Quando su richiesta del generale Dalla Chiesa il Pci infiltrò un proprio militante nelle Brigate rosse

Estratto dal libro La polizia della storia (pp. 173-176).
La vicenda venne raccontata per la prima volta nel giugno del 2017 dall’ex responsabile della sezione speciale antiterrorismo dei carabinieri di Roma, Domenico Di Petrillo, durante la sua audizione davanti alla seconda Commissione parlamentare che indagava sul sequestro Moro e poi riportata nel libro, scritto sempre dall’ex colonnello, Il lungo assedio al terrorismo nel diario operativo della Sezione speciale anticrimine Carabinieri di Roma, Melampo 2018. Fatto singolare la Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, impegnatissima nella ricerca di infiltrati, spie, agenti d’influenza dentro e attorno alle Brigate rosse durante il sequestro Moro, ignorò completamente le rivelazioni. Nessun approfondimento venne disposto: i suoi solerti consulenti, i magistrati Donadio e Salvini, l’ufficiale dei Cc Giraudo, impegnatissimi a sfornare piste, creare e inventare nessi con Servizi di mezzo mondo, mafie e ‘ndranghete varie, snobbarono l’informazione troppo imbarazzante. Eppure sarebbe stato utile accertare modalità, tempi e modi di questa interazione tra Antiterrorismo dei carabinieri e vertici del Partito comunista dell’epoca, conoscere come si svolse questa operazione di intelligence. Niente di tutto ciò. L’unica versione dei fatti ad oggi conosciuta è quella fornitaci dall’ex carabiniere che dice fino ad un certo punto, omette, confonde per tutelare la sua fonte. Fonte, nome in codice «Fontanone», che, a distanza di oltre quarant’anni, si guarda bene dal farsi avanti e raccontare al Paese quella esperienza di cui probabilmente deve provare vergogna se preferisce rimanere celato nelle pieghe del passato. Questa vicenda è raccontata anche nella docuserie che sta andando in onda su Sky in queste settimane Roma di piombo, diario di una lotta.
Nel volume la Polizia della storia potete trovare invece un capitolo interamente dedicato al lavoro di contrasto svolto dalle forze di polizia contro le Brigate rosse, dal titolo «L’uso di esche, infiltrati e rami verdi nell’azione di contrasto alle Brigate rosse» nel quale per la prima volta, documenti alla mano, si ricostruiscono i pochi casi in cui le forze di polizia riuscirono ad impiegare delatori e provocatori. Non emergono casi di infiltrazione di membri dei Servizi o delle Forze dell’ordine, frequente invece è l’uso di esche, in particolare dopo la discesa in campo diretta del Pci che fornì propri militanti, mentre il nome più noto è quello di Girotto. Risultano arruolati due delatori: uno storico proveniente dalla Brigata Ferretto in Veneto, che fu all’origine di numerosi arresti, il secondo di Curcio, della Mantovani, di Semeria; l’altro a Milano che provocò l’arresto di Fenzi e Moretti. Infine c’è la storia di «Fontanone» che permise di agganciare nei primi mesi del 1980, dopo due anni di indagini a vuoto, la colonna romana.

