Franco Corleone: «Per essere credibile sul caso Battisti l’Italia deve abolire l’ergastolo»

L’intervista – Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e oggi Garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze: «revisone del processo, abolizione dell’ergastolo e ratifica del protocollo contro la tortura avrebbero fornito all’Italia una immagine diversa»

Paolo Persichetti
Liberazione 20 gennaio 2011

Con le mozioni bipartizan votate lunedì in parlamento per riavere Battisti dal Brasile, l’Italia tenta di camuffare lo stato di confusione istituzionale in cui è precipitata dopo le rivelazioni sul sexigate che hanno investito il suo presidente del consiglio. Tuttavia non basterà a ridare lustro alla propria iniziativa diplomatica. La crisi di credibilità è verticale. In nome di quale giustizia il governo italiano continua a pretendere l’estradizione, con una ostinazione che rasenta l’aggressione verso la sovranità interna di un’altro Paese, se a casa propria non è in grado di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge? L’affare Battisti è diventato un argomento di propaganda su cui hanno investito i giustizialisti di destra e di sinistra. La stessa cosa accade in Brasile, dove la destra post-dittatura ne ha fatto un oggetto di revanche. Sullo sfondo sempre più dimenticati restano gli aspetti giuridici dell’intera vicenda. Non a caso. Ogni qualvolta i processi dell’emergenza sono stati esaminati sotto il loro profilo giuridico l’Italia ha sempre perso la partita delle estradizioni contro i militanti condannati per i fatti degli anni 70. Non ci sarà nessun ricorso all’Aja perché il Brasile è contrario. L’Ue ha spiegato alla Farnesina che le estradizioni sono un contenzioso bilaterale. Il trattato commerciale con Brasilia verrà comunque rispettato. In mano al governo di Roma non rimane altro che sperare in un golpe giudiziario che Peluzo e Mendes stanno congeniando. Singolare aspettativa per un centrodestra che non passa giorno senza denunciare in casa propria i complotti della magistratura. Ma indiscrezioni apparse nei giorni scorsi su alcuni media brasiliani fanno sapere che la maggioranza dei giudici del Stf (6 contro 3, mentre due si asterrebbero) non sembra condividere affatto la scelta, tutta personale, presa dal presidente della corte, Peluzo, di voler esaminare a febbraio la conformità della decisione presa da Lula. Peluzo, per altro, è in contraddizione con se stesso perché quando era relatore, come gli altri 5 giudici che votarono per l’estradizione, aveva condizionato la consegna di Battisti alla commutazione dell’ergastolo. Richiesta che l’Italia si è sempre ben guardata dall’adempiere. E proprio da qui parte il ragionamento di Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel primo governo Prodi e oggi garante dei detenuti per il comune di Firenze. «Si poteva fare qualcosa di più invece che lasciarsi andare a una reazione vittimistica e isterica».

Cosa?
Spostare l’asse del dibattito dagli insulti a una riflessione sulla civiltà giuridica. Uno degli ostacoli che hanno impedito l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale. Il fatto che il Brasile non abbia questa pena dimostra l’abisso che c’è tra il Paese definito la culla del diritto e quello considerato terra di selvaggi. In realtà la bilancia è a tutto vantaggio del Brasile. Sono rimasto molto colpito dalle prime reazioni attribuite al presidente della Repubblica che parlavano di sorpresa, delusione, stupore.

Perché l’Italia non sarebbe riuscita a farsi capire, come ha detto Napolitano?
Forse perché ha cercato di confondere le carte sostenendo che l’obiezione sull’ergastolo era infondata perché non esiste quando invece è vivo e vegeto. Nel giro di un decennio gli ergastoli sono addirittura raddoppiati in percentuale e numero assoluto. C’è anche la novità dell’ergastolo ostativo che impedisce a gran parte degli ergastolani di accedere alla liberazione condizionale, a meno che non collaborino. La mancata revisione del processo, la mancata commutazione dell’ergastolo, la mancata ratifica del protocollo aggiuntivo contro la tortura. Tutti appuntamenti mancati che avrebbero fornito un’altra immagine della nostra giustizia. In realtà non si vuole trovare una soluzione, siamo di fronte ad un atteggiamento a somma zero: o tutto o niente. Vogliono Battisti con l’ergastolo e basta, per di più in condizioni tali che renderebbero ostativa qualsiasi misura trattamentale. Non ci sarebbe tribunale di sorveglianza capace di applicargli la Gozzini. In realtà l’Italia non si è fatta capire solo dal Brasile ma da molti altri Paesi. La lista di quelli che hanno negato le estradizioni è lunga.

In Italia ci sono detenuti politici in carcere da oltre 30 anni.
Affrontare il nodo dell’ergastolo è ormai l’unico modo per chiudere il residuo penale degli anni 70. Napolitano ha una possibilità, quella del messaggio alla camere che è anche la prima prerogativa dell’articolo 87 della costituzione, l’ultima è quella della grazia e della commutazione della pena. Approfittando di un caso ritenuto così straordinario potrebbe spiegare cosa l’Italia può fare per rendersi credibile. Sul tappeto c’è la questione della permanenza dell’ergastolo. L’altro è invitare il parlamento a ratificare il protocollo aggiuntivo della convenzione contro la tortura e nominare una autorità di controllo sulle carceri in un momento in cui c’è una situazione d’emergenza. In attesa di una riforma del sistema delle pene, il presidente potrebbe commutare l’ergastolo di Battisti dimostrando che non saremmo di fronte ad una pena ostativa ma a una sanzione che consente di accedere a un normale percorso trattamentale.

