Giornalismo temerario

A proposito di una singolare richiesta di rettifica

di Paolo Persichetti

Negli ultimi tempi si è discusso molto dell’uso delle querele per diffamazione o calunnia a mezzo stampa, utilizzate in realtà come strumento di censura. Nel mondo anglosassone vengono indicate con l’acronimo Slapp (Strategic lawsuit against public), ovvero azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica. Si tratta di azioni penali o civili intentate con la sola intenzione di intimidire il giornalista citato in giudizio, per dissuaderlo dal proseguire le sue inchieste o dare notizie scomode al soggetto che ha promosso la causa.

Allergia alla critica
Numerosi sono i casi di cronaca che riferiscono di querele mosse da esponenti del mondo politico e soprattutto del governo, o da attori economico-finanziari potenti, contro giornalisti o organi di stampa ritenuti scomodi, oppure intellettuali o esponenti della società civile che hanno posizioni non allineate. E’ recente la notizia che alcuni politici, e non solo, ricorrevano a delle agenzie specializzate nell’inviare lettere che, con la minaccia di portare in giudizio singoli cittadini per aver espresso opinioni critiche sui social nei loro confronti, chiedevano risarcimenti sulla base di una tabella. Vi è senza dubbio una tendenza diffusa a mettere il bavaglio, chiudere la bocca a qualunque critica o opinione che non sia gradita, acquiescente o controllata. E’ diffusa un’allergia alla critica che in qualche modo l’era dei social ha accentuato imbarbarendo le discussioni, impoverendole di contenuti e di democrazia.

Professionisti del vittimismo

Ma a comportarsi in questo modo non sono soltanto i detentori del potere economico e politico, ci sono anche soggetti collocati nei livelli intermedi della società. Peggio ancora sono quelli che oggi si ergono a vittime delle querele temerarie promosse da governo e politica, e chiedono con forza una legge in materia, ma hanno fatto largo uso fino a poco tempo fa dello stesso strumento intimidatorio. Basti pensare al caso di Roberto Saviano che sparava querele a raffica contro ogni critica mossa nei suoi confronti e da lui percepita come lesa maestà del suo autodichiarato magistero morale, denunciando macchine del fango.

L’uso della querela come scudo
Nella mia esperienza di lavoro giornalistico ho visto arrivare nei giornali dove ho lavorato le querele più diverse. Ricordo colleghi denunciati perché avevano definito neofasciste o naziste organizzazioni della estrema destra che tali sono o ne agitano i temi. Questi gruppi mettevano in pratica lo strumento della querela sistematica per garantirsi una impunità d’immagine e di azione. E talvolta accadeva che in tribunali periferici trovavano anche il giudice che dava loro ragione. Erano fascisti ma lo non si poteva dire. Io stesso sono stato querelato da uno dei capi di Casapound anche se per lui non è andata bene. Un’altra volta fece pervenire al giornale una lettera che con il pretesto di chiedere una rettifica, ci riempiva di insulti. L’ho conservata come un trofeo. Ho assistito all’obbrobrio di un garante dei detenuti che ha querelato un ergastolano perché in una intervista aveva denunciato la sua rete clientelare. Per fortuna poi è stato travolto da una nota indagine che ha colpito la Capitale per i suoi rapporti con uno degli inquisiti.

