Mario Calabresi ha sbagliato titolo

Recensione – Carlo Saronio 45 anni dopo. “Quello che non ti dicono”, di Mario Calabresi (Mondadori, 2020)
«Quello che non ti dicono» sarebbe stato il titolo perfetto per raccontare la morte di Giuseppe Pinelli, l’anarchico che il padre di Mario Calabresi fermò e poi trattenne illegalmente in questura da dove l’anarchico ferroviere uscì morto, defenestrato. Mario Calabresi ha invece preferito parlarci d’altro penetrando nella squallida vicenda del rapimento di Carlo Saronio, senza però pronunciarsi sull’abiezione profonda rappresentata dalla legislazione premiale che ha creato la figura giuridica del “pentito”, il collaboratore di giustizia. Soggetto umano disgustoso ma comunque apprezzato per i suoi servigi

di Davide Steccanella

Carlo Saronio, figlio 26enne dell’industriale chimico Piero Saronio, venne sequestrato a Milano il 15 aprile 1975 ma non verrà mai liberato nonostante il pagamento di un riscatto di 470 milioni, e il suo corpo verrà ritrovato tre anni dopo su indicazione di uno dei responsabili nel corso del processo di primo grado.
Nel suo ultimo libro, Quello che non ti dicono (Mondadori, 2020), Mario Calabresi torna a parlare a distanza di 45 anni di quella tragica vicenda dopo essere stato contattato dal cugino Piero Masolo, prete missionario in Algeria, e da Marta Saronio, la figlia “nata otto mesi e dieci giorni dopo la morte di mio padre”, un padre che non ha mai conosciuto e che l’aveva concepita con Silvia Latini pochi giorni prima di quel 15 aprile 1975.
La complicata storia processuale di quella vicenda è stata ricostruita in modo impeccabile da
Antonella Beccaria nel libro, Pentiti di niente, pubblicato nel 2008 da Stampa Alternativa, e di cui consiglio la lettura, perché, come riconosce Calabresi a pag. 70: «dal punto di vista della cronaca di quel tempo è un gran lavoro che ricostruisce il rapimento di Carlo e i processi».
Le indagini e i relativi processi hanno accertato che: 1) l’azione criminale fu compiuta da un gruppo di persone legate alla malavita su indicazione di un amico del rapito, 2) la morte dell’ostaggio avvenne quasi subito a causa di un tampone letale di toluolo tenuto eccessivamente premuto, 3) per ottenere ugualmente il riscatto vennero utilizzate informazioni fornite sempre da quell’amico che conosceva particolari riservati della casa di famiglia di Corso Venezia 30, per esservi stato ospitato quando era ricercato dalla Polizia.
L’evento ai tempi non destò particolare scalpore poiché in quegli anni Milano era flagellata dal fenomeno dei sequestri di persona a scopo d’estorsione, fino a quando non emerse a maggio, attraverso il sequestro in Svizzera di banconote provenienti dal riscatto, l’identità dell’amico sospettato di aver progettato il rapimento del giovane ingegnere.
Il nominativo di Carlo Fioroni, infatti, insegnante in una scuola media della provincia lombarda, compariva in numerosi atti della Questura come militante della sinistra extraparlamentare e identificato come il soggetto che aveva contratto l’assicurazione del furgone utilizzato da Giangiacomo Feltrinelli per recarsi su quel traliccio di Segrate che tre anni prima gli era risultato fatale.
Attraverso quel collegamento emersero quindi dei rapporti “occulti” del giovane Saronio (e dei quali la famiglia e gli amici non erano a conoscenza) con un gruppo di militanti legati al disciolto Potere Operaio e al mondo milanese dell’Autonomia, che in quegli anni progettavano azioni illegali di autofinanziamento, e si sospettò, quindi, che dietro a quel delitto potesse esservi una matrice “politica”.
Fioroni una volta arrestato finse di essere stato messo al corrente solo dopo il sequestro dal malavitoso Carlo Casirati, e di essersi prestato a fornirgli particolari utili a indurre la famiglia a pagare il riscatto nella speranza che l’amico fosse ancora vivo.
Dopo gli arresti di una serie di personaggi minori a diverso titolo coinvolti nella vicenda (o di altri che non c’entravano nulla), anche Casirati, fuggito con parte dei soldi del sequestro, verrà catturato il 24 febbraio 1976, e una volta estradato, dopo avere ribaltato su Fioroni la paternità del sequestro, farà trovare il 24 novembre del 1978 il corpo di Saronio nel corso del processo di primo grado avanti la Corte d’Assise di Milano presieduta dal giudice Cusumano e che si concluse con la condanna di Fioroni a 27 anni e di Casirati a 25 anni.