L’operazione Olocausto, il Pci infiltra un proprio militante
Dopo la morte di Guido Rossa il Pci decise di cambiare la propria strategia di contrasto alla lotta armata. Il sindacalista della Cgil era stato ucciso dalla colonna genovese delle Brigate rosse che gli contestava il lavoro informativo svolto all’interno dell’Italsider di Cornigliano per conto del Partito comunista italiano (1). I vertici del Pci non ritennero più sufficiente la semplice attività informativa e il controllo dei luoghi di lavoro più caldi, delle scuole e del territorio, condotta dal proprio apparato di sorveglianza: una struttura riservata coordinata a livello centrale dalla Sezione Affari dello Stato che si appoggiava sulle singole Federazioni. Attività che ormai, come era accaduto per Rossa, esponeva a rischi eccessivi i propri militanti. Una volta individuato Francesco Berardi, operaio dell’Italsider che distribuiva opuscoli e volantini delle Br all’interno della fabbrica, Rossa non esitò a denunciarlo ai carabinieri presso gli uffici della sorveglianza nonostante l’esitazione del Consiglio di fabbrica, dove alcuni non erano convinti di quel gesto e avrebbero voluto affrontare in modo diverso il problema. Nella cultura politica del mondo operaio era piuttosto innaturale un atto del genere, in «The Making of the English Working Class», Edward P. Thompson evoca il concetto di «opacità operaia» per descrivere la tendenza della comunità proletaria a opporre una coltre di riservatezza per tutelare quel che avveniva al proprio interno: forme di illegalità, sabotaggio ma anche divergenze che non venivano risolte chiedendo aiuto all’esterno (2). Rossa aveva infranto questo tradizionale scudo, ma lo aveva fatto seguendo alla lettera le indicazioni del suo partito. Un recente lavoro di Sergio Luzzato ci offre un suo ritratto che aiuta a comprendere meglio le ragioni di quel comportamento: un aspetto caratteriale intransigente, un passato giovanile votato all’alpinismo agonistico animato da ideali nicciani e superomisti. Rossa era stato paracadutista nella brigata Folgore e per una di quelle strane coincidenze della storia uno dei suoi addestratori era stato il “guastatore” Oreste Leonardi, il maresciallo divenuto fedele guardia del corpo di Aldo Moro, morto in via Fani. Anni dopo, la tragica morte del figlioletto muta profondamente il suo sguardo sulla vita, Rossa si avvicina all’impegno sociale, abbandona la precedente visione individualistica e competitiva del mondo anche se, probabilmente, non riuscì a liberarsi della vecchia traccia normativa (3).
La svolta arriva nel settembre 1979 – racconta Domenico Di Petrillo, per molti anni a capo della Sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma – quando Ugo Pecchioli, il responsabile della sezione Affari dello Stato del Pci (una sorta di Ministero dell’Interno ombra del Partito comunista) comunica a Dalla Chiesa la disponibilità a infiltrare un militante del partito all’interno delle Brigate rosse con l’intento di destabilizzarle. L’unica condizione posta dai vertici di Botteghe Oscure – riferisce sempre Di Petrillo – «era che il militante da infiltrare fosse gestito da un ufficiale del Nord Italia per renderne il più possibile difficile l’individuazione». L’incarico venne affidato al Comandante della Sezione speciale anticrimine di Milano, Umberto Bonaventura, che incontrò per la prima volta la spia del Pci nei pressi della fontana del Gianicolo, circostanza che portò ad attribuirgli il nome in codice «Fontanone». In realtà, stando al racconto della vicenda – fatto sempre da Di Petrillo, prima nel corso della sua audizione del 19 giugno 2017 davanti alla Commissione Fioroni e successivamente in un volume pubblicato l’anno successivo che ripercorre l’attività della Sezione antiterrorismo di Roma, gli incontri con il candidato all’infiltrazione, «si concretizzano in una ricerca di come riuscire ad essere sicuri di approcciare le Brigate rosse. Facemmo vari tentativi che non andarono a buon fine, fino a che arrivammo ad individuare Piccioni, Ricciardi e da lì iniziò l’attività […] Però fu una ricerca, non fu una partenza con l’indicazione: “Andate lì”» (4). Di Petrillo fa capire che la spia non entrò mai nelle Br, ma si limitò a svolgere un lavoro di conoscenza e prossimità che consentì di individuare gli ambienti, i collettivi e i comitati politici romani che facevano da bacino di provenienza delle colonna romana: «Il nostro rapporto durò pochissimi mesi», scrive nel libro: «precisamente, sino a quando riuscimmo a individuare un’area dell’antagonismo romano, nella zona Sud della Capitale, caratterizzata dalla presenza di numerosi collettivi: le Br stavano cercando di indirizzare l’attività e di selezionare al loro interno militanti da arruolare nell’organizzazione» (5). Di Petrillo protegge ancora la fonte, è parco di informazioni e stende un po’ di cortina fumogena, ma è chiaro che l’infiltrazione nell’organico brigatista non ci fu, ma piuttosto un lavoro di perlustrazione ambientale, di individuazione dei riferimenti periferici dell’organizzazione, che conducessero a semplici «contatti» o «irregolari» da fotografare, agganciare e poi pedinare, cercando di ricostruire, appuntamento dopo appuntamento, la rete del gruppo. Di «Fontanone» si sa che era un insegnante, che riuscì a incontrare alcune persone ritenute vicine alle Brigate rosse, che questi incontri vennero fotografati e i volti dei suoi interlocutori immortalati fino a quando il pentito Patrizio Peci riconobbe l’immagine di uno di loro, fornendo l’input decisivo per indirizzare l’indagine verso la persona giusta: Francesco Piccioni, figura di peso della colonna romana, membro del fronte logistico nazionale che aveva partecipato nel dicembre 1979 alla riunione della Direzione strategica convocata in tutta fretta nella base genovese di via Fracchia. Dopo una intensa attività durata mesi Piccioni (Michele) fu catturato il 19 maggio 1980 nella base di via Silvani 7 a Roma, sede del «logistico» della colonna romana. Interessante è un ulteriore episodio: i carabinieri avevano in mano foto di diversi brigatisti immortalati durante queste attività di osservazione e pedinamento. Si trattava sicuramente di militanti che avevano una storia, erano conosciuti nei loro quartieri. «Mi rivolsi – ha spiegato Di Petrillo davanti alla Commissione Fioroni – «al Partito comunista, all’avvocato Tarsitano perché mi aiutasse a identificare queste persone. Ritagliai la foto di uno di questi che stava in via dei Fori Imperiali e dopo qualche giorno mi dette un appuntamento, andai alla Pigna [piazza Venezia, in prossimità dell’inizio di via delle Botteghe Oscure dove si trovava la sede nazionale del Pci] a incontrare Antonio Marini, un uomo del Pci, gli consegnai quel frammento di foto; dopo qualche giorno mi richiamò e mi diede il nome: Marcello Basili» (6). Si trattava di un militante vicino alla brigata di Torrespaccata che una volta arrestato iniziò a collaborare facendo catturare diversi suoi compagni.
Fu sistematica in quegli anni l’attività informativa del Pci a favore delle forze di polizia, «Dalla Chiesa – ha riferito il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora Segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo» (7). Alcune testimonianze portano a ritenere che il flusso informativo avvenisse anche in direzione opposta, seppur in misura molto minore. Salvatore Ricciardi, dirigente della colonna romana scomparso il 9 aprile 2020, con una ricca storia politica nel movimento operaio romano, prima nel Psiup (1965), poi tra i fondatori del Cub ferrovieri di Roma, per poi aderire all Brigate rosse nel 1977, mi ha più volte raccontato che dall’interno del Pci romano, qualcuno che non gradiva affatto la scelta della «delazione politica di massa» condotta dai vertici del partito, fece pervenire copia dei nomi di attivisti ritenuti sospetti che erano stati passati alla Questura.

