Il tabù della Repubblica, dalle torture contro Triaca nel 1978 a Bolzaneto nel 2001, un ventennio di violenza degli apparati, di interrogatori non ortodossi, waterboarding e pestaggi, finte fucilazioni e sevizie, taciuti, negati, omessi

Giovedì 25 luglio alle ore 20,00 verrà proiettato presso il Loa Acrobax di Roma, a ponte Marconi, in via della Vasca navale 6, il film documentario “Il Tipografo” che racconta la vicenda di Enrico Triaca, tipografo delle Brigate rosse durante il sequestro Moro, torturato da una squadretta speciale del ministero dell’Interno dopo il suo arresto avvenuto il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamnento del corpo senza vita di Aldo Moro. Con la pratica dell’affogamento simulato con acqua e sale, waterboarding, tentarono di fargli confessare cose che non sapeva sul sequestro. Nel corso del film Triaca racconta quanto accaduto e un ex agente dei Nocs, che nel gennaio 1982 partecipò alla liberazione del generale Usa, Dozier, rapito dalle Brigate rosse-Pcc, rivela per la prima volta le violenze e le torture praticate dalle forze di polizia durante gli interrogatori.

Un filo nero lega il massacro della scuola Diaz e le torture di Bolzaneto, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario, durante il G8 di Genova del 2001 e le torture praticate contro militanti delle Brigate rosse e di altri gruppi della lotta armata di sinistra arrestati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. Si tratta di un uomo, un alto dirigente della polizia, il suo nome è Oscar Fioriolli, classe 1947, poliziotto formatosi nei reparti Celere e poi sul finire degli anni 70 nelle squadre speciali dell’antiterrorismo. Tra l’87 e il ’97 dirige la Digos di Genova, poi è questore ad Agrigento, Modena e Palermo. Nell’agosto 2001, subito dopo i misfatti del G8 che avevano travolto il questore Francesco Colucci, Fiorolli viene chiamato dall’allora capo della polizia, il potentissimo Gianni De Gennaro, a prendere le redini della questura genovese travolta dalle inchieste giudiziarie e dalle polemiche politiche provocate dalla morte di Carlo Giuliani, ucciso dal carabiniere Mario Caplanica, e le violenze sistematiche dei corpi di polizia contri i manifestanti, i pestaggi e le sevizie nel lager di Bolzaneto (predisposto per accogliere migliaia di fermati nei rastrellamenti di piazza) e all’interno dell’edificio Armando Diaz, una scuola elementare messa a disposizione dal comune per accogliere i manifestanti convenuti per le manifestazioni di protesta contro i potenti del mondo.
La scelta di Fiorolli non fu casuale, non solo perché conosceva la città, ma perché aveva la forma mentis giusta per affrontare quella situazione, ovvero coprire le violenze delle forze di polizia: depistando, dilazionando i tempi delle inchieste, facendo ostruzionismo, costruendo un muro di omertà su quanto era accaduto. Non a caso tentò subito di mettere il bavaglio alla stampa locale accusandola di calunniare le forze di polizia con le sue ricostruzioni sulle violenze di quei giorni, in particolare nella Diaz, evitò ogni collaborazione dovuta con la magistratura che stava indagando, impedì l’identificazione degli agenti che fecero irruzione nella scuola dormitorio.
Fiorolli venne scelto appositamente per la sua biografia: aveva una familiarità ben precisa con le pratiche violente nella quali aveva dato sempre grande prova di affidabilità. Alla fine del 1981 aveva fatto parte della squadra speciale affiliata all’Ucigos che aveva condotto le indagini sul sequestro, da parte della colonna veneta della Brigate rosse-Pcc, del generale Nato James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona.
Secondo la testimonianza di un suo collega, l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci all’interno della questura di Verona, presenti Improta, il funzionario cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e lo stesso Genova, si decise il ricorso alle torture per velocizzare le indagini. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos. De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» in cambio di chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista. Prima che entrasse in azione lo specialista Ciocia fu proprio Fiorolli, sempre secondo le parole di Genova, a dare mostra delle sue capacità conducendo l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.


In una stanza all’ultimo piano della questura di Verona:

«Separati da un muro -raconta Genova – perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Non c’è solo un nesso umano che lega quanto avvenuto a Genova nel 2001 con la stagione delle torture avvenute nel maggio 1978 e poi nel 1982 contro decine di persone accusate di banda armata. Esiste un retroterra culturale e procedurale, un savoir faire mai spezzato che ha potuto tramsettersi lungo i decenni successivi, superando il secolo. La vicenda delle torture e delle pratiche giudiziarie e carcerarie d’eccezione non è mai stata sottoposta a una radicale critica e rifiuto, ma al contrario recepita e legittimata dall’opinione democratica e da largi settori della sinistra, sempre reticenti sul tema. Anche negli anni successivi ai fatti di Genova, quando l’opinione pubblica era ancora scossa per le violenze viste in quei giorni, questo nesso è stato occultato, evitato, aggirato con imbarazzo. Il dibattito sulle torture praticate in Italia sembra non avere radici nel Novecento, ma sembra nato a Genova nel 2001. Come fanno gli struzzi a sinistra si è preferito mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che allungare il collo e guardare lontano, alle proprie spalle, per cogliere genesi e radici di questo fenomeno. La tortura praticata alla fine anni 70, messa in campo in modo strutturale, con l’ausilio di alcune squadre addestrate che operavano in modo sistematico su tutto ilo territorio nazionale contro la criminalità organizzata, il circuito dei sequestri di persona e la sovversione armata, è rimasta un tabù indicibile e questo perché c’era di mezzo proprio la lotta armata e la maniera con cui lo Stato ha affrontato e combattuto questo fenomeno. Non si doveva rimettere in discussione la narrazione edulcorata della vittoria democratica condotta sul filo del rispetto delle norme e della costituzione, con buona pace della legislazione penale speciale, delle carceri speciali, della legislazione premiale e delle torture.

Tortura investigativa, tortura giudiziaria e tortura punitiva

Nelle sue conclusioni sull’affaire Cestaro contro Italia (richiesta n°6884/11), la quarta sezione della corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha ritenuto provata la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, dovuta secondo i giudici che hanno pronunciato la sentenza, ai «maltrattamenti subiti dal ricorrente che devono essere qualificati come “tortura”, ai sensi della disposizione di cui sopra».
Cosa recita l’articolo 3 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stipulata a Roma nel 1950, quella per intenderci sulla base della quale opera la corte di Strasburgo?
Articolo  3
Proibizione della tortura
Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani e degradanti.
(Fonte: Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – CEDU. Roma 4 novembre 1950).
Sulla stessa linea si adagia la norma contenuta nell’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, un trattato delle Nazioni unite adottato nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976, nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo
Articolo  7
Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.
(Fonte: Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York 16 dicembre 1966,
entrata in vigore il 23 marzo 1976.
Queste due definizioni riprendono in modo secco la formulazione presente all’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948:
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Tuttavia negli ultimi anni si è cercato sempre più di estendere e dettagliare la definizione di tortura e di trattamenti inumani e degradanti allargando il campo anche alle sofferenze mentali e morali esercitate da un pubblico ufficiale o da altra persona che agisca a titolo ufficiale o su sua istigazione; da notare tuttavia come tale definizione non venga roconosciuta a sofferenze generate da sanzioni considerate legittime.
La
Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, stabilisce:
Articolo 1
1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.

In linea generale la violenza esercitata dalle istituzioni può avere due obiettivi: uno giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni.
Le torture praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e disintegrare l’identità politico-personale del militante. La deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis, è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura.
I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il 2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di potere all’interno dell’istituto di pena.
Una situazione analoga si è verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale, gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere.
In linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere «informe», non a caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto «spettrale, inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati civilizzati», al punto da costituire una delle tipicità proprie dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità, d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una forma sistemica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati. Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel 2001, durante le giornate del G8 genovese.
Se nel primo caso si è fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una intera generazione.
In entrambe le circostanze vi è stato un input centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di luoghi appositi, di fatto extra jure, oltre all’atteggiamento connivente delle procure. Se nel 1982 – fatta eccezione per un solo caso – queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate, prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie indiscrete per diversi giorni.
Nonostante tanta familiarità con la storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o abbassata a seconda delle circostanze storiche.
In ogni caso introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato come “reato proprio”. «La tortura – spiega Eligio Resta – è crimine di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive all’ombra dello Stato», come ha sancito la Convenzione Onu del 1984. Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice, un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari.
Ancora nel marzo del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia erano presenti «limitazioni» di «non di poco conto, (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel momento.
D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano praticando in Argentina, affermò: «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Di lui, ebbe a dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista Riccardo Lombardi, «ha un coraggio da leone e un cervello da gallina».
In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni.
Sulle gesta realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Prima in alcune interviste, poi in un libro apparso nel 2011, Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri funzionario dell’Ucigos, conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, ha ammesso di aver condotto sotto tortura numerosi interrogatori di persone arrestate nel corso di indagini sulla lotta armata. Era alla guida di una squadra speciale del ministero dell’Interno esperta nella pratica del waterboarding. La corte d’appello di Perugia nell’ottobre 2013 ha riconosciuto che queste torture ci furono accettando la richiesta di revisione della condanna per calunnia comminata a Enrico Triaca, dopo che il tipografo delle Brigate rosse aveva denunciato le torture subite nel maggio del 1978. Il seviziatore di Triaca era Nicola Ciocia e quelle torture furono un semplice assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo.