Ma nel dicembre dell’anno dopo e in vista del processo di Appello, Fioroni decide di diventare il primo “collaboratore di giustizia” della storia processuale italiana, rendendo dal carcere di Matera una serie impressionanti di dichiarazioni accusatorie ai magistrati Spataro, Caselli e Calogero che comporteranno l’arresto di numerosi militanti.
La matrice “politica” del delitto assumerà ancor più spessore quando verrà accertato che la sera del sequestro Saronio fu prelevato in Largo Quinto Alpini da un’auto con finti agenti, al termine di una riunione in cui si discusse di finanziamenti all’organizzazione Soccorso Rosso a casa dell’insospettabile 50enne professore della Cattolica, Carlo Borromeo, a sua volta prontamente arrestato per partecipazione a banda armata nel blitz del 21 dicembre 1979.
Sulla base delle dichiarazioni di Fioroni anche a Toni Negri, già arrestato nel celebre blitz padovano del 7 aprile 1979, verrà contestato il concorso nel sequestro e omicidio Saronio, e mentre il processo milanese d’Appello si chiuderà il 29 maggio del 1981 con la sensibile riduzione della pena a 10 anni sia per Fioroni che per Casirati in forza della nuova legge sui pentiti, Negri verrà condannato dalla Corte d’Assise di Roma senza che fosse stato possibile alla difesa controinterrogare il “pentito”, che nel frattempo aveva ottenuto un passaporto per l’espatrio.
Le successive sentenze del processo 7 aprile faranno giustizia delle “bufale” di Fioroni, chiarendo che nel delitto Saronio non vi fu alcun coinvolgimento del gruppo politico in cui avevano militato Negri, Fioroni e in parte il Saronio stesso, per cui “caso chiuso” come si direbbe in gergo.
Ma poiché il titolo del nuovo libro, Quello che non ti dicono, induceva a ritenere (a torto) che Calabresi avesse scoperto nuovi elementi in grado di riaprire il caso, l’ho acquistato e al termine della lettura mi chiedo quale possa essere il senso a distanza di 45 anni di questo libro.
Ho trovato interessante la parte in cui riporta i colloqui di oggi con le persone ai tempi maggiormente legate a Carlo, dalla sorella all’amico Gianni Tognoni, dall’allora prete di Quarto Oggiaro alla fidanzata Silvia, e ovviamente i pensieri di chi non ha avuto il tempo di conoscerlo di persona e che ha indotto Calabresi a scrivere questo libro, la figlia Marta e il cugino Piero.
Così pure è interessante la ricerca sui documenti conservati dalla mamma Angela, il ricordo della sua insegnante, i sopralluoghi nelle case e nelle zone cui Carlo era legato, e così pure la storia della fortuna durante il fascismo degli stabilimenti Saronio e degli inquinamenti lasciati, soprattutto se confrontata a quella così diversa del giovane ricercatore Carlo e del suo anno in Usa, e che, da quel che si legge, doveva essere un ragazzo meraviglioso.
Scrive tuttavia Calabresi a pag. 70 che del libro Pentiti di niente «non condivide titolo e tesi di fondo», il che suona un po’ singolare, posto che il libro di Antonella Beccaria non esprimeva nessuna “tesi”, ma si limitava, come appunto dice lo stesso autore, a «un gran lavoro che ricostruisce il rapimento di Carlo e i processi».
Quanto al “titolo”, altro non è che la valutazione oggettiva di un supposto “pentimento”, quello di Fioroni (e Casirati), fatto di false accuse che hanno comportato carcerazioni ingiuste ad opera di chi si era reso responsabile di un atto odioso come tradire la fiducia di un amico, giudizio che non pare discostarsi da quello che del Fioroni ne dà proprio il cugino Piero, il quale, dopo averlo incontrato in Francia, scrive: «ha tenuto la maschera tutto il giorno, non ho trovato un dolore sincero e ho visto una persona piccola. Non provo perdono e nemmeno pietà. Perché Carlo ha aiutato, protetto e finanziato questo venditore di fumo?», (pag. 193).
Cosa «non condivide» dunque Calabresi del libro della Beccaria?