Note

  1. Testimonianza di Loriano Bisso, segretario provinciale del Pci genovese, in Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, pp. 158-159: «[…] Quell’esperienza – si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».
  2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1968.
  3. S. Luzzato, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Einaudi 2021.
  4. D. Di Petrillo, audizione davanti alla Commissione Moro 2, 19 giugno 2017.
  5. D. Di Petrillo, Il lungo assedio. La lotta al terrorismo nel diario operativo della sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma, Melampo, Milano 2018, p. 115-116.
  6. D. Di Petrillo, CM2, 19 giugno 2017.
  7. G. Fasanella, S. Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, Milano p. 141.

Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti

La caccia al reato inesistente che il pm Eugenio Albamonte conduce da tempo nei miei confronti ha conosciuto un nuovo colpo di scena. Ignorando la decisione del tribunale del riesame e della cassazione, il 12 novembre scorso il responsabile delle inchieste sul terrorismo e i reati informatici della procura di Roma ha messo da parte l’imputazione di associazione sovversiva ed ha rilanciato l’accusa di favoreggiamento. Dopo l’iniziale violazione di segreto d’ufficio da cui l’indagine era partita siamo giunti al quinto cambio di imputazione in 12 mesi.
Il 2 luglio scorso il tribunale del riesame aveva stabilito che le accuse utilizzate per consentire alla polizia di svuotare il mio archivio erano prive delle condotte di reato. La procura si era limitata a enunciare le accuse (associazione sovversiva e favoreggiamento) senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come a dire: «sono convinto che hai fatto questo, ma non so quando, come e dove, ma siccome sono un pm faccio come il marchese del Grillo: intercetto le tue comunicazioni, ti faccio pedinare e poi ti sequestro tutto quello che hai in casa, anche le cose di tua moglie e dei tuoi figli. Qualcosa alla fine troverò!».
I giudici del riesame avevano proposto una ipotesi di reato alternativa: la violazione di notizia riservata che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando avevo inviato tramite posta elettronica alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo. Pagine destinate ad un gruppo di persone coinvolte nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi. Tra queste c’era l’ex brigatista Alvaro Lojacono, ormai cittadino svizzero, che poi aveva girato il testo ad Alessio Casimirri da decenni riparato in Nicaragua, dove ha acquisito la nazionalità. Una lettura giuridica, quella del riesame, che la cassazione lo scorso 10 novembre ha convalidato, anche se al momento non se ne conoscono i motivi. La procura, però, si tiene lontana da questa ipotesi di reato nella consapevolezza che non si tratti di notizie riservate di rilevanza penale. Nel frattempo un altro giudice, il gip Valerio Savio, si era pronunciato sul fascicolo dell’accusa ritenendo che mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria». Ragione che lo aveva condotto a rigettare l’incidente probatorio che il mio difensore aveva richiesto per contrastare l’intenzione del pm di ficcare il naso comunque tra le mie cose, prima ancora che lo stesso gip si fosse pronunciato sulla legittimità del sequestro nell’udienza prevista il prossimo 17 dicembre. Per tutta risposta il pm ha presentato una nuova domanda di incidente probatorio provando questa volta a precisare meglio accusa e condotte di reato.

