rive ridotti a scorie di mareggiate, pasti avanzati dei pesci impigliati alle reti. Dal 1998 sono già diecimila gli annegati nel Mediterraneo e nell’oceano Atlantico, tremila i dispersi. Trecento, quelli schiacciati, soffocati o congelati negli interstizi più assurdi ricavati nei camion della speranza.
L’avventura del lavoro migrante, la scelta del viaggio “intemerato” non nasce in luoghi lontani ma inizia da noi. Sono le aree più obese del mondo, quelle in cui operano i grandi centri capitalistici che creano quella sorta di vuoto d’aria che attira gli sciami migranti delle aree più spolpate del pianeta. L’impossibilità d’accedere alla via regolare, dovuta ai costi esorbitanti della corruzione e della speculazione che presiede i circuiti dei consolati, un sottobosco d’agenzie ufficiose, di piccoli faccendieri, mediatori e furbastri d’ogni genere pronto a lucrare su ogni passaggio burocratico, spiega la scelta della via “irregolare”, quella delle barche che giustamente Curcio rinuncia a definire «illegale» per non farsi complice della discriminazione che poi andrà a estendersi sull’intera vita di chi ne diverrà il bersaglio.
 Sono le nuove modalità del capitalismo attuale, delle grandi aziende che progettano se stesse a misura del mondo, insieme alla centralità produttiva assunta da paesi privi di normative sul lavoro che spiegano il fenomeno migratorio. Questo processo, che vede aziende extraterritoriali organizzare il movimento di merci, capitale e persone, serba nel suo seno una grande contraddizione: mentre la libera circolazione delle merci non trova ostacoli soltanto il movimento umano suscita rigetto. Tutto si sposta, ma solo le persone in movimento impauriscono. Tuttavia una soluzione andava trovata perché i limiti posti alla circolazione delle persone compromettono le capacità di consumo interno. Così il trattato di Schengen, entrato in vigore nel 1995, ha introdotto un doppio binario, un’area di privilegio comunitaria che ha però il suo rovescio nell’emergere immediato di una zona parallela, quella degli “illegali”, dei “clandestini”.

Cambia in questo modo la nozione di frontiera. Il confine visibile scompare ma al suo posto nasce la fortezza. Una fortezza Europa armata di banche dati integrate sempre più specializzate, come il sistema informatico Schengen (Sis) che include informazioni su cose e persone.
 L’antico presupposto della fortezza medievale era il ponte levatoio, la presenza comunque d’un passaggio all’esterno. Al contrario l’Europa fortezza si costruisce come una rocca senza aperture. La rete di centri di permanenza temporanea (Cpta, Cpa, Cid), destinati a divenire dopo l’ultimo “pacchetto sicurezza” varato dal governo Berlusconi “Centri di identificazione ed espulsione”, più che materializzare i confini interni interrompono la tradizionale continuità territoriale sulla quale posava la vigenza del diritto nazionale, sancito dal combinato disposto degli articoli 3 e 5 della costituzione. Un diritto a macchia di leopardo, dei territori di sospensione delle garanzie costituzionali emergono dando luogo a uno stato di diritto stratificato. Al tempo stesso, come in un gioco di prestigio, la nozione di “sicurezza” è sovrapposta a quella di “regolarità”. In questo modo “l’irregolarità amministrativa” diventa una forma di clandestinità presto sanzionata come un reato.
Tecnicamente l’internamento amministrativo, la carcerazione senza reato, che contraddistingue la rete dei centri di permanenza, appartiene alla tradizione del sistema dei campi di concentramento. Ma la vera caratteristica di questi nuovi luoghi d’internamento temporaneo è il fatto d’essere divenuti dei centri di raccolta per rastrellamenti di forza-lavoro semischiavizzata. Il sistema dei centri di permanenza appare dunque funzionale alla formazione di una nuova «sottoclasse di lavoratori», figlia della nuova e perversa relazione che si è stabilita tra stratificazione del diritto e forme estreme (extralegali) di flessibilità e precarietà del mercato del lavoro. Nasce in questo modo una classe di lavoratori completamente priva di diritti, sospinta alla «clausura di un trattamento quasi-schiavistico», una forma di mercificazione selvaggia e di alienazione totale delle esistenze umane eccedenti, posta ben al di là delle stesse condizioni che caratterizzano il “lavoro nero”. Messi nella situazione di non poter trattare alcunché, queste forme neoschiavistiche di lavoro segnalano la «caduta dal piano del diritto a quello del patto. Tra il datore di lavoro e il lavoratore si stipula, in altre parole, un contratto privato, molto simile a un “patto d’omertà”, in cui ciò che viene dichiarato (l’apparenza, appunto) è pura menzogna mentre ciò che viene taciuto è una sostanziale violazione delle leggi». Una condizione umana radicalmente esclusa e continuamente esposta a rotolare nell’abisso dell’internamento. Oltre a garantire la massima valorizzazione del capitale, questo «lavoro dannato» condiziona anche l’intero mercato del lavoro e diventa una minaccia permanente verso le altre fasce precarie e flessibili ancora dotate di un minimo di diritti e capaci di opporre forme di resistenza. È la vecchia storia, sempre attuale, dell’esercito proletario di riserva. L’Italia, poi, ha conosciuto la minaccia della precarietà fin dall’operaio massa meridionale dei primi anni 60.
 Al pari della precarietà, anche il razzismo è un conto mai chiuso. “Indesiderabili” è la parola chiave degli attuali Cpt, come lo fu per il legislatore fascista dopo l’introduzione delle leggi razziali del 1938 e che due anni più tardi provocarono l’apertura di oltre 200 campi di concentramento. In una circolare inviata dal ministero degli Interni si poteva leggere: «Detti elementi indesiderabili apportatori di odio contro i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria, per difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti dalla circolazione». 
Nel frattempo però il razzismo ha mutato aspetto. A quello biologico si è sostituito un «razzismo culturale» fondato su un preteso differenziale tra civiltà. Questo razzismo, spiega Curcio, ha una intrinseca valenza politica legata alla “costruzione della paura”. La percezione dell’insicurezza viene impiegata per orientare la rabbia verso bersagli di comodo, senza diritti e totalmente deboli, come è il caso dei Rom. Ma questo “sentimento” nasce da un moto reale di consapevolezza dei lavoratori di fronte a un destino precariamente sospeso. Trasformare questa domanda di sicurezza in razzismo è l’operazione politica in corso, quella da ribaltare completamente. Il paradigma reazionario, oggi egemone, è riuscito modificare il modo di produzione dell’immaginario facendo apparire lo sfruttamento più brutale come una forma di diversità, uno stigma, quando nella realtà è proprio lo sfruttamento che ci rende stranieri. 
Rimettere al centro dell’attenzione culturale e politica la critica del lavoro, a partire dai suoi aspetti più bestiali, è una delle strade obbligate che la sinistra deve ritrovare se vuole tornare a esistere.

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