Posso dire io quel che invece non condivido del suo libro, ossia quel continuo ribadire una divisione impenetrabile tra i buoni, tutti i servitori fedeli dello Stato, e i cattivi, tutti i militanti degli anni Settanta, tutti terroristi e mischiati in un unico calderone per una bocciatura finale e senza appello di una Storia che ha coinvolto migliaia di persone per anni in un Paese a capitalismo avanzato e che non era le montagne delle Sierra Nevada.
Cosa c’entra con la tragica vicenda Saronio un incontro avvenuto anni prima tra Renato Curcio e Fioroni nella casa di montagna di Carlo? Oppure il ricordo di Spataro del primo processo milanese alle Brigate rosse due anni dopo la vicenda Saronio? O la vicenda padovana di via Zabarella, o il furto di un quadro in una chiesa attribuito al gruppo di Toni Negri o la rapina di Argelato del 1974 o la lettera di solidarietà scritta da una detenuta per la morte di un nappista più di un anno dopo il sequestro Saronio?
Sembra di essere tornati al “teorema Calogero” di 45 anni fa, tanto che viene il sospetto che quello che oggi Calabresi “non condivide” non sia tanto il libro della Beccaria ma le sentenze dei Tribunali che quel teorema hanno a suo tempo sonoramente bocciato. Posso capire che trattandosi del figlio di un funzionario dello Stato vittima di quegli anni di violenza politica senta l’impulso e il dovere di ribadire a ogni libro la sua ferma condanna di ogni movimento degli anni Settanta, però da buon giornalista dovrebbe anche sapere che quello che oggi non ti dicono è semmai quanto effettivamente è accaduto allora, un gigantesco conflitto sociale che non ha avuto né cattivi né buoni maestri, perché era il Novecento, un secolo del tutto particolare, in cui poteva accadere che anche un ricco ragazzo borghese decidesse di uscire da una casa principesca di corso Venezia per destinare il proprio impegno alle scuole di Quarto Oggiaro.
Il fatto che abbia incontrato sulla sua strada un mascalzone non cambia il corso della Storia e neppure quello della sua storia personale, che merita rispetto, ancor più alla luce di quanto gli è capitato.
In questo non comprendo troppo il giudizio finale del cugino Piero dopo l’incontro con Fioroni quando scrive: «E’ stata una giornata forte e faticosa che mi è servita a togliere lo zio Carlo dal piedistallo su cui l’avevo messo. Ho sempre pensato che avesse abbracciato quel bisogno di cambiamento sociale che era lo spirito del tempo, ma vorrei chiedergli: Carlo ma che compagni di strada ti eri scelto?» (pag. 193).
E proprio per rispetto alla storia di questo ragazzo speravo di non leggere più, a distanza di 45 anni, concetti come «classe opulenta che giocava alla rivoluzione» come scriveva l’estensore della prima sentenza romana del 12 giugno 1984, tanto sbagliata da essere totalmente riformata: «Del resto, anche Borromeo e Gavazzeni, e chissà quanti altri della classe opulenta che giocava alla rivoluzione, erano stati ‘autoespropriati’ di qualche milione. Dopo aver partecipato a delitti, ed esser quindi divenuti ricattabili, sarebbe stato difficile, per chi aveva denaro, rifiutare prestazioni in denaro. L’idea dello sfruttamento massiccio del ‘compagno ricco’ Saronio nasce dunque – a giudizio della Corte – proprio quando egli non può essere più utile nelle strutture clandestine della lotta armata allo Stato borghese e nasce come ‘autosequestro’ al quale la sua ricattabilità, magari machiavellicamente coltivata, non avrebbe potuto – come si era sicuramente calcolato – sottrarsi. In fin dei conti, non aveva egli stesso collaborato sul piano informativo al progetto del sequestro Invernizzi e dell’attentato alla Sit Siemens? II delitto Saronio, dunque, è cosa tutta dell’organizzazione, nato e concluso nella e per l’organizzazione, per finanziare le finalità di terrorismo e di eversione propugnate». (pubblicata integralmente sul sito web Misteri d’Italia).
Non era così, non fu così, ma forse è proprio questo “quello che non ti dicono”.
Bella figura comunque quella di Carlo Saronio, in questo direi che Calabresi e il suo libro hanno pienamente assolto al desiderio della figlia: «Mi aiuti a scoprire chi era mio padre? Non l’ho mai conosciuto ma è sempre con me».

Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo

Il tribunale di sorveglianza di Roma respinge la nuova richiesta di liberazione condizionale. «Una decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizione», afferma l’avvocato Francesco Romeo

Pubblichiamo qui il testo ripristinato nella sua stesura integrale dell’articolo apparso in versione censurata sulle pagine di Liberazione del 15 aprile. Per questa ragione l’autore dell’articolo ha ritirato la firma. I passagi tagliati sono quelli segnalati in grassetto

Liberazione, 15 aprile 2009

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979 all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».
Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale ne era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo.
Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese».
In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare di sprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?

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La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre (Corriere della sera)

Sabina rossa e gli ex-terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera
Sabina Rossa, “Cari-brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabinarossa,”Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”

La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre

Nuovo no alla scarcerazione dell’ ex br Guagliardo per l’ omicidio dell’ operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ ingiustizia

Giovanni Bianconi
Corriere della sera, 12 aprile 2009

ROMA – Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali». E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà». Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione.

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Sabina Rossa: «Cari brigatisti, confrontiamoci “alla pari”»

«Senza rancore, senza reticenze, per chiudere quegli anni dobbiamo raccontarli»

Paolo Persichetti
Liberazione
5 dicembre 2008

Per almeno due interi decenni, gli 80 e i 90, il tema del complotto, la cosiddetta dietrologia, ha dominato l’approccio dei media e della società politica nei confronti della storia della lotta armata. Una forma di occultamento piuttosto che di reale comprensione. Alle soglie del 2000 la chiave di lettura cospirativa si è affievolita, in verità senza scomparire del tutto, come un serpente dalle mille teste. L’attenzione maggiore si è portata invece verso i familiari delle vittime, o meglio una parte di quella realtà. Le testimonianze del dolore e i percorsi della sofferenza sono diventati aspetti centrali del racconto pubblico e del discorso politico. 71-rossaMa se la dietrologia era fuorviante, il dolore, da solo, non riesce a narrare per intero quegli anni. È possibile uno sforzo ulteriore, un passaggio alla lucidità storica? Non “memoria condivisa”, come sostengono alcuni, ma storia aperta, libera, fatta di confronti. Storia con le sue metodologie, dove, per esempio, la dimensione della sofferenza può trovare posto in una indagine sulle mentalità.
 Eppure una discussione del genere, qui in Italia, fino ad ora non è sembrata nemmeno pensabile. Questa intervista a Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa, il militante del Pci ucciso nel corso di un’azione realizzata nel 1979 dalla colonna genovese delle Brigate rosse, è un tentativo di infrangere il tabù. Intanto sgomberando il campo da malintesi e inesattezze: quando lo si vuole, un confronto – estraneo alle logiche dell’emenda e del ravvedimento proposto in sede penitenziaria – è possibile tra ex appartenenti alla lotta armata, non dissociati e non pentiti, e familiari delle vittime. Si tratta di un inizio, anche perché le regole dell’intervista hanno confini angusti. Alcune delle risposte sollecitano obiezioni importanti che richiederebbero una discussione più approfondita. Ci saranno altre occasioni per farlo. Per ora vale sottolineare due fatti: Sabina Rossa è una donna che ha cancellato il rancore dal suo orizzonte culturale e ha avuto il coraggio di incontrare le persone condannate per l’omicidio di suo padre, senza tenere conto dei consueti presupposti legati a comportamenti dettati dalla legislazione premiale. È una innovazione importante. Il suo è un percorso che segue un modello laico di elaborazione del lutto, un tragitto che apre ad una grammatica del confronto e della analisi di quegli anni più feconda.
Tutto ciò introduce una ulteriore conseguenza: lo Stato e la società politica non hanno più alibi e tornano ad esser direttamente chiamati in causa di fronte alle loro responsabilità istituzionali.

Nel libro Spingendo la notte più in là, Mario Calabresi scrive, «la reclusione dei condannati non ci ha mai restituito nulla, non è mai stata una consolazione[…] abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Parole in netta controtendenza rispetto all’attuale processo di “privatizzazione” della giustizia che vede lo Stato ritrarsi dietro i familiari delle vittime. Sempre più viene chiesto di trasformarvi in giudici dell’esecuzione penale delle persone condannate, quasi che dall’astrazione della civiltà giuridica moderna si stia tornando all’era primitiva della regolazione pregiuridica. Questo percorso a ritroso non rischia di essere una trappola?
L’esigenza di ottenere giustizia non è un fatto privato ma un bene collettivo che tende a ricostruire quell’ideale di comunità, quel sistema di regole che vengono infrante quando è commesso un atto criminoso. Altro è l’interpretazione che le numerose sentenze danno all’accertamento del fondamentale requisito del “sicuro ravvedimento” del condannato (vedi art. 176 cp). Queste interpretazioni chiamano in causa le vittime e i loro familiari poiché al condannato viene richiesto «un fattivo instaurarsi di contatti, quale indice di manifestazione di quelle forme di interessamento per le sorti delle persone offese con l’intendimento di ripararne le conseguenze dannose in relazione al fatto commesso». Ritengo che questa sia una richiesta assurda. Per i condannati è ovvio il possibile uso strumentale finalizzato unicamente all’ottenimento del beneficio. Per le vittime è una pesante incombenza della quale non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate. Resta il fatto che questo percorso è ad uso discrezionale dei magistrati del Tribunale di sorveglianza. A volte viene posto come condizione irrinunciabile, in altre non viene affatto valutato, mettendo in essere ingiuste sperequazioni. Il caso di Vincenzo Guagliardo (ex brigatista in carcere da 32 anni, condannato per l’uccisione di Guido Rossa. Insieme alla moglie, Nadia Ponti, si sono visti rifiutare la liberazione condizionale per non aver mai voluto pubblicizzare l’incontro con Sabina Rossa, Ndr.), a mio giudizio può rappresentare un esempio emblematico dei limiti di questa normativa, anche perché personalmente ho rispetto di chi, con riservatezza, rimanendo in silenzio, compie un proprio percorso di rieducazione e reinserimento. Tuttavia credo che sarebbe necessario valutare l’opportunità di un intervento legislativo che riconduca a criteri oggettivi la valutazione per la concessione della libertà condizionale.

Il carcere «non deve costituire un nostro risarcimento», ha detto in una intervista aggiungendo di essere contraria all’ergastolo. Tra i familiari delle vittime non siete in molti a pensarla in questo modo.
Quella dei familiari delle vittime è una platea molto vasta, fatta di percorsi personali, intimi, nei quali interagiscono molteplici fattori: psicologici, etici, culturali che possono dare quindi risposte diverse, non sempre condivisibili, ma comunque degne del massimo rispetto. Personalmente ogni volta che ho incontrato ex terroristi, anche chi partecipò all’uccisione di mio padre, ho sempre cercato l’uomo che sta dietro il reato, ho sempre voluto, anche se con difficoltà, capire la sua vicenda umana, la sua storia, il perché delle sue scelte. Ho incontrato uomini, donne, che a tanti anni di distanza erano ben diversi da come li immaginavo. Il tempo inesorabilmente li aveva cambiati e non solo nel fisico, si respirava evidente il peso di scelte che avevano distrutto anche la loro vita. Carnefici ma anche vittime di una tragedia storica, della quale non sono stati gli unici registi e probabilmente gli unici responsabili. Certo, la vittima è per definizione innocente, e questo ruolo non può appartenere a un ex terrorista, ciò non significa che chi ha pagato il conto, chi ha cercato di riabilitarsi, non abbia diritto di reinserirsi pienamente nella società.

Non le sembra che nella società attuale si assista ad una generale deriva vittimaria, quella che Zigmunt Bauman ha chiamato «esaltazione narcisistica della sofferenza»?
Proprio non vedo il rischio di una deriva vittimaria e, pensando a Bauman, mi viene più logico il collegamento con il tema della memoria storica quando, nella Lingua materna, afferma: «Non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali». Proprio in questo senso lo scrivere la propria storia, da parte delle vittime, come sta avvenendo di recente, credo significhi e rappresenti un passaggio importante, una volontà di uscire da una dimensione privata del vissuto, del dolore, ed entrare in una dimensione pubblica che manifesta altresì la volontà di partecipare alla trascrizione di questa nostra storia recente.

Sfera pubblica vuole dire anche dimensione plurale del racconto. Come si concilia questa esigenza con le polemiche sulla eccessiva esposizione mediatica di alcuni ex appartenenti alla lotta armata (in genere quasi tutti fruitori della legislazione premiale)? Il presidente della Repubblica Napolitano ha addirittura chiesto che non venga loro più concessa la parola.
Il protagonismo di tanti ex terroristi si è manifestato in modo evidente, in una logica della spettacolarizzazione dell’informazione che non ha certo contribuito a scrivere sempre pagine di verità. Detto ciò, personalmente non mi preoccupa il problema di un presenzialismo mediatico degli ex terroristi: semmai mi sconcerta il comodo rimanere in silenzio di molti di essi, l’ambiguità di giudizio su quegli anni e sulle loro responsabilità, il loro sentirsi reduci di una guerra combattuta e persa, perpetuando convinzioni e atteggiamenti che possono avere un ruolo pericoloso nella cultura e nei riferimenti ideologici delle nuove generazioni.

Ma aver depoliticizzato le vicende degli anni 70, ricollocandole in una narrazione puramente criminale, non costituisce una offesa alla memoria delle vittime?
Questo Paese non potrà mai cambiare in meglio se non saprà affrontare con il necessario rigore storico quanto è accaduto negli anni Settanta. Cercando di fare verità su una storia che fu politica e non solo criminale, si può sperare di capire cosa successe e come quegli accadimenti abbiano condizionato la vita pubblica italiana. La storia di quegli anni è stata anche una storia di coperture, omissioni e connivenze. Comprendere cosa accadde nella società italiana rappresenta l’unica via per non dimenticare le vittime, tutte le vittime. Vittime del fenomeno brigatista, dello stragismo ma anche vittime della repressione dello Stato, che sono state spesso dimenticate con una logica della memoria che certo non fa onore alla nostra democrazia.

Lei si è impegnata molto per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime del “terrorismo”. Celebrazione che cade ogni 9 maggio, data della uccisione di Moro. Che senso ha ricordare nello stesso giorno vicende del tutto opposte? Non si rischia così di scrivere la storia a colpi di voti parlamentari?
C’è una certa difficoltà a ricordare, specie a destra, che quel tremendo e ancora insoluto e impunito capitolo dello stragismo che ha insanguinato l’Italia è strettamente collegato alla storia degli anni Settanta e alla degenerazione terroristica, il che non significa che la legittimò. Il terrorismo fu barbarie non meno dello stragismo. La data del 9 maggio è stata il risultato di un faticoso percorso atto a fare sì che questa giornata fosse davvero un qualcosa di condiviso da maggioranza e opposizione. Le opzioni erano diverse ma solo attorno a questa data è stato possibile trovare un’intesa tra la quasi totalità delle forze politiche. La giornata della memoria a ricordo di tutte le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice non poteva certo essere istituzionalizzata con una imposizione di maggioranza.

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Dopo aver criticato la decisione della Francia di annullare l’estradizione di Marina Petrella è stata ricevuta dal presidente Sarkozy, insieme ad altri familiari delle vittime. Perché ritenete una forma d’impunità la dottrina Mitterrand e invece tacete di fronte all’impunità sancita per legge in favore di collaboratori e dissociati? Solo il padre di Walter Tobagi e la vedova Montinaro hanno preso posizione contro. Perché questa indulgenza di fronte alla ragion di Stato?
La dottrina Mitterrand venne elaborata esaminando fascicoli processuali relativi a latitanti italiani rifugiatisi in Francia, ma non venne mai trasposta in alcun provvedimento avente una qualche efficacia o validità giuridica. Tale prassi veniva giustificata con una pretesa “non conformità” della legislazione italiana agli standard europei. Sarebbe utile ricordare che questo giudizio proveniva da un Paese che aveva abolito la pena di morte solo nel 1981 e la cui ultima esecuzione era avvenuta nel 1977, circa otto anni prima della formulazione della dottrina Mitterrand e che, solo nel 2000, creò una Corte d’assise d’appello sul modello italiano. È interessante ricordare un brano della sentenza del 2004 della corte di Cassazione francese riguardo l’estradizione di Battisti. In un preciso passo si chiarisce definitivamente che un giudice francese non può ergersi a censore della giustizia italiana, ma che soprattutto la procedura italiana è conforme agli standard europei. Sta di fatto che la vera e propria comunità di latitanti che si è formata sulle rive della Senna ha dato origine a una ferita che periodicamente torna a sanguinare. Personalmente vorrei che potesse rimarginarsi, ma non è un caso che i maggiori ostacoli ad una discussione sensata equilibrata e propositiva su questo tema li hanno posti, ad esempio, i difensori più accesi di Battisti. È un fatto che ogni qualvolta Scalzone ha rilasciato un’intervista si sono ridotte le possibilità ed il consenso ad una possibile discussione di provvedimento di indulto per quegli anni. Per quanto riguarda il carattere premiale delle leggi speciali di cui hanno usufruito pentiti e dissociati, è un aspetto che moralmente non mi ha mai entusiasmato anche perché non credo che abbia avuto un ruolo determinante nella sconfitta del terrorismo. E’ altresì evidente che per molti aspetti queste leggi non hanno certo accelerato il processo di crescita democratica del nostro paese. Ciò detto è opportuno chiedersi se è giusto tenere ancora in carcere chi è entrato con una condanna che la cultura dell’emergenza e le leggi speciali hanno moltiplicato.

Una soluzione per le eredità penali della lotta armata potrà esserci solo quando si avrà verità e giustizia. È questa la risposta che viene opposta a chi pone il problema della generazione politica più incarcerata della storia d’Italia. Ma la giustizia penale è stata esercitata: i processi hanno scritto la verità giudiziaria e le condanne, sovraccaricate dalle aggravanti delle leggi d’emergenza, sono state lungamente espiate nelle carceri speciali. Di quale “verità” si sta allora parlando? Quella storica non dovrebbe appartenere solo alla libera ricerca slegata da qualsiasi condizionamento?
Probabilmente le verità storiche potranno essere scritte quando non ci saranno più condizionamenti giuridici, ma è giusto chiedersi se per chiudere un periodo storico tormentato e difficile sia meglio rimuovere o tenere aperte le ferite. Poi arriva sempre una generazione che chiede spiegazioni su quello che è stato. Credo quindi che vada posto un problema di assunzione di responsabilità che non è mai appartenuta a molti degli ex terroristi, per non parlare dei latitanti. È vero anche che forse questa mancata assunzione di responsabilità è imputabile a uomini che poi sono divenuti in parte la nuova classe dirigente italiana. Nella storia del nostro Paese permane la difficoltà di fare i conti con il proprio passato.

Nel libro scritto insieme a Giovanni Fasanella, Guido Rossa, mio padre, rivela che suo padre faceva parte di una cellula riservata messa in piedi dal Pci nelle fabbriche per sorvegliare e scovare i militanti e i fiancheggiatori delle Br. Questa confusione di ruoli che spinse un partito a confondere la lotta politica con l’attività investigativa, sovrapponendosi agli organi preposti dello Stato, non fu un tragico errore? Agendo in questo modo, Pci e sindacato non hanno snaturato il loro ruolo?
Chi fu interprete determinante di scelte terroristiche, chi subì “quell’abbaglio rivoluzionario” e oggi si vuole proporre con onestà intellettuale, non può continuare a manipolare ideologicamente la realtà. Il vero tragico errore fu il terrorismo, non solo perché si lasciò dietro una scia interminabile di sangue innocente ma anche, e storicamente questa è una responsabilità inalienabile, perché è stato un fattore di forte contrasto al processo di sviluppo democratico e sociale del nostro Paese. E di questo, ancora oggi, ne soffriamo le conseguenze. Un approfondimento credibile non può prescindere dall’individuare la complessità e la pericolosità di quegli anni e quanto fossero necessarie e vitali le strutture organizzative di vigilanza e di intelligence che il partito comunista si era dato a difesa di quell’Italia che seppe rendersi interprete di grandi pagine di lotta e partecipazione democratica. Operai, studenti, uomini e donne, semplici cittadini interpreti di quell’Italia democratica che seppe sconfiggere il pericolo golpista, lo stragismo e il terrorismo. Quell’Italia non rispose con la violenza ma vinse con la forza della democrazia e con il contributo determinante del sindacato e dell’allora partito comunista. Non a caso mio padre verrà a conoscenza di informazioni importantissime sui piani eversivi legati al golpe Borghese all’interno dell’Italsider Oscar Senigallia, come probabilmente era riuscito a individuare gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. D’altra parte è nella lettura di queste sue scoperte che si leggono i perché del suo assassinio. Nella ricostruzione del suo omicidio si delinea chiaramente che non fu né un errore, né una scelta individuale di Dura. Fu l’esecuzione di un ordine diverso da quello che era stato dato agli altri membri della colonna genovese. Un ordine dettato da un altro livello dell’organizzazione terroristica.

Cosa la spinge e dove ha trovato la forza per incontrare i brigatisti di ieri?
Certamente ciò che mi ha mosso è stato da un lato la ricerca di verità, ma dall’altro il recupero di un confronto mancato a mio padre, quel confronto con l’avversario che fa parte di quelle “leggi non scritte”, per le quali esiste sempre un rapporto diretto tra le persone protagoniste di un conflitto, ma nel momento in cui il nemico diviene simbolo, cessa del tutto di essere uomo per cui non è più avvertita l’esigenza del confronto. Un confronto negato, perché si è solo un bersaglio, neanche una vittima, perché non le è riconosciuto tale status. Una vittima, infatti, è per sua natura buona, gli obiettivi negli attentati compiuti dai terroristi venivano scelti perché percepiti come cattivi, quindi, per definizione destinati a perdere e scomparire. Quel confronto mancato che lo stesso Guagliardo ha così stigmatizzato: «Vedi, se tuo padre fosse ancora vivo, se lo avessimo colpito solo alle gambe, io avrei con lui un rapporto alla pari…».

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo/

La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre

Sabina Rossa e gli ex terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime

Sabina Rossa: “Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”

Spazzatura: “Sol dell’avvenir”, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Ossessione cospirativa e pregiudizio storiografico