Il lavoro storico messo sotto accusa
Secondo la Procura le pagine della bozza di relazione da me inviate, nelle quali si affrontava l’episodio delle vetture brigatiste abbandonate in via Licinio Calvo subito dopo il sequestro del leader Dc in via Fani, non avevano come finalità la ricostruzione corretta del percorso di fuga del commando brigatista e la confutazione delle fake news che circolano da decenni sulla vicenda, poi confluita nelle pagine del libro pubblicato nel 2017, ma servivano per il favoreggiamento dei due ex Br. Per la procura in quelle bozze si riportavano «degli accertamenti in corso da parte della predetta commissione, relativi a fatti reato, ancora non completamente chiariti, che coinvolgono anche le loro responsabilità penali». Accusa – come ha rilevato l’avvocato Romeo nelle sue controdeduzioni – difficile da sostenere sul piano giuridico: come avrebbe potuto concretizzarsi il reato di favoreggiamento in una vicenda giudiziaria conclusasi da diversi decenni con condanne all’ergastolo passate in giudicato sia per Casimirri che per Lojacono? Ammesso che possano ancora esistere fatti nuovi, questi sarebbero già assorbiti dalle condanne o largamente prescritti e non potrebbero rivestire più alcuna rilevanza penale ma solamente storica.
Se non c’è una valida ragione giuridica che tiene in piedi l’accusa, quale è allora il movente che spinge il pubblico ministero?
Ascoltato nel dicembre 2020 in qualità di persona informata sui fatti, l’ex presidente della commissione Moro 2 Giuseppe Fioroni aveva sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». Per poi suggerire che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle Brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della commissione con riferimento a questo profilo». Una tesi che si scontra con la logica e la realtà dei fatti.
I temi dell’indagine parlamentare erano facilmente desumibili dalle audizioni pubbliche, accessibili sul sito di radio radicale, trascritte sul portale della commissione stessa e dalle riunioni dell’ufficio di presidenza i cui verbali venivano sistematicamente resi noti. Le piste seguite dalla commissione erano di dominio pubblico, continuamente rilanciate da indiscrezioni giornalistiche, interviste e commenti di commissari molto loquaci. Inoltre i lavori dell’organo di inchiesta parlamentare erano destinati a divenire di dominio pubblico, di lì a poco, con la pubblicazione della prima relazione annuale sullo stato dei lavori il 10 dicembre 2015. Alle «terze persone», accennate da Fioroni, sarebbe bastato attendere qualche ora per conoscerli. Cosa sarebbe mai cambiato in quel breve lasso di tempo? Quel «qualcuno» non aveva certo bisogno di leggere le bozze dedicate a via Licinio Calvo per informarsi. C’è molta presunzione nelle affermazioni all’ex politico di fede andreottiana, giustamente non più rieletto dopo la fallimentare esperienza dell’organismo parlamentare da lui presieduto.
Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò per la prima volta, il 15 novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, che anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel dicembre successivo sulla rivista erotica-glamour Penthouse, divenuta una delle maggiori referenze del presidente Fioroni. Nel suo racconto Di Donato sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, quartiere limitrofo alla scena del rapimento e al luogo dove era avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Diversi controlli e perquisizioni vennero effettuate senza esito dalle forze di polizia in alcune palazzine e garage dei dintorni. La sortita di Di Donato venne ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista Op. Entrò quindi nella sfera giudiziaria quando il pm Nicolò Amato ne parlò durante le udienze del primo processo Moro. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro e venne consacrata nelle pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.

