Il delitto Tobagi e le polemiche infinite

L’omidicio di Tobagi si trasformò in una resa dei conti tra differenti organizzazioni sindacali del giornalismo lombardo che vedevano contrapposti craxiani e giornalisti del Pci. Ne venne fuori una narrazione complottista che vedeva negli autori del delitto dei semplici manovali. Le tesi dietrologicche furono rilanciate dopo la scoperta delle dichiarazioni di un confidente che aveva indicato in Tobagi un possibile obiettivo e che aprirono un nuovo fronte di polemiche, stavolta tra ex appartenenti all’antiterrorismo. Davide Steccanella ripercorre dettagliatamente l’intricata vicenda

di Davide Steccanella

Tobagi targa errata

La targa sbagliata del Liceo Parini che attribuisce l’omicidio alle Brigate rosse

Nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009) Benedetta Tobagi ha scritto: «scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione». Vanamente verrebbe da dire, perché come per l’omicidio di Aldo Moro anche per quello di Walter Tobagi, guarda caso i due delitti di maggiore rilevanza mediatica tra i tanti compiuti durante i cosiddetti “anni di piombo”, non manca chi ancora oggi sostiene che sarebbero stati condannati gli esecutori e non i “mandanti” o che comunque permangano irrisolti misteri.
Nel “caso Tobagi” si verificò persino uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Presidente della Repubblica e i membri togati del CSM che nel dicembre del 1985 si dimisero in blocco per il divieto posto da Francesco Cossiga alla fissata trattazione in seduta plenaria delle dichiarazioni rese qualche giorno prima dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi.

Ricapitoliamo i fatti in ordine cronologico
Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980 e l’omicidio fu rivendicato da una sigla, Brigata 28 marzo, che pochi giorni prima, 7 maggio, aveva rivendicato il ferimento del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.
Il nome richiamava la data di un’operazione dei carabinieri di due mesi prima in una base genovese delle Brigate rosse in via Fracchia nel corso della quale erano morti i quattro i militanti che si trovavano al suo interno; il giorno dopo Walter Tobagi aveva scritto sul Corriere della sera un articolo dal titolo: Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile.
L’operazione era stata resa possibile dalle rivelazioni fatte ai magistrati torinesi dal primo brigatista pentito, Patrizio Peci, in merito al quale il 20 aprile Tobagi aveva firmato un secondo articolo dal titolo Non sono samurai invincibili.
In quello che sarà uno dei suoi ultimi scritti (l’ultimo, Senza promettere la luna, dedicato alle imminenti elezioni, sarà pubblicato il 23 maggio) si legge: «Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».
L’indagine affidata agli ufficiali della sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino e coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica Armando Spataro fu particolarmente rapida e dopo soli quattro mesi vennero arrestati tutti i responsabili.
Dai documenti d’indagine risulta che il 5 giugno viene posta sotto osservazione un’abitazione di via Solferino 34 intestata a Caterina Rosenzweig, nota agli inquirenti perché arrestata il 23 marzo di due anni prima, avendo la stessa dimenticato passaporto e guanti nel corso di un attentato incendiario alla Bassani Ticino di Venegono Inferiore (VA) rivendicato dalle Formazioni Comuniste Combattenti, nella cui base milanese di via Negroli il 13 settembre 1978 era stato arrestato Corrado Alunni.
Gli inquirenti sapevano del suo legame con Marco Barbone perché costui le aveva inviato in carcere alcune lettere e l’11 giugno dispongono l’intercettazione delle utenze telefoniche della Rosenzweig e di coloro che, oltre a Barbone, risultavano in costante contatto con lei: Paolo Morandini, Silvana Montanari e Stefano Mari.
Contemporaneamente viene disposta una perizia per confrontare la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di due attentati del 1979 ai giornali L’Unità e Il Corriere della sera siglati Guerriglia Rossa, con quella, che risultava identica, del manoscritto di rivendicazione di una rapina del 1978 in via Colletta reperita in via Negroli e quella, pure apparentemente simile, delle lettere inviate da Barbone alla fidanzata.
Il 5 luglio Barbone parte per il servizio militare ad Albenga e a settembre L’Espresso pubblica le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro in cui riferiva che per l’omicidio Tobagi stavano indagando su ex militanti delle FCC di Alunni e sulla base dell’esito confermativo del 16 settembre della perizia sulla sua grafia, il 25 settembre Barbone viene arrestato per la rapina di via Colletta, per evitare, diranno gli inquirenti, che messo in allarme da quell’articolo si desse alla fuga e tradotto nella caserma Porta Magenta di via Tolentino.
Il 2 ottobre Barbone interrogato nega ogni addebito, al termine il PM Spataro lo informa che è sospettato anche per l’omicidio Tobagi e gli attentati di Guerriglia Rossa, il giorno dopo chiede un incontro riservato con il generale Dalla Chiesa in caserma e il 4 ottobre verbalizza al PM i nominativi degli altri cinque componenti della 28 marzo che vengono tutti arrestati.
Si tratta di due operai e tre studenti: Paolo Morandini, 21 anni, Daniele Laus, 22 anni, ex militante nella SAP (Squadra Armata Proletaria) Sempione, Manfredi De Stefano, 23 anni, operaio IRE di Varese ed ex militante in altra SAP legata alle FCC, Mario Marano, 27 anni, e Francesco Giordano, 28 anni, entrambi ex militanti delle Unità Comuniste Combattenti di Guglielmo Guglielmi.
Morandini e Laus confessano subito (il secondo ritratterà in istruttoria) e il processo denominato Rosso-Tobagi inizia il 1° marzo 1983 e si conclude il 28 novembre dello stesso anno con la condanna dei sei imputati e la scarcerazione di Barbone e Morandini in applicazione della legge premiale n. 304 del 1982.