L’uso della querela come bavaglio

Il nostro giornale e io stesso venimmo querelati da Saviano. All’epoca ero in semilibertà e l’esposto denuncia scritto dal suo legale era una sequela di ingiurie, killer della penna o roba del genere. Nonostante per Saviano quell’esperienza sia finita molto male, con postumi anche personali come ho letto tempo fa in una intervista, la notizia della sua clamorosa sconfitta in tribunale, era la prima volta in assoluto (la prima di molte altre che poi arrivarono), fu censurata da tutta la stampa. «Non possiamo dare ragione a un ex brigatista e distruggere l’immagine di Saviano», fu la risposta. Eppure aveva torto marcio, si era inventato una storia assurda che coinvolgeva la madre di Peppino Impastato. Privo del coraggio di querelare gli amici e familiari del giovane militante comunista ucciso dalla mafia che l’avevano criticato, attaccò me in giudizio perché avevo riportato le loro dichiarazioni. Pensava che fossi l’obiettivo più fragile, facile da colpire. Chi mai avrebbe dato ragione a un ex brigatista, per giunta ancora in esecuzione pena? Per correre ai ripari, fuori tempo massimo, aveva cambiato persino versione aggravando la sua menzogna, anche se nessuno gliene ha mai chiesto conto. Nel mondo del mainstream funziona così: non si fanno domande scomode. Ebbene, nonostante il giudice mi dette ragione censurando duramente la querela, si allungò di un anno e mezzo la mia detenzione in semilibertà che poi era l’obiettivo ricercato da Saviano: mettermi il bavaglio facendomi richiudere in cella. Anche le associazioni vittimarie degli anni 70 utilizzano lo strumento della querela per intimidire ex esponenti di quella stagione politica o chi fra i pochi intellettuali di questo Paese ha ancora il coraggio di esprimere posizioni che divergono dalla narrazione dominate su quel periodo. Spesso questi attori, che oggi assumono posture vittimarie ma ieri denunciavano chi faceva lavoro di informazione, si autorappresentano come dei cavalieri solitari, Robin Hood che agitano temi d’interesse pubblico contro i poteri forti anche se appartengono essi stessi a gruppi editoriali-finanziari, fazioni di potere, magari solo temporaneamente all’opposizione. Una situazione che complica le cose e ci fa capire che dietro al più generale tema del sacrosanto diritto alla critica e libertà di parola si cela anche uno scontro tra fazioni politico-economico-editoriali e finanziarie, tutte interne all’establishment.

Non solo querele ma anche giornalismo temerario

Avrete capito che il tema delle querele temerarie è questione delicata e complessa che investe un principio di tutela generale e costituzionale della critica e della libertà di parola ma anche il modo in cui si fa giornalismo. Perché, è bene sottolinearlo, esiste anche un giornalismo «temerario», oggi molto di moda, che cancella diritti e rispetto della persona e in particolare dei soggetti più fragili, diffonde fake news e impiega fonti poco trasparenti. L’esempio più eclatante che si può fare riguarda Report, una trasmissione di approfondimento che troppo spesso diffonde inchieste realizzate grazie alla collusione con apparati informativi vicini a strutture d’intelligence. Una pericolosa vicinanza, se non sovrapposizione, che fa del giornalismo una semplice cassetta delle lettere di veline interessate, informazioni riservate, camuffate con falsi invii anonimi o testimoni travisati, che settori dell’apparato lasciano uscire per favorire o screditare un’area o un personaggio della politica, della finanza o dell’economia. Il giornalismo indipendente è un’altra cosa.

Una singolare richiesta

La storia che sto per raccontarvi riguarda proprio questo modo di concepire il lavoro giornalistico. In questi giorni ho ricevuto una singolare «richiesta di rettifica» da una collaboratrice del Fatto quotidiano. La signora ha intimato me e il direttore dell’Unità, Piero Sansonetti, con cui collaboro, di modificare un articolo apparso lo scorso 2 aprile (lo trovate qui), presente anche in Insorgenze.net.
Nelle sue doglianze l’autrice della lettera sembra imputarmi la colpa di non aver posseduto le doti divinatorie che mi avrebbero permesso di prevedere il futuro, per questo chiede la rettifica di una breve frase da me scritta tre mesi prima che fosse avvenuto l’episodio di cui avrei dovuto dare notizia e lo fa, per giunta, con sei mesi di ritardo.
L’articolo raccoglieva le smentite di due ex brigatisti alle affermazioni attribuitegli da una informativa dei carabinieri nel corso di una intercettazione, per altro illegittima come stabilito dal tribunale, riguardo la presenza di un «altro uomo» tra i brigatisti presenti in via Fani. L’informativa era stata riportata con rilievo sul Fatto quotidiano del 14 marzo dell’anno precedente dalla stessa giornalista, che oggi avanza le rimostranze, citando in extenso il presunto nuovo nome per ben otto volte. A conclusione del mio pezzo accennavo in una riga al fatto che la vicenda aveva suscitato uno strascico giudiziario. La persona imprudentemente tirata in ballo l’aveva, infatti, citata in giudizio, ecco il testo: «La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo». E’ poi successo che nel giugno successivo il tribunale civile di Genova, dove si è discussa la causa, ha ritenuto assenti gli estremi per un risarcimento del danno nei confronti del denunciante. Lo riferisce la sentenza che gentilmente la dogliante ha allegato insieme alla richiesta di rettifica.

Via Fani e l’invenzione dell’uomo in più

Facciamo un passo indietro per capire meglio i fatti: nella informativa citata, redatta nell’ambito della nuova inchiesta sui fatti della Spiotta avvenuti nel lontano 1975, appariva per una sola volta un nome nuovo tra i componenti della commando che aveva agito in via Fani, tale «Moroni», intercalato da ripetuti riferimenti a «Morucci» e «Matteo», che era il nome di battaglia di quest’ultimo, condannato nel processo Moro. Come spiegavo nell’articolo, si era trattato di un classico caso di misnaming. In una semplice postilla posta in fondo al testo, dunque nemmeno in una informativa a lui dedicata, i carabinieri – al contrario – ipotizzavano che accanto a quel cognome «Moroni» si potesse accostare il nome «Giorgio», mai pronunciato nella intercettazione.
Si trattava di una vecchia conoscenza dell’Arma, o meglio di una spina nel fianco, perché quel Giorgio Moroni fu oggetto di un clamoroso fallimento investigativo dei carabinieri di Dalla Chiesa che scambiarono dei militanti dell’Autonomia con gli introvabili membri della colonna genovese delle Br. Giorgio Moroni ottenne giustizia dopo una procedura di revisione che non solo lo vide assolto ma certificò le prove di una montatura orchestrata da elementi dei carabinieri e dei Servizi, per vantare un clamoroso successo investigativo. Per questa vicenda ottenne anche risarcimento per l’ingiusta detenzione subita.
Nonostante fosse stata edotta su queste circostanze, riferite in buona parte dai carabinieri nella postilla e da Giorgio Moroni stesso, in un colloquio tra i due, l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano, senza che ci fossero mai stati sviluppi investigativi di alcun tipo, aveva senza scrupolo alcuno messo in pasto all’opinione pubblica quel nome, riportato ben otto volte nel pezzo. Sarebbe bastato non citarlo, o riportare le semplici iniziali, dando in questo modo comunque conto del fatto di cronaca, ma troppo ghiotta era l’occasione di rilanciare a ridosso dell’anniversario di via Fani l’ennesimo mistero ancora irrisolto (perché inesistente) del sequestro Moro: «gli interrogativi sulla identità e numero di persone che parteciparono al sequestro non hanno mai trovato una risposta definitiva», glissava la giornalista.

Il testo e il suo contesto

Messaggi temerari

Accanto al testo esiste un contesto, che in questo caso è decisivo: riproporre la solita litania dietrologica, la narrazione complottista di fronte alla quale qualunque scorrettezza e temerarietà appare giustificata. Nella sentenza leggiamo che lo stesso giudice conviene sulla «verosimile assoluta infondatezza delle parole pronunciate dall’Azzolini», oltre a dirsi «consapevole della sofferenza e comprensibile doglianza dell’attore (Giorgio Moroni ndr) per l’ennesimo coinvolgimento in vicende alle quali risulta essere del tutto estraneo, oggi come in passato». Il giudice riconosce dunque la legittimità in astratto della doglianza ma ritiene che questa «non costituisce elemento di contestazione nei confronti della giornalista», che si sarebbe limitata a riferire con «atteggiamento di scrittura assolutamente neutro» i contenuti di una informativa dei carabinieri. Semmai – suggerisce – questa andava rivolta all’indirizzo degli inquirenti. Un’affermazione quantomai inopportuna poiché è di fatto impossibile attaccare l’attività investigativa, dimostrandone dolo o colpa, salvo detenere il potere politico-amministrativo per esercitare una censura nei confronti di chi ha stilato la postilla contenuta nella informativa.
Una sentenza ampiamente autocontradditoria poiché «i canoni di verità, continenza e pertinenza» richiamati sono smentiti da alcune affermazioni presenti nella nota difensiva della giornalista, dove si affermava – riporta la sentenza – che Autonomia operaia, gruppo al quale aveva appartenuto Giorgio Moroni, era «ritenuta all’epoca la faccia della stessa medaglia delle Brigate rosse». Affermazione storicamente inesatta e pregiudizievole. Insomma se un antico detto riferisce che esiste un giudice a Berlino, a Genova a quanto pare non se ne è trovata traccia.

Quale giornalismo?
Ma quel che ai nostri occhi appare più disdicevole nelle motivazioni della sentenza è la concezione del lavoro giornalistico proposto, inteso come semplice megafono, stampella di informative provenienti dalle attività di indagine, tanto più se verosimilmente infondate, magari di verbali di collaboratori di giustizia che parlano di fatti riportati de relato, spesso antecedenti la loro stessa nascita. Come se il giornalista sia sprovvisto di autonome capacità di discernimento, privo di una propria sfera critica di valutazione che gli consenta di capire se ha davanti una falsa notizia, una informazione priva di riscontri o che necessita di ulteriori verifiche e approfondimenti. Ricordiamo che l’informativa dei carabinieri, fatta pervenire da mani amiche al Fatto quotidiano, venne pubblicata prima del rinvio a giudizio e dell’apertura del processo con il deposito completo e pubblico degli atti di indagine. Dunque prima ancora che i giornalisti e studiosi potessero ascoltare autonomamente il sonoro delle intercettazioni e capire se quella nota fosse stata presa in considerazione dalla procura. Una avventatezza che contrasta col noto decalogo del giornalista, riportato in una famosa sentenza di cassazione dell’ottobre 1984 (la potete trovare qui).

La nota di Stampa romana

Come se già non bastasse questa vicenda si è conclusa, lo abbiamo appreso solo durante la redazione di questo testo, con un comunicato dell’associazione Stampa romana che censurava l’azione giudiziaria «intentata da un ex militante dell’eversione», lamentando la necessità di una legge che tutelasse i giornalisti vittime di citazioni in giudizio temerarie (potete leggerla qui). Che Giorgio Moroni sia stato un ex militante è un fatto noto, da lui mai smentito e persino storicizzato in un volume sulla storia dell’Autonomia operaia a Genova; che sia stato un membro «dell’eversione» non sta scritto, invece, in nessuna sentenza poiché, oltre ad essere stato assolto e risarcito, risulta anche incensurato. L’affermazione dell’organo sindacale è dunque incredibilmente diffamatoria nei confronti di un libero cittadino che ha agito legittimamente a tutela dei propri interessi, come riconosciuto anche nella sentenza.
Ci auguriamo che quanto prima Stampa romana presenti le sue scuse a Giorgio Moroni mentre attendiamo che il Fatto quotidiano, e la giornalista che ha avanzato le sue rimostranze, colmi il debito di informazione che ha contratto con i suoi lettori, informandoli finalmente della smentita pronunciata dai due ex brigatisti sul presunto «uomo in più» presente in via Fani. Oltre a essere un atto dovuto, darebbe prova di onestà intellettuale!

Franco Corleone: «Per essere credibile sul caso Battisti l’Italia deve abolire l’ergastolo»

L’intervista – Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e oggi Garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze: «revisone del processo, abolizione dell’ergastolo e ratifica del protocollo contro la tortura avrebbero fornito all’Italia una immagine diversa»

Paolo Persichetti
Liberazione 20 gennaio 2011

Con le mozioni bipartizan votate lunedì in parlamento per riavere Battisti dal Brasile, l’Italia tenta di camuffare lo stato di confusione istituzionale in cui è precipitata dopo le rivelazioni sul sexigate che hanno investito il suo presidente del consiglio. Tuttavia non basterà a ridare lustro alla propria iniziativa diplomatica. La crisi di credibilità è verticale. In nome di quale giustizia il governo italiano continua a pretendere l’estradizione, con una ostinazione che rasenta l’aggressione verso la sovranità interna di un’altro Paese, se a casa propria non è in grado di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge? L’affare Battisti è diventato un argomento di propaganda su cui hanno investito i giustizialisti di destra e di sinistra. La stessa cosa accade in Brasile, dove la destra post-dittatura ne ha fatto un oggetto di revanche. Sullo sfondo sempre più dimenticati restano gli aspetti giuridici dell’intera vicenda. Non a caso. Ogni qualvolta i processi dell’emergenza sono stati esaminati sotto il loro profilo giuridico l’Italia ha sempre perso la partita delle estradizioni contro i militanti condannati per i fatti degli anni 70. Non ci sarà nessun ricorso all’Aja perché il Brasile è contrario. L’Ue ha spiegato alla Farnesina che le estradizioni sono un contenzioso bilaterale. Il trattato commerciale con Brasilia verrà comunque rispettato. In mano al governo di Roma non rimane altro che sperare in un golpe giudiziario che Peluzo e Mendes stanno congeniando. Singolare aspettativa per un centrodestra che non passa giorno senza denunciare in casa propria i complotti della magistratura. Ma indiscrezioni apparse nei giorni scorsi su alcuni media brasiliani fanno sapere che la maggioranza dei giudici del Stf (6 contro 3, mentre due si asterrebbero) non sembra condividere affatto la scelta, tutta personale, presa dal presidente della corte, Peluzo, di voler esaminare a febbraio la conformità della decisione presa da Lula. Peluzo, per altro, è in contraddizione con se stesso perché quando era relatore, come gli altri 5 giudici che votarono per l’estradizione, aveva condizionato la consegna di Battisti alla commutazione dell’ergastolo. Richiesta che l’Italia si è sempre ben guardata dall’adempiere. E proprio da qui parte il ragionamento di Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel primo governo Prodi e oggi garante dei detenuti per il comune di Firenze. «Si poteva fare qualcosa di più invece che lasciarsi andare a una reazione vittimistica e isterica».

Cosa?
Spostare l’asse del dibattito dagli insulti a una riflessione sulla civiltà giuridica. Uno degli ostacoli che hanno impedito l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale. Il fatto che il Brasile non abbia questa pena dimostra l’abisso che c’è tra il Paese definito la culla del diritto e quello considerato terra di selvaggi. In realtà la bilancia è a tutto vantaggio del Brasile. Sono rimasto molto colpito dalle prime reazioni attribuite al presidente della Repubblica che parlavano di sorpresa, delusione, stupore.

Perché l’Italia non sarebbe riuscita a farsi capire, come ha detto Napolitano?
Forse perché ha cercato di confondere le carte sostenendo che l’obiezione sull’ergastolo era infondata perché non esiste quando invece è vivo e vegeto. Nel giro di un decennio gli ergastoli sono addirittura raddoppiati in percentuale e numero assoluto. C’è anche la novità dell’ergastolo ostativo che impedisce a gran parte degli ergastolani di accedere alla liberazione condizionale, a meno che non collaborino. La mancata revisione del processo, la mancata commutazione dell’ergastolo, la mancata ratifica del protocollo aggiuntivo contro la tortura. Tutti appuntamenti mancati che avrebbero fornito un’altra immagine della nostra giustizia. In realtà non si vuole trovare una soluzione, siamo di fronte ad un atteggiamento a somma zero: o tutto o niente. Vogliono Battisti con l’ergastolo e basta, per di più in condizioni tali che renderebbero ostativa qualsiasi misura trattamentale. Non ci sarebbe tribunale di sorveglianza capace di applicargli la Gozzini. In realtà l’Italia non si è fatta capire solo dal Brasile ma da molti altri Paesi. La lista di quelli che hanno negato le estradizioni è lunga.

In Italia ci sono detenuti politici in carcere da oltre 30 anni.
Affrontare il nodo dell’ergastolo è ormai l’unico modo per chiudere il residuo penale degli anni 70. Napolitano ha una possibilità, quella del messaggio alla camere che è anche la prima prerogativa dell’articolo 87 della costituzione, l’ultima è quella della grazia e della commutazione della pena. Approfittando di un caso ritenuto così straordinario potrebbe spiegare cosa l’Italia può fare per rendersi credibile. Sul tappeto c’è la questione della permanenza dell’ergastolo. L’altro è invitare il parlamento a ratificare il protocollo aggiuntivo della convenzione contro la tortura e nominare una autorità di controllo sulle carceri in un momento in cui c’è una situazione d’emergenza. In attesa di una riforma del sistema delle pene, il presidente potrebbe commutare l’ergastolo di Battisti dimostrando che non saremmo di fronte ad una pena ostativa ma a una sanzione che consente di accedere a un normale percorso trattamentale.

Link
Mozione bipartizan in parlamento: “Ridateci Battisti”. La lega: “Rapitelo”
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Scalzone da un consiglio ai parlamentari che si indignano per il no alla estradizione di Battisti: “Cospargetevi l’anima di vasellina” Battisti: la decisione finale nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo Gilmar Mendes
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Mozione bipartizan in parlamento. Al Brasile: «Ridateci Battisti»

Torna l’union sacrée, nuova versione della linea della fermezza. Tutti d’accordo senza distinzioni tra parlamentari di destra e sinistra: «Il governo faccia ogni cosa per riavere Cesare Battisti». E siccome le vie legali sono ormai esaurite perché il diritto internazionale si è sempre mostrato critico nei confronti delle inchieste e dei processi dell’emergenza contro gli insorti degli anni 70, un senatore della Lega propone di passare a vie di fatto: «rapitelo» sull’esempio degli Israeliani edegli Stati uniti. Insomma una bella “consegna straordinaria” metterebbe tutti d’accordo. Ciò che il diritto non concede si ottiene con la forza

Chi volesse approfondire la questione può ascoltare questa intervista rilasciata a Radio radicale

Paolo Persichetti
Liberazione
19 gennaio 2011

Mappa delle extraordinary renditions

Mentre scemano tristi gli ultimi giorni del crepuscolo berlusconiano in parlamento è andato in scena uno degli atti più grotteschi di quella tragedia di un Paese ridicolo, divenuta la recita quotidiana sul palcoscenico della realtà italiana. Con impavido coraggio, di fronte al discredito internazionale che le rivelazioni sui “bunga bunga” del premier Berlusconi stanno suscitando, il senato e la camera hanno approvato ieri all’unanimità una mozione che impegna il governo (sic!), «a promuovere ogni opportuna iniziativa presso il tribunale supremo federale del Brasile, la commissione di conciliazione istituita ai sensi del vigente accordo bilaterale tra Italia e Brasile, presso la corte internazionale di giustizia Onu dell’Aja e in ogni altra sede istituzionale o giurisdizionale competente affinché, ricercando ogni soluzione condivisa con la repubblica federativa del Brasile, si pervenga all’estradizione di Cesare Battisti». La mozione della camera è risultata dalla «fusione» di sette mozioni di contenuto sostanzialmente analogo. Insomma tutti uniti e tutti insieme, destra e sinistra, sopra e sotto, senza bunga bunga o Marchionne a dividere gli schieramenti. Se c’è un nome che ricompatta qualsiasi divisione, questo è quello di Cesare Battisti nei confronti del quale si cementa immediatamente un odio bavoso. I fondamenti giuridici della mozione ovviamente valgono ben poco perché l’Aja è un tribunale arbitrale che non può affrontare nessun contenzioso senza la previa disponibilità dei due contendenti. Nessun Paese serio ha mai negoziato ciò che attiene alla propria sovranità interna. Roma non lo farebbe, perché dovrebbe Brasilia? Appunto, ma che importa. Quel che conta è inscenare l’indignazione. E così persino la Fnsi, venerdì scorso a Bergamo, in occasione del proprio congresso, ha approvato all’unanimità una mozione nella quale si invitano «i mass media italiani a seguire il caso Battisti con l’obiettivo che il criminale venga estradato e consegnato alla giustizia italiana». Il documento preparato da Pierfrancesco Gallizzi, consigliere per la comunicazione del ministro della Difesa Ignazio La Russa, già candidato per il Pdl al comune di Sesto san Giovanni, «invita i giornalisti italiani a tenere sempre ben presenti le affermazioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in relazione a questa vicenda». Pare che sia stato presentato con un blitz notturno (alle 3 di notte) quando la platea dei 300 delegati era ormai vuota. A votare erano appena una sessantina. L’immagine dell’unanimità si costruisce anche con queste furbettate. Per non essere da meno il senatore della Lega Piergiorgio Stiffoni ha invitato i servizi italiani a rapirlo:«Bisogna fare come gli israeliani nel 1960, quando andarono in Argentina, impacchettarono Eichmann e se lo portarono a Gerusalemme. E’ un paradosso, ma non più di tanto». Prima di lui l’idea era già venuta a La Russa che ne aveva parlato durante davanti ad una platea di carabinieri. Intanto il governatore del Veneto Luca Zaia appoggia la proposta lanciata dall’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, che vorrebbe mettere all’indice i testi degli scrittori italiani (oltre 40) che l’11 febbraio 2004 avevano firmato una petizione a sostegno di Cesare Battisti. «Via dagli scaffali delle biblioteche civiche i libri degli intellettuali che difendono questo terrorista». Iniziativa partita da un consigliere Pdl del comune di Martellago, Paride Costa.

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo

Il tribunale di sorveglianza di Roma respinge la nuova richiesta di liberazione condizionale. «Una decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizione», afferma l’avvocato Francesco Romeo

Pubblichiamo qui il testo ripristinato nella sua stesura integrale dell’articolo apparso in versione censurata sulle pagine di Liberazione del 15 aprile. Per questa ragione l’autore dell’articolo ha ritirato la firma. I passagi tagliati sono quelli segnalati in grassetto

Liberazione, 15 aprile 2009

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979 all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».
Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale ne era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo.
Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese».
In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare di sprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?

Link
La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre (Corriere della sera)

Sabina rossa e gli ex-terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera
Sabina Rossa, “Cari-brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabinarossa,”Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”