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Mozione bipartizan in parlamento. Al Brasile: «Ridateci Battisti»

Torna l’union sacrée, nuova versione della linea della fermezza. Tutti d’accordo senza distinzioni tra parlamentari di destra e sinistra: «Il governo faccia ogni cosa per riavere Cesare Battisti». E siccome le vie legali sono ormai esaurite perché il diritto internazionale si è sempre mostrato critico nei confronti delle inchieste e dei processi dell’emergenza contro gli insorti degli anni 70, un senatore della Lega propone di passare a vie di fatto: «rapitelo» sull’esempio degli Israeliani edegli Stati uniti. Insomma una bella “consegna straordinaria” metterebbe tutti d’accordo. Ciò che il diritto non concede si ottiene con la forza

Chi volesse approfondire la questione può ascoltare questa intervista rilasciata a Radio radicale

Paolo Persichetti
Liberazione
19 gennaio 2011

Mappa delle extraordinary renditions

Mentre scemano tristi gli ultimi giorni del crepuscolo berlusconiano in parlamento è andato in scena uno degli atti più grotteschi di quella tragedia di un Paese ridicolo, divenuta la recita quotidiana sul palcoscenico della realtà italiana. Con impavido coraggio, di fronte al discredito internazionale che le rivelazioni sui “bunga bunga” del premier Berlusconi stanno suscitando, il senato e la camera hanno approvato ieri all’unanimità una mozione che impegna il governo (sic!), «a promuovere ogni opportuna iniziativa presso il tribunale supremo federale del Brasile, la commissione di conciliazione istituita ai sensi del vigente accordo bilaterale tra Italia e Brasile, presso la corte internazionale di giustizia Onu dell’Aja e in ogni altra sede istituzionale o giurisdizionale competente affinché, ricercando ogni soluzione condivisa con la repubblica federativa del Brasile, si pervenga all’estradizione di Cesare Battisti». La mozione della camera è risultata dalla «fusione» di sette mozioni di contenuto sostanzialmente analogo. Insomma tutti uniti e tutti insieme, destra e sinistra, sopra e sotto, senza bunga bunga o Marchionne a dividere gli schieramenti. Se c’è un nome che ricompatta qualsiasi divisione, questo è quello di Cesare Battisti nei confronti del quale si cementa immediatamente un odio bavoso. I fondamenti giuridici della mozione ovviamente valgono ben poco perché l’Aja è un tribunale arbitrale che non può affrontare nessun contenzioso senza la previa disponibilità dei due contendenti. Nessun Paese serio ha mai negoziato ciò che attiene alla propria sovranità interna. Roma non lo farebbe, perché dovrebbe Brasilia? Appunto, ma che importa. Quel che conta è inscenare l’indignazione. E così persino la Fnsi, venerdì scorso a Bergamo, in occasione del proprio congresso, ha approvato all’unanimità una mozione nella quale si invitano «i mass media italiani a seguire il caso Battisti con l’obiettivo che il criminale venga estradato e consegnato alla giustizia italiana». Il documento preparato da Pierfrancesco Gallizzi, consigliere per la comunicazione del ministro della Difesa Ignazio La Russa, già candidato per il Pdl al comune di Sesto san Giovanni, «invita i giornalisti italiani a tenere sempre ben presenti le affermazioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in relazione a questa vicenda». Pare che sia stato presentato con un blitz notturno (alle 3 di notte) quando la platea dei 300 delegati era ormai vuota. A votare erano appena una sessantina. L’immagine dell’unanimità si costruisce anche con queste furbettate. Per non essere da meno il senatore della Lega Piergiorgio Stiffoni ha invitato i servizi italiani a rapirlo:«Bisogna fare come gli israeliani nel 1960, quando andarono in Argentina, impacchettarono Eichmann e se lo portarono a Gerusalemme. E’ un paradosso, ma non più di tanto». Prima di lui l’idea era già venuta a La Russa che ne aveva parlato durante davanti ad una platea di carabinieri. Intanto il governatore del Veneto Luca Zaia appoggia la proposta lanciata dall’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, che vorrebbe mettere all’indice i testi degli scrittori italiani (oltre 40) che l’11 febbraio 2004 avevano firmato una petizione a sostegno di Cesare Battisti. «Via dagli scaffali delle biblioteche civiche i libri degli intellettuali che difendono questo terrorista». Iniziativa partita da un consigliere Pdl del comune di Martellago, Paride Costa.

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo

Il tribunale di sorveglianza di Roma respinge la nuova richiesta di liberazione condizionale. «Una decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizione», afferma l’avvocato Francesco Romeo

Pubblichiamo qui il testo ripristinato nella sua stesura integrale dell’articolo apparso in versione censurata sulle pagine di Liberazione del 15 aprile. Per questa ragione l’autore dell’articolo ha ritirato la firma. I passagi tagliati sono quelli segnalati in grassetto

Liberazione, 15 aprile 2009

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979 all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».
Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale ne era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo.
Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese».
In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare di sprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?

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La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre (Corriere della sera)

Sabina rossa e gli ex-terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera
Sabina Rossa, “Cari-brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabinarossa,”Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”