La campagna dell’Avanti
Sin dalla conclusione dell’istruttoria il PSI, sollecitato da alcune affermazioni dell’allora direttore del Corriere Franco Di Bella (successivamente risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli), che riteneva che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nell’impegno sindacale del giornalista, monta una campagna stampa su L’Avanti in cui mette in discussione la verità di Barbone, sostenendo che fosse stata concordata con la Procura in cambio dell’impunità per la fidanzata Caterina Rosenzweig, perché il testo della rivendicazione dell’omicidio appariva un elaborato troppo tecnico per non essere stato scritto da un giornalista professionista.
Il 27 maggio 1983, in occasione della campagna elettorale, il segretario Bettino Craxi (che il 4 agosto diventerà il nuovo Presidente del Consiglio) dichiara in un comizio al Castello Sforzesco che «Gli organi di polizia e la magistratura fin dal dicembre 1979 erano a conoscenza che gruppi terroristici progettavano un attentato a un giornalista milanese che la fonte confidenziale indicava in Walter Tobagi, informandoli del luogo esatto dove l’attentato sarebbe stato compiuto».
Procura e carabinieri smentiscono indignati, affermando che quando il nome di Tobagi era stato trovato nel gennaio del 1979 in una valigetta attribuibile ai Reparti Comunisti d’attacco (gruppo collegato alle Formazioni Comuniste Combattenti) al giornalista fu proposta una scorta che lui rifiutò, ma dopo le polemiche all’esito del processo per la scarcerazione di Barbone e Morandini, il 19 dicembre 1983 l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro rivela l’esistenza di un appunto riservato del 13 dicembre 1979 in cui un carabiniere che si firma Ciondolo riporta la notizia ricevuta da una fonte confidenziale.
«Secondo il postino, il (segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Costui non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti. Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi e la zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare».
L’Avanti pubblica il documento e il carabiniere Ciondolo viene prontamente identificato nel brigadiere Dario Covolo e così pure il postino: si tratta di un ex militante varesino delle FCC, Rocco Ricciardi, arrestato il 16 novembre 1981, il quale sin dal marzo del 1979 aveva iniziato a collaborare segretamente con i carabinieri consentendo loro di arrestare nel maggio dello stesso anno a Como sette componenti di rilievo delle FCC, che di lì a poco cesseranno di esistere.
La fonte di Ricciardi in realtà non era un altro confidente, ma, come si legge nel documento, Pierangelo Franzetti, ex operaio IRE di Varese, militante nei Reparti Comunisti d’Attacco.

Quel documento era difficilmente collegabile al delitto
A quel punto, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi fu effettivamente colpito in via Solari da Barbone che aveva militato nelle FCC di cui aveva parlato Ricciardi e meno di quattro mesi dopo gli inquirenti furono già in grado di arrestarlo, si disse che non si era voluto impedire una morte annunciata e si era imbastita una versione di comodo.
In realtà, ad un’attenta lettura, quel documento non era facilmente collegabile al delitto di sei mesi dopo e tanto meno a Barbone e non perché, come disse qualcuno, ancora non poteva esistere la sigla Brigata 28 marzo (che si riferiva alla data di un fatto accaduto l’anno successivo), ma per altre ragioni.
Ricciardi si limita a dire che secondo lui il fatto che Franzetti gli avesse detto che il suo gruppo stava cessando azioni su Varese per spostarsi a Milano per un precedente progetto delle FCC poteva significare il sequestro di Tobagi, perché agli inizi del 1978 era stato uno degli obiettivi del gruppo. Ricciardi, che ben conosceva Barbone e la Rosenzweig (e proprio per il progettato sequestro Tobagi), non li nomina con riferimento al Franzetti e neppure quando, parlando di altro, cita ex militanti delle FCC (Balice, Serafini, Belloli), per cui dedurre che da quell’appunto gli inquirenti avrebbero potuto risalire al futuro fondatore della 28 marzo, ai tempi persona incensurata, appare una forzatura.
Neppure col senno di poi tuttavia, quando nel dicembre del 1983 tutte le indagini su quei gruppi si erano ormai concluse, quell’appunto appare collegabile all’omicidio di sei mesi dopo. Le successive indagini accerteranno infatti che nel dicembre 1979 il gruppo che l’anno dopo avrebbe assunto la sigla 28 marzo si era appena formato e organizzava rapine di autofinanziamento e Barbone aveva cessato da tempo ogni contatto con gli ex FCC, tanto che Ricciardi rimasto in contatto con loro nulla più sapeva di lui, né di Guerriglia Rossa né di altro. Per cui si può affermare con adeguata certezza che nel dicembre del 1979, contrariamente all’idea che si era fatta il Ricciardi, non era ancora in preparazione un attentato al giornalista del Corriere, né da parte del gruppo di Barbone né da parte di quello di Franzetti.

La querela di Spataro
Ma le polemiche non si placano e Spataro sporge querela per diffamazione contro il direttore dell’Avanti Ugo Intini, il vicedirettore Francesco Gozzano, i giornalisti Adolfo Fiorani e Piervittorio Scorti, il sociologo Roberto Guiducci e i deputati PSI Salvo Andò e Paolo Pillitteri, mentre Ricciardi scrive un memoriale dove nega di avere fatto a dicembre il nome di Barbone, ammettendo di essere stato contattato dai Carabinieri dopo l’omicidio di Tobagi: «Per parte mia mi impegnai nella ricerca di notizie sulla 28 marzo. In proposito riuscii a riferire ai carabinieri una sola voce: Marchettini mi aveva detto che un tale Manfredi che conoscevo personalmente, parlando in un bar con il Franzetti alla presenza di Marchettini stesso, aveva lasciato vagamente intendere che aveva rapporti con la 28 marzo. I CC, sempre durante l’estate, identificarono questo Manfredi per Manfredi Di Stefano ed io ne riconobbi la foto».
Nel 1985, al processo di appello (nel frattempo Manfredi De Stefano era morto il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine) la versione di Barbone viene confermata da Marano e Laus, che, scrive Leo Valiani: «il 4 giugno in una lucida deposizione ha corretto le precedenti forzature tese a lasciar bollire nell’ambiguità l’ipotesi dei mandanti del delitto, di mani estranee e specializzate nella stesura del volantino e a diradare le possibili ombre di un coinvolgimento di Caterina Rosenzweig».
Ricciardi, intervistato il 14 giugno 1985 dall’Unità prima di deporre, dichiara: «Intendo dire tutto con chiarezza perché sono state commesse leggerezze sul mio conto anche dall’onorevole Scalfaro che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo in pericolo i miei familiari. Si è detto che avrei preannunciato l’omicidio di Walter Tobagi. Ma questo non è vero. Per conto mio percepii che Franzetti potesse parlare di Tobagi giacché nei suoi confronti c’era stato da parte delle Formazioni Comuniste Combattenti quel vecchio progetto di sequestro nel gennaio 1978. Fu una mia personale ipotesi e in questi termini la riferii ai carabinieri».
Il 7 ottobre 1985 la Corte di appello conferma la sentenza di primo grado (con sconti di pena per Marano e Laus), che diviene definitiva nell’ottobre dell’anno successivo.
Il 23 Novembre 1985 il Tribunale di Roma condanna Intini, Andò, Pillitteri, Gozzano e Fiorani per diffamazione ai danni di Spataro e il Presidente del consiglio Craxi dichiara al Tg «Faccio mie parola per parola tutte le affermazioni ed i giudizi che hanno determinato la condanna dei compagni socialisti», affermazione che apre un “caso” senza precedenti al CSM perché il 5 dicembre il Presidente della Repubblica Cossiga ne vieta la discussione determinando le dimissioni (poi rientrate) di tutti i membri togati.
In appello interviene l’applicazione della sopraggiunta amnistia con conferma del risarcimento danni a Spataro, ribadito dalla Cassazione nel 1987 e il 21 maggio 1993 il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati delle FCC, tra cui Barbone, Ricciardi e la Rosenzweig, per il tentato sequestro di Walter Tobagi del 1978, perché il fatto non sussiste.

