Dall’eccezione giudiziaria italiana degli anni 70-80, al patriot act varato dall’amministrazione statunitense dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, fino al recente progetto di costituzionalizzazione dello stato di eccezione in Francia, i sistemi politici occidentali che un tempo vantavano di essere le culle dello stato di dritto fanno sempre più ricorso a forme di stato di eccezione. Siamo difronte ad una deriva oppure ad una evoluzione di questi modelli politici? Lo stato di diritto resta l’ostacolo migliore alle pratiche di eccezione oppure ne è diventato il ricettacolo più efficace?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Paolo Persichetti
18 settembre 2006
È strano, ma quando si parla di democrazie liberali si omette sempre di ricordare che questi sistemi prevedono, in caso di grave minaccia, specifiche clausole di autosospensione del proprio ordinamento costituzionale.
Per funzionare il sistema giuridico ha bisogno di normalità, perché ciò avvenga esso si avvale di momenti di interruzione che vengono chiamati «stato di eccezione». È questo un punto cruciale, poiché chi introduce una tale misura è in buona sostanza l’ultimo a decidere, non a caso chi ha questo potere è stato indicato come il sovrano reale (Carl Schmitt). Non lo stato di diritto, dunque, ma chi può decidere sulla sua sospensione rappresenta il vero arcana imperii della sovranità.
A ricordarcelo è stato il professor Panebianco che sul Corriere della Sera per ben tre volte (il 13 e 15 agosto 2016 e poi ancora il 3 settembre successivo) si è soffermato sull’argomento invocando l’introduzione dello stato di eccezione. Ma c’è un problema: se, a quanto pare, le democrazie non possono sfuggire a quel destino crudele che ne prevede l’autosospensione, non c’è invece unanimità sui modi in cui questa interruzione debba avvenire. Infatti, esistono almeno tre modelli contrapposti:
1. Quello tradizionale di ispirazione giacobina, codificato nelle costituzioni liberali dell’800 e del 900, che attribuisce pieni poteri all’esecutivo e sospende le garanzie giuridiche per un periodo limitato nel tempo e nello spazio. Un modello che sarebbe ormai divenuto superfluo di fronte alla natura asimmetrica dei nuovi conflitti.
2. Per questo l’amministrazione Bush ha varato un nuovo modello di applicazione della eccezione caratterizzato da misure stabili e permanenti, che pur salvaguardando regole e procedure prevedono la presenza di buchi neri, «zone grigie» in cui il confine tra legalità e illegalità resta incerto, «ambiti riservati davanti ai quali lo stato di diritto arretra». Una sorta di doppio binario: legalità e diritti riconosciuti solo per una parte della popolazione e trattamenti differenziati per la restante. In egual modo, alcune tipologie di reato sfuggono al regime normale della legge. Uno stato di eccezione postfordista insomma: flessibile, modulabile, a macchia di leopardo, capace persino di delocalizzare ed esternalizzare le incombenze più triviali e compromettenti, organizzando una sorta di stato di eccezione extraterritoriale che conserva per i poteri statali e nella madrepatria unicamente la direzione strategica delle operazioni.
3. Esiste, infine, un terzo modello, lo stato di eccezione giudiziario inventato in Italia alla fine degli anni 70. Quest’ultimo, però, non piace affatto a Panebianco perché «l’eccezione può essere riconosciuta solo se il suo controllo rimane nelle mani della magistratura. Il che riflette lo stato dei rapporti di forza fra magistratura e classe politica». Tuttavia ciò non ha impedito, ricorda sempre l’editorialista del Corriere, che «una qualche forma di stato di eccezione sia stata dichiarata. Brigate rosse, mafia: fenomeni affrontati con leggi speciali (la legislazione antiterrorismo, il 41 bis, ecc)».
Chissà cosa avranno pensato, leggendo queste parole, Bruti Liberati, Armando Spataro e l’associazione nazionale magistrati che durante la vicenda Battisti si sono prodigati per raccontare ai francesi la favola di una Italia giardino incantato dello stato di diritto?
Singolare vicenda quella italiana: i costituenti, infatti, per marcare una netta differenza con i tribunali speciali del fascismo, esclusero dalla Costituzione qualsiasi richiamo alla stato di eccezione. Successivamente, però, questo ostacolo venne aggirato riservando alla magistratura, piuttosto che all’esecutivo, il ruolo di dominus dello stato di eccezione. Circostanza che oltre a costituire una novità assoluta non ha fornito alcuna particolare garanzia in più, ma ha solamente rafforzato una sfera giudiziaria depositaria di un potere di delega che nel tempo si è trasformato in una supplenza politica completa. In questo modo la pratica della eccezione ha assunto una forma ancora più subdola e insidiosa poiché ha potuto legittimarsi con maggiore efficacia attraverso la sua innovativa capacità d’integrare, e non più sospendere, il sistema giuridico-costituzionale, trasformandosi a tutti gli effetti in regola stabile e permanente attraverso il ricorso ad un vasto arsenale di leggi speciali e trattamenti differenziali.
Al punto che non è stato più possibile ripristinare la normalità giuridica poiché non vi era mai stata sospensione, ma unicamente ibridazione di più registri giuridici e penali, legislativi e procedurali, fino ad determinare un groviglio inestricabile che non consente più alcun riassorbimento o fuoriuscita.
In questo modo ha preso forma un simulacro di stato di diritto a partire dalla sedimentazione successiva e stratificazione ripetuta di fasi replicate di emergenza. Questo nuovo modello ha reso obsolete tutte le obiezioni legate alla natura extragiuridica della eccezione, poiché essa appartiene oramai interamente alle istituzioni giuridiche dello stato costituzionale, grazie ad un singolare paradosso che ha fatto del formalismo giuridico non più l’antagonista ma il ricettacolo della dottrina della emergenza. L’introduzione di misure straordinarie e speciali, la cui giustificazione legale ha imposto una messa in forma giuridica sempre più complessa, ha mascherato la rottura della norma: non potendo più far scomparire l’eccezione, la dottrina si è protesa sempre più ad assimilarla e costituzionalizzarla.
È dunque giusto parlare di stato di eccezione giudiziario non solo perché si è creato un sistema penale ibrido, dove norma regolare e regola speciale convivono, si integrano e si sostengono reciprocamente, ma perché il giudiziario è diventato il centro del sistema, il nuovo sovrano che decide.
Scriveva in proposito Montesquieu: «Non può esserci libertà, se la potenza di giudicare non resta separata dalla potenza legislativa e da quella esecutiva. Se questa si salda alla potenza legislativa, il potere esercitato sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario poiché il magistrato diverrebbe legislatore. Se venisse unita alla potenza esecutiva, il magistrato potrebbe avere la forza di un oppressore».
Altri interventi
Lo stato di eccezione giudiziario

tempio di marmo. Grandi moltitudini passavano davanti a lei, sollevando la faccia per implorarla. Nella mano sinistra teneva una spada. Brandiva quella spada colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio, ora una donna che tentava di sottrarsi, ora un folle. Nella destra teneva una bilancia; nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro da quelli che schivavano i colpi della spada. Un uomo con la toga nera lesse da un manoscritto: “Ella non rispetta gli uomini”. Poi un giovanotto col berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia erano corrose dalle palpebre imputridite; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un’anima morente le era scritta sul volto – ma la moltitudine vide perché portava la benda.
tutte le determinazioni giuridiche sono destituite. Per affermarlo e sciogliere così le aporie da cui la teoria moderna dello stato di eccezione non riesce a venir fuori, Giorgio Agamben ricorre ad un archetipo scovato tra gli istituti del diritto romano: il iustitium.
Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro un collaboratore del governo. Marco Biagi era stato ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi.