«Sciopero del debito contro la speculazione»

Prosegue la discussione sulla manovra economica, gli attacchi della speculazione finanziaria e il rischio di default dell’Italia. Andrea Fumagalli, docente di economia presso l’università di Pavia, spiega la proposta avanzata dagli stati generali della precarietà di rivendicare il diritto all’insolvenza per disarticolare il potere dei grandi gruppi speculativi

Paolo Persichetti
Liberazione 15 settembre 2011

La camera non ha fatto in tempo a votare la fiducia sulla manovra correttiva che già si sono fatti avanti i sostenitori di una seconda manovra da varare durante la prossima sessione di bilancio tra un mese esatto. L’operazione, ha sostenuto sul Sole 24 ore  Massimo Corsaro, dovrebbe aggirarsi intorno ai 400-500 miliardi di euro con l’obiettivo di portare il debito al 90% del pil.
Nel mirino l’innalzamento immediato dell’età pensionabile, la privatizzazione del patrimonio pubblico, forse – ma con moderazione – una patrimoniale una tantum. «Non so quanto sia credibile una manovra di tale ampiezza», ci spiega il professor Andrea Fumagalli che il primo settembre sul manifesto ha dato voce ad un brusio di fondo: rivendicare il diritto all’insolvenza. Una proposta elaborata prima dell’estate nel corso degli stati generali della precarietà.

Perché ritieni impraticabile una ulteriore manovra di queste dimensioni?
Negli anni scorsi è stato raschiato il fondo del barile e poi la composizione dell’attuale governo impedirà il ricorso ad una patrimoniale che sarebbe la soluzione più corretta. Buona parte del patrimonio pubblico è stato già ceduto nelle finanziarie degli anni scorsi o delocalizzato. Sarebbero comuni e regioni a farsi carico della privatizzazone delle municipalizzate con benefici per le entrate solo una tantum, mentre le privatizzazioni produrrebbero rincari delle tariffe con effetti immediati sui redditi mediobassi e inevitabili ripercusioni sul potere d’acquisto, il livello dei consumi e della domanda. Con una simile operazione si potrebbe anche arrivare ad un avanzo primario ma si ridurrebbe il pil. Verrebbe meno l’obiettivo prefissato della riduzione del rapporto deficit/pil che al contrario potrebbe ulteriormente accrescersi. Per giunta tutto ciò avverrebbe in un contesto in cui l’aumento dei tassi d’interesse è costante. Nelle ultime aste l’aumento è stato mediamente di due punti più alto dell’asta preestiva. Ciò comporta un aumento dell’onere degli interessi di circa 500 miliomi di euro e quindi un aumento della spea per interesse che va in maniera perversa ad alimentare il debito nonostante i sacrifici imposti agli italiani. La logica di queste manovre che riducono il potere d’acquisto e dall’altro aumentano la polarizzazione dei redditi è fallimentare. Basta vedere cosa è successo in Grecia.

Si parla ormai di un default inevitabile.
Nel 2010 la Grecia ha adottato una politica di manovra finanziaria che non è molto dissimile da quella italiana, è stata solo più pesante: aumento dell’iva, taglio della spesa corrente pubblica (taglio del 10% degli stipendi pubblici e licenziamenti nel settore), aumento dell’età pensionabile.

Con quale risultato?
Dopo un anno i dati Ocse ci dicono che nel primo semestre 2011 il pil è calato del 7,3% vanificando la politica di sacrifici al punto tale che oggi la Grecia si ritrova all’interno di un nuovo attacco speculativo. I rischi di default sono oggi maggiori rispetto al 2010, nonostante nel frattempo sia stata adottata una manovra finanziaria lacrime e sangue. Questo fa capire che l’obiettivo di queste manovre non è il risanamento del bilancio ma dare linfa al solvibilità dei titoli pubblici in possesso degli speculatori, ed obbligare la Bce a fare inniezioni di liquidità per allargare la base dei mercati finanziari e della speculazione.