Le accuse di Magosso e Arlati
La vicenda sembrerebbe finita, quando nel 2003 il giornalista Renzo Magosso e l’ex capitano Roberto Arlati pubblicano per Franco Angeli il libro Le carte di Moro, perché Tobagi che riprende le accuse ai carabinieri e il 17 giugno 2004 Magosso pubblica sul settimanale Gente un’intervista a Dario Covolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato che accusa i superiori Ruffino e Bonaventura di avere chiuso le sue note in un cassetto e di avere subito mobbing per quel fatto.
Il 18 giugno 2004 alla Camera il deputato verde Marco Boato dichiara: «A distanza di 24 anni sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell’epoca che nascosero e non diedero seguito a una nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo» e l’ex deputato Claudio Martelli allestisce uno speciale su Canale 5, seguito nel 2005 da Giovanni Minoli sulla RAI che dedica al “caso Tobagi” un’intera puntata di La storia siamo noi, in cui trasmette un’intervista a Covolo (da tempo traferitosi all’estero), che ribadisce la tesi del “delitto annunciato”.

Un’altra querela
Ruffino e la sorella di Bonaventura (deceduto nel 1992) querelano per diffamazione Magosso, Covolo e il direttore di Gente Umberto Brindani e nel corso del processo che si celebra avanti il Tribunale di Monza, all’udienza dell’11 luglio 2007 Dario Covolo viene esaminato come imputato di reato connesso e quando gli viene mostrato l’appunto del 13 dicembre 1979 dichiara: «ci sono degli appunti successivi a questo, dove si fa nome e cognome di quelli che devono ammazzare. O per lo meno si fa il nome e si dice: Guarda che il gruppo che sta operando dovrebbe essere la Caterina e il suo fidanzato, il suo convivente, Barbone Marco, non mi si fanno i nomi degli altri però quei nomi vengono fatti in successivi appunti».
Questi “ulteriori appunti” non verranno mai rintracciati e il 23 luglio 2007, nel corso di una conferenza a Milano dal tiolo Le verità nascoste. Il caso Tobagi, sempre Covolo dichiara: «Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l’avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento. Dopo la morte di Tobagi ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri. Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L’incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente».
Il 20 settembre 2007 il Tribunale di Monza condanna Magosso e Brindani e la sentenza viene definita dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo «lesiva della libertà di stampa», ma nel settembre dell’anno successivo viene condannato anche Covolo, condanne tutte confermate nel 2009 in Appello e definitive nel 2010.

Le polemiche continuano, arriva anche la commissione Moro
Al termine del libro Ragazzi di buona famiglia di Fabrizio Calvi (Piemme) si legge che: «Dopo ventisette anni, il barbaro assassinio di Walter Tobagi non ha ancora smesso di far discutere – e indignare – l’Italia».
Nel 2009 Benedetta Tobagi pubblica per Einaudi Come mi batte forte il tuo cuore in cui definisce la nota di Covolo troppo «generica» per costituire prova che i carabinieri fossero stati avvertiti sei mesi prima dell’omicidio del padre e dopo avere direttamente parlato con Covolo non ritiene sia stato «perseguitato per quel documento».
Nel 2010 Armando Spataro pubblica per Laterza Ne valeva la pena in cui racconta che l’indagine sulla 28 marzo si concentrò sull’area gravitante intorno alla sigla Guerriglia rossa sia perché aveva come obiettivo il mondo della stampa sia per le identiche modalità di recapito delle rivendicazioni a mezzo posta a vari giornalisti, e che fu Ruffino a rilevare per primo l’evidente identità di grafia tra la rivendicazione della rapina di via Colletta trovata due anni prima in via Negroli e quella sulle buste di rivendicazione di Guerriglia rossa e sulle lettere di Barbone alla Rosenzweig.
Ancora una volta la vicenda sembrerebbe conclusa, ma il 19 ottobre 2016 nel corso della seduta n. 107 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, l’ex deputato Umberto Giovine torna a parlare della vicenda Tobagi in termini accusatori:
«Come mai Caterina Rosenzweig rimane fuori dall’inchiesta? È una cosa inaudita. La giustificazione che dette – e lo dico con nome e cognome – Armando Spataro è ancora peggio del fatto in sé. Disse che, siccome Caterina Rosenzweig apparteneva a una «famiglia bene» di Milano – una cosa che un giudice non dovrebbe neanche pensare (io sono nipote di un magistrato), figuriamoci dirla – per questo è rimasta fuori dall’inchiesta; poi questi assassini hanno avuto delle pene irrisorie. Dopo l’affare Moro questa è la cosa che mi fa più andare in bestia quando penso all’Italia, non so se qualcuno ha il potere di intervenire ex post su una cosa del genere, ma che fosse una cosa invereconda lo si capì subito, solo che noi socialisti non ci comportammo in modo intelligente. Anziché muoverci in termini di diritto e contestare ogni mossa di Spataro, la buttammo in politica».

Il flop delle nuove rivelazioni
L’ingente elaborato finale della nuova Commissione Moro non approda a particolari novità, ma il 16 gennaio 2018 i media danno ampio risalto a una conferenza stampa organizzata da Renzo Magosso presso la sala dell’associazione lombarda giornalisti di via Monte Santo in cui vengono annunciate «nuove rivelazioni sull’omicidio Tobagi». Alla conferenza è presente il Giudice Guido Salvini, il quale, pur escludendo ogni «complotto», afferma che non essendo credibile che senza la nota Covolo i carabinieri abbiano potuto mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni, vi fu una iniziale sottovalutazione di quel documento e dopo l’omicidio si è voluto celare la cosa.
Il giorno dopo Il Corriere della sera, forzando non poco il contenuto di quelle affermazioni, titola: «L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi, il giudice Salvini: ‘Si poteva salvare’», e ne seguono nuove polemiche.
In realtà, a quella conferenza non fu esibito nessun nuovo elemento rispetto a quelli già noti. L’appunto di Bonaventura a Bozzo era stato depositato nel corso del processo di Monza, come risultava da una interpellanza presentata dal Partito Radicale riportata in un articolo datato 2008 reperibile sul sito web di Franco Abruzzo, dove si legge: «In quest’ultimo processo è emerso ora un fatto nuovo, giudicato dai Radicali grave e sconvolgente. Il generale Niccolò Bozzo – è scritto nell’interpellanza dei Radicali -, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa, sentito come teste, ha presentato un documento riservato preparato dai suoi superiori, nel quale venivano date indicazioni a Bozzo per fornire, se interrogato dalla magistratura, la versione ‘concordata’ sulle indagini». La scansione dei primi atti d’indagine era già stata riferita da Spataro nel libro Ne valeva la pena di otto anni prima (pagg. 82 e ss.) e l’articolo su L’Occhio del 25 settembre 1980, dove Magosso scriveva «Preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese», era stato citato da Stefania Limiti in un post datato 20 ottobre 2009 leggibile sul sito Miccia Corta.
Sempre nel 2018 Zona Contemporanea pubblica Vicolo Tobagi di Antonello De Stefano, il quale ricorda che il fratello fu arrestato mentre era con lui la sera del 3 ottobre ad Arona davanti al Bar Stadio, un giorno prima quindi della data del verbale di confessione di Barbone, confermando che Manfredi conosceva Marchettini perché avevano lavorato insieme all’IRE di Varese. Nel libro compare un’intervista a Francesco Giordano che dice di avere conosciuto i membri di quel gruppo alla fine del 1979 tramite Mario Marano, con loro vennero organizzate due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso di Natale 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980, e la proposta di un attentato a Tobagi gli fu fatta da Barbone dopo il 28 marzo del 1980.
Il 15 agosto 2018 Antonello De Stefano rilascia un’intervista a Roberto Pietrobelli sul Fatto Quotidiano in cui dichiara: «Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello, perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi fu trasferito a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto». Si legge nell’articolo: «Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni: Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte».