Per saperne di più
Le torture della repubblica
Nicola Ciocia, alias De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
Perché la nuova commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc ?

Anche le camere penali si accorgono (con grande ritardo) della tortura. Il sonno dell’avvocatura s’è desto!

«Accogliamo con favore – scrive in un documento la giunta delle Camere penali italiane – l’iniziativa del senatore Marcenaro, presidente della Commissione per i Diritti Umani del Parlamento, volta alla introduzione anche in Italia dello specifico reato di tortura. L’Italia, infatti, da molti anni ha sottoscritto la convenzione internazionale contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. E’ arrivato il momento di darvi attuazione».

Meglio tardi che mai! Per la funzione oggettiva che l’avvocatura svolge, questa presa di posizione, anche se tardiva, è comunque positiva. Certo ne registraimo i limiti racchiusi in un’ottica strettamente penalistica e reatocentrica che evita in tutti modi di affrontare i nodi e le responsabilità politiche della vicenda che per esempio, restando nell’ottica entro la quale operano le Camere penali, poteva essere quella di chiedere l’instaurazione di una commissione parlamentare d’inchiesta, visto che sul piano giudiziario l’accertamento dei fatti, seppur molto gravi, è inficiato dalla prescrizione dei reati.
Ricordiamo che il professor De Tormentis, citato nel testo delle camere penali, ovvero l’ex questore e dirigente dell’Ucigos Nicola Ciocia, nel 1984 all’atto delle sue dimissioni dalla Polizia di Stato entrò a far parte dell’avvocatura, iscritto presso l’albo degli avvocati di Napoli, con studio legale in via Via Giacinto Gigante 7, partecipando (linkate qui se volete ascoltare la sua voce) come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”.
Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.
Nel documento della giunta delle Camere penali manca qualsiasi accenno a questa circostanza, all’esigenza di una maggiore attenzione e pulizia interna della professione.
Soltanto dopo una lettera dell’avvocato Davide Steccanella del dicembre scorso, diretta all’Ordine degli avvocati di Napoli e nella quale si chiedevano chiarimenti si è registrata, nella più totale discrezione, la scomparsa dai registri dell’ordine del nome di Nicola Ciocia.
Il quale probabilmente al fine di evitare sanzioni ha preferito ritirarsi nell’ombra con i suoi indicibili segreti.

Di seguito il testo celle camere penali. Fonte: http://www.camerepenali.it/NewsDetail.aspx?idNews=12951

INTRODURRE IL REATO DI TORTURA PER RIPRISTINARE LA LEGALITA’

Arriva a proposito la iniziativa del senatore Marcenaro, presidente della Commissione per i Diritti Umani del Parlamento, volta alla introduzione anche in Italia dello specifico reato di tortura. L’Italia, infatti, da molti anni ha sottoscritto la convenzione internazionale contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti senza che, poi, i Governi e Parlamenti, di legislatura in legislatura, abbiano mai inteso introdurre il nuovo reato che darebbe concreta attuazione anche nel nostro Paese al trattato.
Nel frattempo, ed in particolare negli ultimi tempi, continuano ad emergere notizie sul fatto che trattamenti disumani e vere e proprie torture non sono affatto estranei al contesto italiano.
E’ il caso, ad esempio, della pratica del water boarding, che tanto scandalo ha giustamente provocato quando è stata riportata al trattamento subito da prigionieri in Irak o in Afganistan ma che è stata ignorata a proposito dei terroristi arrestati negli anni ‘70/80 in Italia, così come ricostruita da un libro pubblicato di recente e ripreso da organi di stampa nazionali. Una notizia precisa e particolareggiata sul fatto che, a quei tempi, operava nel nostro Paese una squadra speciale del Ministero degli Interni, capeggiata da un funzionario cui era perfino stato attribuito il nomignolo di “De Tormentis”, che si spostava alla bisogna nei vari carceri e sottoponeva i detenuti per terrorismo a sevizie di tutti i generi al fine di ottenere informazioni. Un fatto grave, che pur appartenendo al passato, coinvolge la responsabilità dello Stato sul quale nessuna riflessione si è aperta.
Così come nessuna riflessione della politica ha comportato la notizia, comparsa sulla stampa, della vicenda che ha coinvolto un condannato, costretto, a suo tempo, da militari dell’arma dei carabinieri che indagavano sull’uccisione di alcuni loro colleghi, ad accusare se stesso ed altri due giovani dopo inenarrabili sevizie. Anche questa notizia, resa nota dopo l’annullamento – a seguito della revisione – del processo che aveva portato l’uomo ad espiare ingiustamente 22 anni di reclusione, è scivolata dalle pagine della cronaca senza che il sistema politico ne traesse spunto per rilanciare il dibattito sulla tortura.
Recentemente ad Asti il Tribunale ha dichiarato la prescrizione dei fatti che avevano coinvolto una squadra della Polizia Penitenziaria che metodicamente picchiava i detenuti. Ugualmente, sono andati prescritti i fatti accaduti a Genova, nel 2001, in occasione del G8 alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Gli stessi fatti, narrati con impressionante crudezza in un film che viene proiettato proprio in questi giorni nelle sale italiane, provocano discussioni sulle pagine culturali dei giornali ma, attualmente, nessuna in sede politica. Prescrizioni che non ci sarebbero state se per quegli stessi fatti si fosse potuto contestare il reato di tortura. E sì che in tema di prescrizione i partiti sono sempre assai interessati, a volte persino queruli.
E’ di ieri l’altro la notizia e la foto di due tunisini rimpatriati in aereo in condizioni non umane e profondamente degradanti. E questi sono solo esempi, visto che molti altri casi, come quelli Cucchi e Uva, o le passate spedizioni punitive all’interno delle carceri, in Sardegna e altrove, e ancora quelli noti e meno noti che tutti i giorni dimostrano che anche nel nostro Paese esiste questo problema.
Ed allora, questo Governo, che si propone come “tecnico” e quindi distaccato dagli accadimenti degli anni passati, e per di più vanta continuamente la necessità di adeguare il Paese alle richieste e agli standard internazionali, deve far propria l’iniziativa del Sen. Marcenaro e deve chiedere una corsia preferenziale all’approvazione dello specifico reato di tortura e trattamenti disumani e degradanti, adempiendo così agli impegni internazionali già sottoscritti.
La legalità non è un concetto divisibile: o riguarda tutti, o nessuno e il corpo di coloro che sono nelle mani dello Stato è inviolabile.

Roma, 20 aprile 2012
La Giunta

Link
De Tormentis è venuto il momento di farsi avanti
Una lettera all’ordine degli avvocati di Napoli
Nicola Ciocia-De Tormentis arringa durante processo d’appello alla colonna napoletana delle Br-sequestro Cirillo
Studio legale Nicola Ciocia- de Tormentis Napoli

Genova G8: Violenze, torture e omertà. La cultura opaca delle forze di polizia

Il formaggio e i vermi di Sebastiano Vassalli, la resistenza operaia di ieri, l’insubordinazione metropolitana dei black bloc di oggi e il corporativismo mafioso dei corpi di polizia

Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2011

Quella che il grande storico del movimento operaio Edward Palmer Thompson definì in un’opera celebre, «l’opacità operaia» (in La formazione della classe operaia inglese), è stata per decenni oggetto di approfonditi studi sociologici. L’attenzione degli studiosi era rivolta alla comprensione dei meccanismi che portano i ceti subalterni a frapporre una sorta di schermo protettivo, al coperto del quale riescono a dare vita e riprodurre una cultura resistente, oppositiva, solidale e autonoma, il più delle volte ritenuta illegittima e pericolosa dai ceti dominanti che esercitano il monopolio della legalità. L’opacità è dunque la condizione essenziale per tutelare la propria libertà e sottrarsi ai valori legittimi espressi e imposti dai ceti dominanti. Da questo genere di ricerche hanno preso avvio i Subaltern Studies, che si occupano appunto delle culture oppresse, cancellate, perseguitate. In Italia, nel corso degli anni 70, l’opacità operaia non fu oggetto di studi ma entrò nel mirino delle inchieste giudiziarie condotte dalla magistratura contro la lotta armata sorta nelle fabbriche. Soprattutto divenne un “problema politico” per le forze sindacali e il partito comunista che concentrarono contro di essa ogni tipo di sforzo. Sgretolare l’opacità operaia, fidelizzando la classe lavoratrice alla cultura della legalità istituzionale, fu l’obiettivo portato avanti non solo con mezzi ideologici ma anche ricorrendo alla delazione organizzata, all’infiltrazione condotta in accordo con le forze speciali dell’antiterrorismo guidate dal generale Alberto Dalla Chiesa. La città di Genova, e le sue fabbriche, furono uno dei luoghi dove più aspro divenne questo confronto. Genova, sempre Genova. Una città che con la sua storia ha segnato tante svolte, come quella del luglio 60. Ebbene, sempre a Genova nel 2001, durante le sanguinose giornate del G8, abbiamo visto emergere in modo deflagrante un’altra forma di opacità: quella poliziesca, risvolto cinico e feroce del sovversivismo delle classi dominanti. «Cosa accade nella testa di un uomo perché diventi un poliziotto?». La lungimirante domanda non sarebbe più d’attualità secondo Sebastiano Vassalli, che sul Corriere della sera di pochi giorni fa ricordava come questa frase apparisse su un manifesto del 68 parigino. Se il compito dei giovani è diventare vecchi, come diceva Benedetto Croce, il sessantenne Vassalli c’è riuscito benissimo e dalla sua canuta agiatezza spiega alle malcapitate generazioni precarie di oggi che la polizia non può essere più percepita come il baluardo di ciò che il poeta Pablo Neruda chiamava «il formaggio del capitalismo», con i suoi «pallidi vermi». Oggi il problema sarebbe dato da un altro formaggio, «quello della democrazia» che rende possibile un nuovo genere di vermi, «i black bloc», a suo dire protagonisti dei «fatti tragici e demenziali della Valsusa». Abituato alla cucina della sua casa Vassalli non s’accorge che il formaggio della democrazia è stato divorato da tempo e quello del capitalismo è pieno di buchi provocati dai roditori della finanza internazionale. Contrariamente a quel che sostiene Vassalli quella domanda ha oggi ancora più senso, anche se pure i vermi hanno fame, a partire da quella opacità poliziesca che ci è stata raccontata dalla difficile inchiesta sulle violenze e torture genovesi del G8. Una lunga catena di falsità che dai più alti vertici delle forze dell’ordine scendeva fino agli ultimi gradi della scala gerarchica: dalle ragioni inventate (la presenza dei black bloc) per giustificare l’irruzione e il brutale pestaggio nella scuola Diaz, alla fabbricazione di false testimonianze che hanno visto protagonisti l’allora capo della polizia Giovanni De Gennaro, il capo della Digos genovese Spartaco Mortola e il questore Francesco Colucci; al tentativo di introdurre, sempre nella palestra dove era appena avvenuto il massacro, due bottiglie molotov trovate altrove, ai falsi verbali che attribuivano ai fermati comportamenti violenti o addirittura cambiavano il luogo del fermo in modo da coinvolgerli in situazioni compromettenti; al falso accoltellamento denunciato da un poliziotto, Massimo Nucera, che invece lacerò appositamente il proprio giubbotto per accreditare l’aggressione subita e dunque far passare il pestaggio come una legittima difesa contro dei violenti animati da tentazioni omicide. Atteggiamento menzognero reiterato da Nucera recentemente. Una sentenza del tribunale di Teramo, infatti, l’ha condannato nel maggio 2010 ad un anno e 4 mesi di reclusione per aver fornito falsa testimonianza nel tentativo di scagionare due suoi colleghi che avevano pestato (31 giorni di prognosi) un tifoso durante l’incontro di basket Teramo-Rosetana.
L’opacità poliziesca oggi è un problema anche per la procura genovese che ha chiesto la collocazione ad altro servizio dell’ispettore Antonio Del Giacco, condannato ad otto mesi, insieme ad altri poliziotti, per per aver fabbricato prove false contro alcuni no-global, prima aggrediti e poi arrestati, la mattina del 20 luglio 2001.

Link
Carlo Giuliani, quel passo in più mentre tutti tornavano indietro
L’inchiesta di Cosenza contro Sud Ribelle