Gli ultimi accertamenti della commisssione
Nell’ultimo periodo della sua attività la commissione Moro 2 ha raccolto la testimonianza di una coppia che alla fine del 1978 viveva in via dei Massimi 91, strada situata nella parte più alta della Balduina. I due hanno raccontato di aver ospitato per alcune settimane, sul finire dell’autunno 1978, sei mesi dopo la fine del sequestro, una persona che poi riconobbero essere il brigatista Prospero Gallinari. Dalla vicenda sono scaturite alcune querele nei confronti di uno dei membri della commissione parlamentare (leggi qui e qui) che aveva impropriamente tirato in ballo una giornalista tedesca totalmente estranea all’episodio. All’epoca il comprensorio di via dei Massimi 91 apparteneva allo Ior, Istituto per le opere religiose, ente finanziario del Vaticano. Amministratore unico era Luigi Mennini, padre di don Antonio Mennini, il confessore e uomo di fiducia dello statista democristiano, vice parroco della chiesa di santa Lucia a cui durante il sequestro i brigatisti consegnarono su indicazione dello stesso Moro diverse sue lettere. Alcuni consulenti della commissione si erano lungamente soffermati sull’ipotesi che Alessio Casimirri fosse in qualche modo «intraneo» all’ambiente che risiedeva o circolava in quell’immobile, perché il padre Luciano era in quegli anni responsabile della sala stampa vaticana, senza comprendere quali fossero le rigide regole della compartimentazione e della logistica all’interno delle Brigate rosse, che non poggiava certo sulle relazioni familiari. I successivi accertamenti della commissione non hanno tuttavia trovato conferme e al momento di chiudere i battenti è stato chiesto alla procura di proseguire le indagini. Come si evince da alcune audizioni pubbliche della Commissione, la coppia che aveva fornito ospitalità a Gallinari, proveniva da un’area politica subentrata nelle Brigate rosse dopo la conclusione del sequestro Moro e che aveva relazioni con Adriana Faranda e Valerio Morucci, incaricati dalla colonna romana di trovare una sistemazione a Gallinari dopo l’abbandono repentino della base di via Montalcini nella estate del 1978. Non si comprende quindi quale sia il fondamento investigativo e storiografico dell’accusa che mi viene mossa, mentre appare sempre più evidente l’adesione di polizia e procura a ipotesi complottiste, che non si limitano più a inquinare e depistare le conoscenze storiografiche sulla vicenda Moro ma pretendono di esercitare il controllo assoluto sulla storia degli anni Settanta.

Le puntate precedenti
1. Se fare storia è un reato
2. La polizia della storia
3. La procura sequestra e tace
4. Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni 70
5. Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della com
6. Appello – Chi sequestra un archivio attacca la libertà di ricerca
7. Appel – Qui confisque des archives attaque la liberté de la recherche
8. Whoever seizes an archive attacks the freedom of research the appeal signed by researchers and citizens against the investigation by the prosecutor of rome and the police
9. Manca il reato, il gip Savio censura l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
10. Kafka e l’archivio di Persichetti

Interventi sulla vicenda
1. Lo storico Marco Clementi, il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70 – Il Riformista
2. Ora la magistratura vuole orientare anche la ricerca storica – Piero Sansonetti, Il Riformista
3. Paolo Persichetti e il complottismo eterno delle procure – Daniele Zaccaria, Il Dubbio
4. Caso Persichetti, la ricerca storica sotto attacco – Marco Grispigni, il manifesto
5. La commissione Moro e il caso Persichett i- Intervista all’avvocato Francesco Romeo Radio Radicale
6. Caso Persichetti, la ricerca storica deve essere libera e indipendenteFabio Marcelli, Contropiano
7. Quelle pietre d’inciampo preziose che hai seminato – Silvia De Bernadinis
8. Quando la ricerca storica diventa un problema giudiziario il caso di Paolo Persichetti – Davide Drago, Globalproject.info
9.Ricercatore perquisito e indagato per studi sul caso MoroL’indipendente.online/2021/06/15
10. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestro
11. Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti – Frank Cimini, Il Riformista
12. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestrometronews.it/2021/07/26
13. Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato” – Frank Cimini, Il Riformista
14. Contropiano – Manca il reato, il gip smonta l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
15. Sequestrato l’archivio di Persichetti, mossa della procura per censurare il libro sulle br – Frank Cimini, Il Riformista
16. Archivio Persichetti su Moro per il gip Savio non c’è reato – Frank Cimini, Il Riformista
17. Incolpazione assente, il gip smonta il caso Persichetti – il Dubbio
18.Il gip affossa l’inchiesta contro Paolo Persichetti e la sua ricerca storicawww.radiondadurto.org/2021/11/03/
19. Delitto Moro, l’archivio Persichetti ancora sotto sequestro – Frank Cimini, il Riformista
20. Archivio Persichetti, la cassazione si inventa un nuovo reato – Frank Cimini, il Riformista
21. Contropiano, Kafka e l’archivio di Persichetti
22. Contropiano.org – Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti
23. Persichetti, i pm non mollano, contestano il reato già bocciato