Lo sciopero del debito sarebbe la soluzione?
Occorre sottrarre linfa alla speculazione obbligandola a non intervenire sul segmento dei titoli pubblici. Questo si può fare non pagando gli iteressi sui titoli oppure spingendo la Bce ad emettere titoli di Stato europeo, chiamiamoli pure eurobond, ma sostitutivi di quelli esistenti a livello nazionale, non in aggiunta come sostiene Tremonti.

Quale è la differenza rispetto alla proposta di Tremonti?
Se creo nuova moneta emettendo titoli in aggiunta a quelli già essitenti aumento la liquidità finanziaria. Soluzione che rende felice solo la speculazione. Tutti gli acquisti fatti dalla Bce nell’ultimo mese col fine di sostenere la solvibilità del debito pubblico italiano, garantendo interessi anche crescenti ai possessori di titoli, hanno agevolato la speculazione finanziaria che si è rafforzata. Il rendimento dei Cds (i derivati che assicurano contro il rischio di default) hanno avuto un tale incremento di valore che le cinque Sim (società di intermediazione immobiliare) proprietarie del 95% dell’intero mercato di questi tipoli hanno incassato plusvalenze finanziarie enormi. I grandi speculatori finanziari, come Goldman Sachs, tanto per fare un nome, impiegano una sorta di strategia da chock economy: gridano all’allarme per il rischio di default della Grecia o dell’Italia, provocando l’immediato aumento delle difficoltà di collocamento dei titoli nei mercati internazionali. In questo modo i derivati che loro possiedono su questi titoli, cioè i cds, aumentano di valore. La Goldman Sachs ha attualmente una liquidità di cassa che è superiore a quella della Federal reserve. Questa strategia ha funzionato lo scorso anno sul mercato delle materie prime: grano, soia, petrolio. Con grossi guadagni sui Futures, prodotti finanziari leagti a queste materie. Passati al’incasso i grandi speculatori si sono spostati sul mercato dei titoli di Stato e i rischi di default e qui sono intervenuti con i derivati che asicurano contro i rischi di crack.

Il diritto all’insolvenza riguarderebbe l’intero ammontare del debito o soltanto il pagamento degli interessi?
Si può procedere in due modi: il primo è quello del dilazionamento del pagamento degli interessi o, nella versione più radicale, addirittura il non pagamento degli interessi. Questo avrebbe degli effetti di riduzione della spesa per interessi. Segnalo che mentre tutte le altre componenti del debito tendono a ridursi, a causa degli interventi draconiani, gli interessi maturati sono in costante aumento.
La seconda modalità è il consolidamento di parte dei titoli di debito pubblico, al di là degli interessi che maturano, in modo da sottrali dallo scambio sui mercati secondari. Quindi obbligando i possessori di questi titoli a mantenerli nel loro portafoglio. Dato che il debito pubblico italiano, secondo i dati di Bankitalia, è detenuto per l’87% da investitori istituzionali, cioè banche, società di intermediazione immobiliare (Sim), assicurazioni, e soltanto per il 15% dalle famiglie. Un intervento di questo del genere andrebbe a colpire i bilanci dei grandi speculatori internazionali innescando un meccanismo di contrattazione con le società finanziarie, garantendo invece solvibilità e rendimento solo a quel 15% di titoli familiari.

Puoi spiegarci meglio questa distinzione?
Fino a 20 anni fa più del 50% del pil del debito pubblico era in possesso del risparmio delle famiglie. Oggi per una serie di ragioni dovute alla contrazione del risparmio, in seguito alla riduzione dei redditi, all’entrata sui mercati fiananziari di opzioni d’ivestimento nuovi, come l’ingresso dei derivati, l’investimento delle famiglie nei titoli di debito pubblico italiano ed europeo si è fortemente ridimensionatoa vantaggio dei grandi gruppi speculativi. E’ chiaro che lo Stato deve garantire la solvibilità, il valore e un certo tasso di rendimento ai titoli in possesso alle famiglie, operando sulla quota di debito pubblico in mano ai grandi gruppi speculativi.