Anche la corte di Strasburgo dice la sua
Passano altri due anni e il 16 gennaio 2020 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani assegnando loro un risarcimento di 15mila euro perché, si legge nella sentenza CEDU: «Legittimamente i querelanti potevano dolersi con il brigadiere che ha fatto le affermazioni riportate nel settimanale, per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa, quanto al cronista e al direttore responsabile del settimanale, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità, e non avesse operato proprie inserzioni e considerazioni offensive sulla narrazione riferita», aggiungendo che sul punto i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un’indagine seria e approfondita».
Nel commentare la sentenza a lui favorevole Magosso dichiara al Dubbio: «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?».
Anche qui, fermo restando che la CEDU non ha confermato la versione di Covolo, limitandosi a stabilire che non è perseguibile il giornalista che riporta dichiarazioni altrui dopo avere svolto adeguata inchiesta (che non significa inconfutabile), si potrebbe obiettare che quanto ricorda Magosso non smentisce la versione degli inquirenti. A giugno i carabinieri erano già sulle tracce di Barbone per cui l’anticipazione di Dalla Chiesa a Di Bella è imprudente ma compatibile; l’informazione da Varese poteva riferirsi a quanto riferito da Ricciardi su De Stefano dopo l’omicidio per averlo appreso dal Marchettini e non al precedente appunto del 13 dicembre 1979; se Magosso scrive il 25 settembre che Barbone è delle BR mostra di non essere troppo informato su costui, che comunque indica come arrestato e non come l’assassino di Tobagi.

In ogni caso, questi sono i fatti e ognuno è libero di interpretarli come ritiene, ma poiché ritengo probabile che per il quarantennale dell’assassinio di Walter Tobagi la vicenda della nota Covolo verrà ripresa, pareva corretto ricostruirla.

Il prof. De Tormentis e la pratica della tortura in Italia

Diritto penale contLa rivista Diritto penale contemporaneo dedica un’articolo di commento alla sentenza della corte d’appello di Perugia che il 15 ottobre scorso ha riconosciuto, durante il giudizio di revisione della condanna per calunnia inflitta a Enrico Triaca per aver denunciato le torture subite dopo l’arresto nel maggio 1978, l’esistenza sul finire degli anni 70 e i primissimi anni 80 di un apparato statale della tortura messo in piedi per combattere le formazioni politiche rivoluzionarie che praticavano la lotta armata.
«Più che alla ricerca di verità giudiziarie – si spiega nel testo – questa sentenza deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria».

Ipse dixit

Sandro Pertini, presidente della Repubblica ex partigiano (ma proprio ex) non eravamo il Cile di Pinochet:
«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri, al Clarin, giornale argentino:
«
L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura»

Domenico Sica, magistrato pm, in una intervista apparsa su Repubblica del 15 marzo 1982:
«Le denunce contro le violenze subite dagli arrestati fanno parte di una campagna orchestrata dai terroristi per denigrare le forze dell’ordine dopo i recenti clamorosi successi ottenuti»

Armando Spataro, magistrato pm, su Paese sera del 19 marzo 1982 in polemica con il capitano di Ps Ambrosini e l’appuntato Trifirò che avevano denunciato le torture praticate nella caserma di Padova:
«Un conto è la concitazione di un arresto, un conto è la tortura. In una operazione di polizia non si possono usare metodi da salotto. La tortura invece è un’altra»

Giancarlo Caselli e Armando Spataro, magistrati e pm, nel libro degli anni di piombo, Rizzoli 2010:
«Nel pieno rispetto delle regole, i magistrati italiani fronteggiarono la criminalità terroristica, ricercando elevata specializzazione professionale e ideando il lavoro di gruppo tra gli uffici (il coordinamento dei 36) […] La polizia doveva, anche allora, mettere a disposizione della magistratura gli arrestati nella flagranza del reato o i fermati entro 48 ore e non poteva interrogarli a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti….»

 

www.penalecontemporaneo.it 4 Aprile 2014
Corte d’appello di Perugia, 15 ottobre 2013, Pres. Est. Ricciarelli [Luca Masera]

1.In un recente articolo di Andrea Pugiotto dedicato al tema della mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura (Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, in questa Rivista, 27 febbraio 2014), l’autore prende in esame gli argomenti utilizzati più di frequente da chi intenda negare rilevanza al problema, e nel paragrafo dedicato all’argomento per cui la questione “non ci riguarda”, elenca una serie di casi di tortura accertati in sede giudiziaria. La sentenza della Corte d’appello di Perugia qui disponibile in allegato aggiunge a questo terribile elenco un nuovo episodio, riconducibile peraltro al medesimo pubblico ufficiale già autore di un fatto di tortura citato nel lavoro di Pugiotto.2. In sintesi la vicenda oggetto della decisione.Nel maggio 1978 Enrico Triaca viene arrestato nell’ambito delle indagini per il sequestro e l’uccisione dell’on Moro, in quanto sospettato di essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Nel corso di un interrogatorio di polizia svoltosi il 17 maggio, il Triaca riferisce di aver aiutato un membro dell’organizzazione a trovare la sede per una tipografia clandestina, e di avere ricevuto dalla medesima persona la pistola, che era stata rinvenuta in sede di perquisizione; il giorno successivo, sempre interrogato dalla polizia, indica altresì il nominativo di alcuni appartenenti all’organizzazione. Le dichiarazioni rese all’autorità di polizia vengono poi confermate al Giudice istruttore durante un interrogatorio svoltosi alla presenza del difensore. Il 19 giugno, nel corso di un nuovo interrogatorio, il Triaca ritratta quanto affermato in precedenza, affermando “di essere stato torturato e precisando che verso le 23.30 del 17 maggio era stato fatto salire su un furgone in cui si trovavano due uomini con casco e giubbotto, era stato bendato e fatto scendere dopo avere percorso sul furgone un certo tratto, infine era stato denudato e legato su un tavolo: a questo punto mentre qualcuno gli tappava il naso qualcun altro gli aveva versato in bocca acqua in cui era stata gettata una polverina dal sapore indecifrabile; contestualmente era stato incitato a parlare”. In seguito a queste dichiarazioni, il Triaca viene rinviato a giudizio per il delitto di calunnia presso il Tribunale di Roma, che perviene alla condanna senza dare seguito ad alcuno degli approfondimenti istruttori indicati dalla difesa; la sentenza viene poi confermata in sede di appello e di legittimità.La Corte d’appello di Perugia viene investita della vicenda in seguito all’istanza di revisione depositata dal Triaca nel dicembre 2012. La Corte afferma in primo luogo che “il giudizio di colpevolezza si fondò su argomenti logici, in assenza di qualsivoglia preciso elemento probatorio tale da far apparire impossibile che l’episodio si fosse realmente verificato. Tale premessa è necessaria per comprendere il significato del presente giudizio di revisione, volto ad introdurre per contro testimonianze, aventi la funzione di accreditare specificamente l’episodio della sottoposizione del Triaca allo speciale trattamento denominato waterboarding”. Nel giudizio di revisione vengono dunque assunte le testimonianze di un ex Commissario di Polizia (Salvatore Genova) e di due giornalisti (Matteo Indice e Nicola Rao) che avevano svolto inchieste su alcuni episodi di violenze su detenuti avvenute dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta (la vicenda più nota è quella relativa alle violenze commesse nell’ambito dell’indagine sul sequestro del generale Dozier nel gennaio 1982: è l’episodio cui viene fatto cenno nel lavoro del prof. Pugiotto, citato sopra) ad opera di un gruppo di poliziotti noto tra le forze dell’ordine come “i cinque dell’Ave Maria”, agli ordini del dirigente dell’Ucigos Nicola Ciocia, soprannominato “prof. De Tormentis”. Il Genova (che aveva personalmente assistito agli episodi relativi al caso Dozier) aveva organizzato, in due distinte occasioni, un incontro tra i suddetti giornalisti ed il Ciocia, il quale ad entrambi aveva riferito delle violenze commesse dal gruppo da lui diretto sul Triaca, che era stato il primo indagato per reati di terrorismo ad essere sottoposto alla pratica del waterboarding, in precedenza “sperimentata” su criminali comuni. Sulla base di queste convergenti testimonianze, e ritenendo che “la mancata escussione della fonte diretta non comporta inutilizzabilità di quella indiretta, peraltro costituente fonte diretta del fatto di per sé rilevante della personale rilevazione da parte del Ciocia”, la Corte conclude che “la pluralità delle fonti consente di ritenere provato che un soggetto, rispondente al nome di Nicola Ciocia, confermò di avere, quale funzionario dell’Ucigos al tempo del terrorismo, utilizzato più volte la pratica del waterboarding (…) la stessa pluralità delle fonti, sia pur – sotto tale profilo – indirette, consente inoltre di ritenere suffragato l’assunto fondamentale che a tale pratica fu sottoposto anche Enrico Triaca”. La sentenza di condanna per calunnia a carico del Triaca viene quindi revocata, e viene disposta la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per quanto di eventuale competenza a carico del Ciocia (la Corte ovviamente è consapevole del lunghissimo tempo trascorso dei fatti, ma reputa che “la prescrizione va comunque dichiarata e ad essa il Ciocia potrebbe anche rinunciare”).

3. La sentenza in allegato rappresenta solo l’ultima conferma di quanto la tortura sia stata una pratica tutt’altro che sconosciuta alle nostre forze di polizia durante il periodo del terrorismo. La squadra di agenti comandata dal Ciocia ed “esperta” in waterboarding non agiva nell’ombra o all’insaputa dei superiori: a quanto riferito dal Genova, della cui attendibilità la Corte non mostra di aver motivo di dubitare, i metodi dei “cinque dell’Ave Maria” erano ben noti a quanti, nelle forze dell’ordine, si occupavano di terrorismo, ed addirittura la sentenza riferisce come, in un’intervista rilasciata dallo stesso Ciocia, egli riferisca che l’epiteto di “prof. De Tormentis” gli fosse stato attribuito dal vice Questore dell’epoca, Umberto Improta. Quando poi una delle vittime, come il Triaca, trovava il coraggio per denunciare quanto subito, le conseguenze sono quelle riportate nella sentenza allegata: condanna per calunnia, senza che Il Tribunale svolga alcuna indagine per accertare la falsità di quanto riferito.

Il quadro che emerge dalla sentenza è insomma a tinte assai fosche. Negli anni Settanta-Ottanta, operava in Italia un gruppo di funzionari di polizia dedito a pratiche di tortura; e l’esistenza di questo gruppo era ben nota e tollerata all’interno delle forze dell’ordine, anche ai livelli più alti. La magistratura in alcuni casi ha saputo reagire a queste intollerabili forme di illegalità (esemplare è il processo, anch’esso citato nel lavoro di Pugiotto, celebrato presso il Tribunale di Padova nel 1983 in relazione proprio ai fatti relativi al caso Dozier), in altre occasioni, come quella oggetto della sentenza qui in esame, ha preferito voltarsi dall’altra parte, colpevolizzando le vittime della violenza per il fatto di avere voluto chiedere giustizia .

La sentenza non riferisce fatti nuovi: le fonti su cui si basa la decisione sono le testimonianze di due giornalisti, che avevano pubblicato in libri ed articoli le vicende e le confessioni poste a fondamento della revisione. Fa comunque impressione vedere scritto in un provvedimento giudiziario, e non in un reportage giornalistico, che nelle nostre Questure si praticava la tortura; e fa ancora più impressione se si pensa che la metodica utilizzata, il famigerato waterboarding, è la medesima che in anni più recenti è stata utilizzata dai servizi segreti americani per “interrogare” i sospetti terroristi di matrice islamista: passano gli anni, ma la tortura e le sue tecniche non passano di moda.

Ormai sono trascorsi decenni dalle condotte del prof. De Tormentis e della sua squadra, ed al di là del dato formale – posto in luce dalla Corte perugina – che la prescrizione è rinunciabile, davvero non ci pare abbia molto senso immaginare la riapertura di inchieste penali volte a concludersi invariabilmente con una dichiarazione di estinzione del reato, per prescrizione o per morte del reo, considerato il lunghissimo tempo trascorso dai fatti. Più che alla ricerca di verità giudiziarie, la sentenza qui allegata deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria.

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Le torture contro i militanti della lotta armata
Gli anni spezzati dalla tortura di Stato

L’Italia tortura

Mauro Palma*
il manifesto, 18 Febbraio 2012

Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi – diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato – che fanno capire tale distanza.

Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti» ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamente

Calabria, 1976
Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra – si diceva allora extraparlamentare – nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile.

Il caso «De Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da Chi l’ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia – l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce – e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato – «prestato» alla bisogna da Napoli al nord – ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’altra luce al tutto.

La tortura è una pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da «episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia.
L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi – penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale – avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita «legislazione d’emergenza».
Spataro, Battisti e la magistratura
Anche recentemente – esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti – il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi – fortunatamente la larga maggioranza – ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un «io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi.

* Fino allo scorso dicembre presidende del comitato europeo contro la tortura

Link
Torture contro i militanti della lotta armata


PierVittorio Buffa: “La tortura c’era”

Adriano Sofri, l’uso della tortura negli anni di piombo
«Che delusione professore!». Una lettera di Enrico Triaca a Nicola Ciocia-professor De Tormentis
Rai tre Chi l’ha visto? Le torture di Stato

Nicola Ciocia, Alias De Tormentis risponde al Corriere del Mezzogiorno 1
Torture, anche il Corriere della sera fa il nome di De Tormentis si tratta di Nicola Ciocia
Nicola Ciocia, alias De Tormentis, è venuto il momento di farti avanti
Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario a Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, ex funzionario Ucigos torturatore di brigatisti
Triaca:“Dopo la tortura, l’inferno del carcere – 2
Un’antica ricetta per la memoria condivisa

Enrico Triaca; “De Tormentis mi ha torturato così” – 1

1982 la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
Nicola Ciocia, alias “De Tormentis” è venuto il momento di farti avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il pene della Repubblica: risposta a Miguel Gotor 1/continua

Miguel Gotor diventa negazionista sulle torture e lo stato di eccezione giudiziario praticato dallo stato per fronteggiare la lotta armata
Miguel Gotor risponde alle critiche
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Tortura: quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista PierVittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982
L’énnemi interieur: genealogia della tortura nella seconda metà del Novecento
Ancora torture
Torture nel bel Paese
Pianosa, l’isola carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Torture in Italia: Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti

L’inchiesta – Si fa sempre più esile il velo dietro il quale si nasconde l’identità del capo (conosciuto con l’eteronimo di “De Tormentis”) della squadretta speciale della polizia (chiamata “i cinque dell’ave maria”) che tra il 1978 e i primi anni ’80 torturò i militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse per estorcere informazioni da impiegare nelle indagini


Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011


Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse. Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.
Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.
Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti».
La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».

De Tormentis è in questa foto

Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati». De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico (p. 5), nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.
Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni  nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole.
Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano non è contemplata la tortura tortura).
L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998).
La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».

Postscriptum: potete facilmente scovare il nome del professor De Tormentis cliccando sui link presenti all’interno dell’articolo. Se prorpio andate di fretta, il suo nome è Nicola Ciocia

Per approfondire
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Torture contro i militanti della lotta armata
Torture: Ennio Di Rocco, pocesso verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
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Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
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Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
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1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista Piervittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982

Torture contro le Brigate rosse: chi si nasconde dietro l’eteronimo “De Tormentis”? Chi diede il via libera alle torture?

Torno ancora una volta a parlare del libro di Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali“: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer, sul quale non mancheranno altri post in futuro

De Tormentis è in questa foto

Prima parte

L’outing del capo della squadra speciale del ministero dell’Interno addestrata all’uso del waterboarding per interrogare gli arrestati accusati di appartenere alle Brigate rosse è uno dei pochi fatti nuovi venuti fuori dalla mole di pubblicazioni sulla lotta armata, il sequestro Moro e la storia delle Br, apparse negli ultimi mesi e in gran parte caratterizzate dai soliti approcci dietrologici.
Il funzionario dell’Ucigos, che appare sotto l’eteronimo di “professor De Tormentis”, accompagnato anche dal racconto del commissario della Digos Salvatore Genova, inquisito per aver partecipato alla tortura di Cesare Di Lenardo ma “salvato” dall’immunità parlamentare ottenuta grazie all’elezione come deputato nelle file del partito socialdemocratico, che in quegli anni vantava come segretario Pietro Longo, affiliato alla loggia P2, riconosce che una struttura ad hoc era stata creata nel 1978, quando venne impiegata durante il sequestro Moro contro il tipografo delle Br, Enzo Triaca.
Struttura che – afferma “De Tormentis” –  venne messa in sonno dopo la denuncia di Triaca nella quale si raccontava in modo dettagliato il “trattamento” subito. Denuncia che costò a Triaca una ulteriore condanna per calunnia, anche se quei fatti – oggi sappiamo grazie alla circostanziata conferma di “De Tormentis” – erano veri.
La struttura speciale, spiega ancora il maestro della tortura che simula l’annegamento con acqua e sale, fu riattivata durante il sequestro, da parte delle Br-pcc del generale americano James Lee Dozier. Una riunione del comitato interministeriale per la sicurezza presieduto dall’allora capo del governo, il repubblicano e ultra-atlantista Giovanni Spadolini, diede il via libera all’uso della tortura per estorcere informazioni durante gli interrogatori. La struttura operò per due anni fino alla fine del 1982 non solo contro le Brigate rosse ma almeno in un caso anche contro un arrestato di destra.

La confessione di “De Tormentis” e il riscontro incrociato con le parole di Genova non chiariscono però tutto. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta filiera di comando? Nel libro viene tirato in ballo Umberto Improta, allora dirigente Ucigos, poi promosso questore e successivamente prefetto. Di lui già si sapeva. Ma chi c’era ancora più su?
Sarebbe interessante sapere come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta dei Nocs capeggiata da Genova, che nel libro di Rao si racconta come il buono, uno che assisteva soltanto alle torture, quasi schifato dai metodi di “De Tormentis”. Quei Nocs, condannati in primo grado per violenza privata (in Italia il reato di tortura non esiste) ma prosciolti in seguito, racconta un compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare».

Queste rivelazioni portano un colpo decisivo alle tesi apologetiche propagandate da magistrati come Giancarlo Caselli e Armando Spataro (cf. Il libro degli anni di piombo, Aa.Vv. curato da Marc Lazar, Rizzoli, oppure Ne valeva la pena, Laterza) o da ex giudici come Sergio Turone in, Il caso Battisti, Garzanti), secondo i quali la lotta armata per il comunismo sarebbe stata affrontata dallo Stato italiano con le sole armi dello stato diritto e l’applicazione alla lettera della costituzione, eccetera.

Allo stato d’emergenza, alle leggi speciali e alla giustizia d’eccezione si accompagnò invece anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura impiegata in modo sistematico nel corso del biennio cruciale 1981-82 contro i militanti catturati, per giunta ricorrendo alla lezione dell’indiscusso maestro della tortura nel dopoguerra, quel Paul Aussaresses il cui manuale sperimentato in Algeria servì da libro di testo nella scuola delle Americhe che formò tutti gli ufficiali torturatori delle dittature sudamericane.

1/continua

Link
Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Torture contro i militanti della lotta armata
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti

Università della Sapienza: il seminario sugli anni 70 della Pantera

Libri – Esilio e Castigo, Paolo Persichetti, La città del sole 2005

I seminari sugli anni 70 (estratti dal capitolo 12 )

Agli inizi degli anni 90, gli apparati dell’emergenza mostrarono una notevole insofferenza e palesi timori di fronte al venir meno della ragione logo_pantera1 sociale che aveva giustificato l’esorbitanza del ruolo da loro assunto, il forte potere di supplenza acquisito. Orfani della lotta armata, nostalgici di quel conflitto, come i giapponesi sperduti nelle isole del Pacifico, esercitarono il massimo potere d’interdizione e di minaccia che era loro possibile. Ne sanno qualcosa quei militanti usciti temporaneamente dal carcere sul finire degli anni 80, dopo lunghe detenzioni preventive, e che tentarono di mettere in pratica la discontinuità politica annunciata. A metà del gennaio 1990 erano state avviate numerose occupazioni universitarie, fenomeno che si estese progressivamente a tutto il paese per circa tre mesi, dando vita al primo movimento del genere dopo la fine degli anni 70. Una coincidenza che colpì l’immaginario di molti commentatori e attori istituzionali, i quali vi avevano intravisto il rischio di una riedizione dei fatti del 1977. Una previsione più che azzardata, senza dubbio, ma estremamente rivelatrice dei timori di chi guardava a quegli avvenimenti. D’altronde la simbolicità dei luoghi e di alcuni riti sembrava rievocare la gioventù di molti giornalisti che scrivevano su quegli eventi. Contenuti e modalità erano, in realtà, profondamente differenti, ma l’evocazione del passato tornava a ogni passo realizzato da quell’acerbo movimento, molto poco ideologizzato, con riferimenti culturali confusi e che stentava ad elaborare richieste precise.
Il confronto col passato veniva nel contempo riproposto da minoranze nostalgiche, come un riferimento da emulare; dalla pressione quotidiana dei media e degli apparati di polizia, come un modello da evitare. Continue prove d’affidabilità democratica, di rifiuto della violenza, di fedeltà istituzionale, venivano richieste a quei giovani prim’ancora che essi si fossero dati una forma, una identità, un progetto. L’ombra di un passato volutamente tenuto aperto agiva come un ricatto continuo sul presente, un’ipoteca su ogni possibile futuro.

I seminari
In omaggio all’apparizione misteriosa di un felino nelle campagne laziali, che le autorità avevano inutilmente tentato di catturare, quel movimento assunse il nome di Pantera. «La Pantera siamo noi», gridarono oltre esilio_castigoit centomila studenti scesi in strada. Le analisi del sangue non finivano mai, e forse proprio per questo venne dal suo interno la curiosità di conoscere e capire gli anni 70, quel passato prossimo così stregato e maledetto. Dietro quella domanda non c’era tanto la volontà di apprendere la grammatica di altre rivolte, quanto il desiderio di misurare distanze e differenze, potersi sentire finalmente diversi e assolti. Così a metà febbraio venne organizzato un ciclo di seminari itineranti all’interno dell’Università romana della Sapienza, uno dei centri più attivi delle occupazioni. Erano stati invitati a parteciparvi protagonisti, con o senza pendenze giudiziarie, semplici partecipanti degli anni 70, insieme a docenti, avvocati, giornalisti.
Il primo incontro si tenne del tutto casualmente (disponibilità immediata dell’aula) presso la facoltà di scienze politiche. Relatori della giornata erano Rina Gagliardi, all’epoca giornalista del Manifesto; Edoardo Di Giovanni, avvocato e figura storica del “Soccorso Rosso”, nonché membro del comitato che condusse la controinchiesta sulla strage di piazza Fontana; Raul Mordenti, docente universitario ed esponente del 77 romano.

Domande e risposte dal pubblico
Dopo la conferenza, al momento del dibattito col pubblico, tra le cui fila erano presenti giornalisti di diverse testate, uno studente rivolse un quesito sulle dinamiche che avevano portato alla scelta della lotta armata settori di movimento e sulle ripercussioni che ciò ebbe in gruppi come Lotta continua. Tra le varie risposte, tutte estremamente pacate e caratterizzate da analisi retrospettive, ce ne fu una proveniente da un imputato del processo Moro ter, scarcerato per decorrenza dei termini di detenzione preventiva, seduto tra gli spettatori. mini_zavoli
Il mattino successivo, Repubblica aprì con un richiamo in prima pagina: “Brigatisti all’Università, lezione di mitra in aula”. Ovviamente lo sconsiderato titolo ad effetto e buona parte dell’articolo interno, con tanto di foto, stravolgevano quanto era accaduto e lo spirito stesso dei seminari. Quell’uscita, che suscitò anche malumori nel quotidiano di piazza Indipendenza, perché aggrediva un movimento che al suo interno conteneva forti elementi di critica della stagione craxiana e della cultura commerciale delle televisioni berlusconiane, temi tradizionalmente cari alla redazione di quel giornale-partito, innescava un artificiale clima d’allarme. Si alludeva, infatti, ad un progetto d’infiltrazione e controllo del movimento da parte d’esponenti degli «anni di piombo». I quotidiani di destra, invece, ignorarono completamente l’episodio per ritornarvi sopra pesantemente solo dopo l’artificioso scandalo sollevato da Repubblica. I “liberal” di piazza Indipendenza potevano essere soddisfatti per aver scatenato la canea e tratto in salvo il governo del «Caf», la famosa alleanza della roulotte stipulata nell’ultima stagione della “Prima Repubblica” tra Craxi, Andreotti e Forlani, a cui non sembrava vero di poter uscire dall’angolo in cui erano stati messi dalla fortissima mobilitazione studentesca, utilizzando come capro espiatorio i «terroristi in libertà».

“Terroristi all’università”
Quello di Repubblica non fu un autogol, un atteggiamento irrazionale e suicidario, bensì il risultato d’un intrigato reticolo di connivenze che la rendevano punto d’arrivo e cassa di risonanza degli umori e delle opinioni di quella realtà composita che sono gli “imprenditori dell’emergenza”. Secondo questi ambienti, quel navigare alla luce del sole in situazioni di massa da parte d’imputati di banda armata o di persone appena scarcerate, accusate di reati di «terrorismo», non era altro che la prova di un doppio linguaggio, un doppio livello, una strategia dei due tempi, che ripiegava nei movimenti d’agitazione sociale per riacquistare forza e tornare a colpire. In assenza di formazioni armate in attività, di gruppi che agitassero la propaganda armata, esponenti delle procure antiterrorismo, confortati dal Ros dei carabinieri, imbastivano processi ad intenzioni attribuite, costruivano teoremi sul subconscio. scary
Le simbologie erano fortissime, tant’è che un incauto Giuliano Amato non esitò a evocare la volontà di una fredda provocazione, un agguato premeditato per oltraggiare la memoria di Vittorio Bachelet, vicepresidente del consiglio superiore della magistratura, ucciso anni addietro dalle Brigate rosse all’interno della facoltà di giurisprudenza, prossima al luogo della conferenza. Da settimane circolavano nelle redazioni e nelle sedi di partito alcune veline della questura romana che segnalavano, con nome e cognome, la presenza nelle facoltà occupate di decine di «personaggi implicati in fatti d’eversione». Ovviamente le informative dimenticavano di precisare che nella maggioranza dei casi queste presenze erano più che legittime, trattandosi di studenti regolarmente iscritti a corsi di laurea e non d’intrusi.

Autorità e dissociati al Rettorato
In risposta ai seminari, si tenne al Rettorato una solenne cerimonia, con la partecipazione del senato accademico, del rettore e delle autorità, insieme all’immancabile sfilata di vetture blindate, televisioni e bodygard, per esprimere una «sdegnata condanna del terrorismo». Vi parteciparono anche alcuni dissociati della lotta armata, sempre in prima fila quando occorre prendere parte al rito dell’esportazione della colpa e dell’autocritica degli altri e garantire le cambiali firmate in pegno della propria libertà. A dire il vero, libertà è parola fin troppo grossa in questi casi. Citando La Boétie dovremmo chiamarla «servitù volontaria».

Si scatenò una ferocissima campagna politico-mediatica, una caccia alle streghe che prevaricava, schiacciava, annichiliva, terrorizzava dei ragazzi spesso alla loro prima esperienza politica. Impressionante era la portata dell’attacco sferrato, il peso del sospetto sollevato, commisurato alla realtà delle fragili spalle di quei giovani che scoprivano sulla loro pelle come anche la memoria poteva essere una colpa. Ci sono “passati” che non è bene conoscere, se non nella forma delle versioni ufficiali. Ci sono pagine di storia che devono restare tabù. L’altra lezione che quell’episodio proponeva, riguardava coloro che in diversa misura erano stati coinvolti nelle vicende della lotta armata. Avere tracce di un tale percorso nella propria biografia sottraeva l’accesso pieno ai diritti, come quello di esprimere la propria opinione in un pubblico consesso, salvo recitare il rosario della colpa, trasfigurando la propria esperienza nella rappresentazione del male assoluto. centogiorni1

“Devono tornare in carcere”
Durante le riprese di una delle puntate della “Notte della Repubblica” di Sergio Zavoli, un livido Antonio Gava, ministro degli Interni, tuonò contro quei brigatisti in libertà che andavano ricacciati in carcere in qualunque modo. Detto fatto: in ossequio alla separazione dei poteri e all’autonomia della magistratura, un servile giudice istruttore confezionò per la bisogna un mandato di cattura contro uno dei presenti ai seminari. Il povero Gava era l’emblema di un ceto politico alla frutta. Imbevuto di supponenza, ebbro d’arroganza, stracolmo d’un potere costruito sul modello dello “scambio occulto”, consenso elettorale in cambio di crediti a pioggia, finanziamenti a fondo perduto, appalti a reti d’imprenditori amici, speculazioni, malaffare, clientelismo pubblico, accordi con gruppi di potere e camorre locali, era incapace di percepire il salto di paradigma che rendeva obsoleta la sua politica. Il nemico che l’avrebbe abbattuto era altrove ma non sapeva avvedersene. Di lì a poco, con aria mesta anch’egli dovette allungare i polsi e lasciarsi ammanettare, finendo come quegli odiati brigatisti che aveva fatto incarcerare. Gli strascichi della campagna nata attorno ai seminari, giunsero fino al processo d’appello alle Br-Udcc, apertosi un anno dopo. Un fondo di Giorgio Bocca annunciava l’esito di una sentenza-ritorsione scritta in anticipo. «Questi sono i peggiori – tuonava l’opinion maker – i più sanguinari, quelli che nel Sessantotto portavano ancora i pantaloni corti». Non facevano parte della meglio gioventù.

I provocatori di piazza Indipendenza
Dopo l’articolo di Repubblica contro i seminari, un adirato corteo di studenti si diresse verso piazza Indipendenza (allora sede della Repubblica) al grido di «venduti!», ma arrivati sotto le finestre della nave ammiraglia del moralismo editoriale italiano, memori delle cronache di quei giorni che raccontavano del grande scontro editorial-imprenditoriale tra De Benedetti e Berlusconi, preferirono passare allo slogan «compràti!». Pare che Eugenio Scalfari, ferito nel suo incommensurabile ego, accolse l’episodio malissimo con sommo gaudio della plebe studentesca.

I centri di potere dell’emergenza contro la soluzione politica
I fatti di quel periodo mostrano come gli apparati dell’emergenza preferivano di gran lunga il perdurare di un lottarmismo residuale, dottrinario e velleitario, fragile e contenibile, ma sufficientemente rumoroso per suscitare allarme sociale e alimentare ricatti emergenziali, risorsa strategica utile a condizionare perennemente i nuovi movimenti e le nuove radicalità, piuttosto che la chiusura dell’epoca precedente e il recupero di quadri e militanti in nuovi percorsi politici. Ciò spiega l’ostilità nei confronti di una soluzione politica e la persecuzione mirata di tutti quegli attori che ne potevano essere il vettore. Il fantasma della lotta armata doveva restare l’antidoto ad ogni fermento critico, l’alibi per non abbandonare la cultura dell’eccezione. Le accuse di «doppio gioco» e «dissimulazione», lanciate da alcuni magistrati, come Armando Spataro, servirono a chiudere definitivamente ogni ipotesi d’amnistia. Liberate da questa scomoda presenza, cullate dalla rimozione, le culture più catacombali hanno trovato campo libero, suscitando all’inizio solo un logorroico verbalismo lottarmista. Col tempo però, l’esorcismo degli apprendisti stregoni istituzionali ha sortito i suoi mirabili effetti ed alla fine degli anni 90 il brusio cospirativo ha lasciato il posto a degli imprevisti passaggi all’atto.