Cosa rispondi a chi obietta che si tratta di una posizione irrealistica perché mancano i rapporti di forza?
E’ chiaro che un discorso radicale sul diritto alla bancarotta è una provocazione politica. Ma indica una direzione che per realizzarsi deve essere accompagnata da una serie di altre condizioni risolutive: la prima è il superamento della sovranità nazionale a livello fiscale come c’è stata a livello monetario. Solo una politica fiscale comune europea è in grado di frenare l’attività speculativa.
La seconda condizione è che una politica del genere deve essere accompagnata da interventi di riequilibrio dei redditi con interventi fiscali più progressivi e meno repressivi. Creare le premese perché ci sia uno stimolo alla domanda, non solo in termini di mera crescita ma di sviluppo ecocompatibile.

Link
Intervista Fumagalli: “Sciopero del debito contro la speculazione”

Fumagalli: Il diritto al default come contropotere finanziario

Emiliano Brancaccio: “Il pareggio di bilancio non impedirà il default”

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Il “caso” Moro

Ipocrisia: prima che si diffondesse la notizia del rapimento del presidente Dc in via Fani, il quotidiano “la Repubblica” era uscito nelle edicole con un titolo che acusava Aldo Moro di essere l’antilope Kobler, nome in codice del misterioso personaggio politico che aveva intascato tangenti dalla Lockheed corporation. Le copie vennero tutte ritirate e sostituite dall’edizione straordinaria con l’ipocrita coccodrillo che vedete qui sotto


Libri – Agostino Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, 2005 pp. 350, € 22

Paolo Persichetti
30 aprile 2005

L’ossessiva insistenza sui misteri, gli «eccessi dietrologici», l’uso improprio della teoria del «doppio Stato» hanno trasformato il cinquantennio repubblicano in un susseguirsi d’episodi delittuosi, una «sorta di storia criminale da cui è mancata proprio la storia». Dietro l’ostinata ricerca di protagonisti invisibili si sono persi di vista quelli realmente copj13aspesistiti. È questo l’incipit con il quale lo storico Agostino Giovagnoli introduce il più recente lavoro sul sequestro del presidente della Dc, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana. Un volume che dimostra come gli studi sugli anni 70 improntati ad una seria metodologia storica, seppur con fatica, stianno finalmente cominciando a farsi strada, dopo il pionieristico saggio sulla presunta “Pazzia” del presidente Dc, dato alle stampe da Marco Clementi nel 2001. Allora venne posta per la prima volta la necessità di tornare a «fare storia», affrontando la vicenda del rapimento secondo una rigorosa metodologia che abbandonasse l’approccio deduttivo e indiziario, dietrologico, a vantaggio di un’analisi critica, di un confronto sincronico delle fonti originali (documentazione prodotta dalle Br e dal prigioniero). Un contributo innovativo seguito più tardi dal lavoro di critica delle tesi del complotto realizzato da Vladimiro Satta, nel quale veniva definitivamente liquidata l’imponente pubblicistica sulla cospirazione.
Avviato il percorso metodologico sui binari di una seria critica storica è finalmente possibile raffrontare anche le diverse letture sin qui esposte. Al pari di Clementi anche il lavoro di Giovagnoli segue la prospettiva di una «storia politica» del rapimento, ma se ne distacca subito perché incentrata essenzialmente su quanto accadde nel mondo delle istituzioni e dei partiti, grazie ad una indagine condotta negli archivi di diverse fondazioni e istituti. La sua è una storia vista dal Palazzo e l’obiettivo è dimostrare che, dopo un iniziale irrigidimento attorno alla linea della fermezza, il clima cominciò a cambiare aprendo margini di manovra «tattici» che consentissero una soluzione negoziata. In sostanza, spiega l’autore, tentativi vennero fatti, aperture non mancarono, offerte furono avanzate, ma alle Brigate rosse tutto questo non bastò. È a loro, e solo ai loro limiti politici ed alla loro intransigenza, che si deve la morte di Moro. In fondo la tesi del libro è tutta raccolta in questo enunciato: ancora poche ore e quel 9 maggio 1978 il gruppo dirigente Dc avrebbe pronunciato la parola «forte», chiesta per liberare l’ostaggio nel famoso comunicato del gerundio (che serviva a dilazionare ulteriormente l’esecuzione) e nell’ultima telefonata di Moretti. Ora se è evidente che a rapire ed uccidere Moro furono le Br, le quali hanno sempre assunto l’intera responsabilità politica e materiale della scelta fatta, è altrettanto vero che a quell’esito contribuirono in molti, come emerge anche dal racconto di Giovagnoli, nonostante l’evidente tentativo di attenuare, se non addirittura assolvere, le responsabilità del «fronte della fermezza». Lo sforzo diretto a lenire le responsabilità etiche che in quella vicenda ebbe il ceto politico-istituzionale non trova prove né argomenti persuasivi ed a volte scade persino nel grottesco, come quando viene messo l’accento su un Andreotti apostolo della nonviolenza (p. 50). Basterebbe rileggere quel che Moro scrisse di lui nel Memoriale per smentire un quadro così idilliaco.
Non si tratta di convocare gli anni 70 «sotto un’unica chiamata di correità», per cercare «balsami» ad una memoria funzionale ad un «discorso retrospettivo insieme cinico e zuccheroso, che nel nome di una sospirata riconciliazione nazionale tende a confondere carnefici, vittime, spettatori», come ha scritto Sergio Luzzato nella recensione apparsa sul Corriere della Sera. La rimozione e l’autoindulgenza è abitudine rassicurante ma poco lungimirante. Troppo facile ridurre ogni cosa alla «lotta senza quartiere di un gruppo criminale numericamente striminzito, ideologicamente povero e moralmente abietto»: il bene da una parte e il male dall’altra. La mattina del 16 marzo 1978, diverse agenzie avevano associato il nome di Moro a quello dell’«antilope Kobbler», il mai identificato collettore delle tangenti Lockeed. Il riferimento scomparve dalle edizioni speciali dei quotidiani non appena si diffuse la notizia del rapimento, sostituita da ipocriti ritratti che suonavano già come coccodrilli a futura memoria. L’illibatezza etica è l’ultima delle virtù che può essere rintracciata in quello che fu il fronte del rigor mortis, paralizzato non meno dei militanti Br da limiti politici e culturali, pregiudizi e fantasmi, ricatti e ipnosi reciproche. Si tratta invece di capire come sono andate le cose rifuggendo la facile tentazione di attribuire ogni colpa agli sconfitti.
Per esempio, perché ci si ostina ancora a non voler vedere – come ha osservato Clementi – le impressionanti analogie col sequestro Sossi, eccezion fatta per le modalità incruente che certo contribuirono a non pregiudicarne il seguito? In passato si era trattato e si continuò a farlo dopo Moro. Il mancato negoziato è dunque una delle poche responsabilità attribuibili ai brigatisti, che pure commisero notevoli ingenuità – come rendere pubblica la lettera riservata che Moro aveva scritto a Cossiga – a causa dell’inadeguatezza teorica e dell’abissale distanza dai bizantinismi di un Palazzo che combattevano ma ben poco comprendevano.
Negli oltre 50 giorni di sequestro non ci fu uno straccio d’iniziativa politica seria: il vertice democristiano restò immobile e incapace di sviluppare una minima analisi della situazione, come testimoniano i diari di Fanfani. Le lettere di Moro furono rinviate al mittente, decretato «pazzo». Il Pci ne dichiarò la morte anzi tempo, come Pecchioli disse a Cossiga. Le ipotesi più astruse e improbabili vennero privilegiate a discapito delle evidenze. Solo Moro capì cosa erano e volevano le Br, ma dalle Br stesse fu soppresso, decretando insieme alla morte dell’ostaggio anche la loro fine strategica. Uccidendo il presidente Dc liquidarono l’unica risorsa rimasta nelle loro mani dopo un sequestro concepito male e finito peggio. Non c’era stata l’auspicata rottura tra base e vertice Pci, non c’era stato nessuno spostamento a sinistra, al contrario un’integrazione ancora più forte del Pci nello Stato. L’obiettivo principale era fallito e nessuna ipotesi alternativa era stata predisposta. A quel punto una via d’uscita avrebbe potuto essere la liberazione del prigioniero, prevalse invece un super io morale: impossibile salvare la vita del Principe senza contropartite, dopo aver distrutto quella dei suoi scudieri. Si sarebbero esposti alla facile retorica di chi nella sinistra poteva accusarli di magnanimità verso il potere mentre facevano strage dei «proletari in divisa». Così uccidendo l’ostaggio entrarono in una contraddizione etico-politica insanabile: come giustificare l’esecuzione del proprio prigioniero quando al tempo stesso si chiedeva la liberazione di quelli in mano all’avversario?
La «geometrica potenza» del successo militare servì solo a dopare il fallimento dell’iniziativa. Il rafforzamento organizzativo che ne seguì fece da schermo ad una realtà senza più prospettive politiche se non l’estensione e l’intensificazione aritmetica del volume di fuoco.
Il rifiuto della trattativa è questione storiografica complessa e forse costituisce l’aspetto più importante dell’intera vicenda. Essa rinvia ad un enorme rimosso che non trova soluzione nel libro di Giovagnoli. La natura inconfessabile del conflitto che traversò gli anni 70 rimane ancora un tabù insuperato. L’indisponibilità a riconoscere non tanto la valenza politica delle Br quanto ad intravedere quel che si profilava alle loro spalle, ovvero radici e dimensioni di una sovversione politica scaturita dalla crisi di modello e delle forme di rappresentanza che stavano minando la vecchia società fordista, spiega l’arroccamento nella cittadella della fermezza. La società del rigor mortis, sconcertata dalle nuove forme di protagonismo, di partecipazione e da richieste percepite come incompatibili ed esorbitanti, vedeva in quell’insorgenza sovversiva – che aveva radici nell’irruenza dei movimenti sociali di quegli anni – una minaccia intollerabile. Altrove si era riusciti ad assorbire l’onda d’urto, gli Stati avevano sempre trattato con le guerriglie, come ricordava Moro nelle sue lettere. Nell’Italia imbalsamata dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi prevalse invece l’intransigenza cimiteriale dell’unità nazionale.
Liberato Moro «le Br avrebbero cessato di sparare. Un’altra storia sarebbe cominciata» ha dichiarato Moretti in un libro. Cosa mai avrebbe avuto di trascendentale un simile scenario?
Su sponde opposte, uno studioso come Federico Mancini arrivò ad ipotizzare un processo di costituzionalizzazione dell’area sociale sovversiva, convinto che la fissità del sistema italiano, impedendo innovazione politica e rinnovamento sociale, col tempo non avrebbe potuto evitare insorgenze e spinte sovversive. Allora trent’anni più tardi piuttosto che cercare il male nella storia sarebbe più utile interrogare limiti e contraddizioni della società che prese forma nel dopo guerra, e che negli anni 70 raggiunse il suo punto di rottura.

Per saperne di più
La dietrologia nel caso Moro
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Italie, le theme du complot dans l’historiographie contemporaine
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori
Ci chiameremo la Brigata rossa – Vincenzo Tessandori
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

La leggenda del doppio Stato

Una teoria senza riscontri

di Marco Clementi*
Liberazione 30 maggio 2009


Lo Stato imperialista delle multinazionali non esisteva. Le Br cominciarono ad averne un chiaro segnale nei giorni del rapimento di Aldo Moro, quando il loro ostaggio rispondeva alle domande del processo senza cogliere gli intrecci che sottintendevano i brigatisti. Essi pensavano che ci fosse non già uno Stato nello Stato, ma un Sovrastato, potenziato e guidato dagli Stati Uniti, in grado di coordinare le politiche nazionali dei vari paesi del blocco occidentale. Quel mondo, pensavano i rapitori di Moro, stava andando verso una svolta strutturale che ne avrebbe mutato alle fondamenta le caratteristiche. Clementi LiberazioneSarebbe cominciata la delocalizzazione del lavoro, la ristrutturazione della produzione e il primato del capitale finanziario su quello produttivo. Ma il processo non era irreversibile. Nella loro ipotesi, bastava scoprire gli ingranaggi, gli uomini, i referenti dello Sim per fermarlo e Moro era uno di questi.  Si trovano, nella teorizzazione dello Sim, grandi intuizioni e capacità di lettura della realtà (fu ipotizzata nel 1975), ma anche terribili ingenuità. La divisione del mondo in buoni e cattivi, in sodali e vittime innocenti non appartiene a una realtà complessa, che deve sempre tenere conto di moltissime forze, spesso in competizione, per restare in equilibrio. Quest’ultima considerazione si attaglia anche alla cosiddetta teoria del doppio Stato, recentemente tornata attuale dopo un intervento del presidente Napolitano e gli articoli di noti giornalisti, in particolare del vicedirettore del Corriere della Sera Pierluigi Battista.
Secondo alcuni, in Italia avrebbe a lungo convissuto un sistema nel quale lo Stato ufficiale sarebbe stato solo la parte visibile, emersa dell’intero apparato; alle sue spalle, nascosto, avrebbe agito un secondo Stato, che sarebbe coinvolto in un complesso disegno eversivo che partirebbe addirittura dalla strage del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, per dipanarsi attraverso tutta la storia italiana del secondo dopoguerra. Un secondo Stato, dunque, all’interno del quale intere generazioni di funzionari, militari e civili, si sarebbero passate il testimone del complesso disegno. Questa ipotesi, che spesso diventa certezza in alcuni racconti, ha un grande pregio, ossia quello della semplificazione estrema: da una parte i democratici fedeli al dettato costituzionale, dall’altra i reazionari antidemocratici che pur di portare a termine il proprio sogno eversivo non hanno esitato a mettere bombe, depistare, assassinare personaggi divenuti scomodi. Per contro, i difetti sono molti, e tutti molto marcati. Uno studioso non può certo accontentarsi di una teoria senza riscontri, anche se a prima vista possa tornare o, comunque, risolvere molti problemi. E i riscontri, per il doppio Stato, mancano. La filiera non è mai completa, i fatti si contraddicono, gli attentati e i depistaggi, veri o presunti, si accavallano senza una logica. Quando è stata scoperta la P2, molti ritennero che si fosse giunti alla testa del mostro. Poi, però, si è scoperto che in realtà i piduisti non erano dei golpisti, ma degli ultratlantisti, patrioti a modo loro, anzi, patrioti secondo molti parametri. La stessa delusione la diede Gladio; a capo Marrargiu non ci si addestrava per commettere attentati, ma per organizzare la resistenza armata contro l’invasione dell’esercito ungherese, quello destinato all’Italia in caso di guerra con il Patto di Varsavia. L’Italia sarebbe stata divisa in due e la resistenza concentrata, in attesa dei nostri, in Sicilia e Calabria.  Se manca il nucleo di questo secondo Stato, ridurre tutto a uno Stato nello Stato, inoltre, impedisce allo storico e all’osservatore di cercare le responsabilità politiche che si sono succedute nel corso degli anni, di analizzare gli episodi al di fuori di contesti più ampi (per esempio internazionali), riducendo la storia italiana a mero complotto. La strage di Ustica e la copertura che è stata fatta del tentativo di uccidere il leader libico Gheddafi sui cieli italiani è paradigmatica di quanto vado qui sostenendo. Gli Stati Uniti non solo fallirono l’obiettivo, ma per errore provocarono l’abbattimento di un aereo di linea dell’Itavia e 81 morti civili. Le strutture dell’Aeronautica Militare italiana coprirono l’accaduto, ma poi la politica, tutta la politica, da sinistra a destra, mantenne il segreto sui fatti e a distanza di quasi trent’anni ancora non abbiamo una versione ufficiale da parte del nostro Stato. Davvero ne serve un secondo per coprirci di vergogna? Si è trattato di uno dei maggiori, se non del maggiore depistaggio della storia repubblicana, eppure non compare mai tra le prove dell’esistenza di questo doppio Stato. Sarà perché a noi Gheddafi piace particolarmente se, a parte gli accordi antimigranti degli ultimi mesi, addirittura il nostro presidente del Consiglio di allora, Bettino Craxi, lo avvertì nel 1986 dell’imminente bombardamento americano del suo quartier generale.  Se tutto questo è vero, però, non si può certo liquidare così la questione,  né  si può concordare pienamente con lo spirito delle parole del presidente Napolitano, che chiede una generica ricerca della verità senza assumersi la responsabilità di una posizione; neanche l’articolo liquidatorio di Battista, del resto, ci soddisfa, perché quanti, allora come oggi, ritennero quella di Piazza Fontana una “strage di Stato”, cosa molto criticata dal giornalista, avevano e hanno motivi a sufficienza per farlo. copj13.asp
E non bastano certo le parole di un presidente della Repubblica per superare il problema. Da quando, mi chiedo inoltre, la storia devono scriverla i politici? Pierpaolo Pasolini poco prima di morire stava lavorando alla stesura di un grande romanzo, Petrolio, che non riuscì a terminare. È la storia dell’Italia malata, dell’Italia delle stragi e delle morti violente, all’interno della quale si muovo persone reali, con nomi e cognomi e funzioni vere, non presunti attori mascherati o vestiti di ombre. In quei mesi Pasolini dichiarò di sapere i nomi dei mandanti, di conoscere i luoghi da dove erano partiti gli ordini delle stragi. Era il suo mestiere, disse, quello di conoscere queste cose, perché era uno scrittore. Questa storia è stata ricostruita in un recente libro, Profondo Nero, uscito per Chiarelettere da poco. L’Italia, sapeva Pasolini, è un paese fatto di tanti piccoli, a volte miserrimi interessi, che vanno tenuti insieme attraverso piccoli spostamenti, aggiustamenti appena percettibili. Qual è la logica per cui la nostra fedeltà alla Nato si è manifestata anche attraverso le bombe e gli attentati? La matrice degli attentati che hanno prodotto la carneficina che conosciamo è di destra. Esistono dei nomi, dei processi, delle condanne, delle prove al riguardo. In alcuni casi siamo certi, come per Piazza Fontana, in altri, come per Bologna, sorgono dei dubbi. Di materiale esplosivo e volontà eversiva fu piena l’Italia del dopoguerra. I gruppi neofascisti cominciarono a formarsi già dal 25 aprile e si svilupparono in particolare al Nord, dove infine negli anni Sessanta si passò all’azione. In determinanti momenti forze esterne, come poteva essere la Cia, o interne, come singoli uomini all’interno dei servizi, istigarono, o lasciarono fare, o coprirono post factum. Per questo Piazza Fontana è strage di Stato e per questo la Stazione di Bologna è stato un attacco preciso al nostro paese da parte di un nemico, interno o forestiero. Grazie a contingenze internazionali e a capacità interne il paese ha retto, nonostante tutto. Ora, da un po’, navighiamo a vista, senza attentati ma con il pericolo incombente di veder realizzato per volere del popolo quello che non riuscì agli eversori di destra. In quel caso non si potrà più usare la parola “doppiostato”, ma populismo. Dubito che chi ancora grida alla luna se ne renda conto per tempo.

* Storico
autore di La “pazzia” di Aldo Moro, Odradek 2001
Storia delle Brigate rosse, Odradek 2007

Link
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi
Dietrologia e doppio Stato nella narrazione storiografica della sinistra italiana
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori
I marziani a Reggio Emilia
Le thème du complot dans l’historiographie italienne
Ci chiameremo la Brigata rossa
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand