La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Archivio Persichetti, dopo 16 mesi per il Gip «l’imputazione ancora non c’è ma l’inchiesta continua»

«L’accusa ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai» è questo il passaggio decisivo che riassume la sostanza di un’inchiesta che ha messo sotto accusa la libertà di ricerca storica. Lo scrive il Gip del Tribunale di Roma Valerio Savio in chiusura del provvedimento in cui si nega per il momento la riconsegna delle copie forensi, ovvero il clone digitale del mio archivio sequestrato ormai 16 mesi fa: «rilevato ancora come non si pongano questioni in ordine alla riservatezza dei dati, tuttora coperti da segreto investigativo; laddove per altro profilo ogni questione di “utilizzabilità“ dei dati medesimi è semplicemente prematura e allo stato non importabile, in assenza di una imputazione che tuttora potrebbe ancora non essere mai formulata».

La procura inizialmente aveva contestato il reato associativo
Il 9 giugno del 2021 una nutrita truppa di poliziotti di tre diversi servizi della polizia di Stato aveva occupato il mio appartamento con un mandato di perquisizione e sequestro dei miei strumenti di lavoro: l’archivio di materiali storici raccolto in anni di ricerche, computer, tablet, telefoni, pendrive, hard disk e schede di memoria di ogni tipo. Sotto la guida di funzionari della Polizia di prevenzione, gli agenti della Digos e della Polizia postale in realtà portarono via anche l’intero archivio di famiglia: cartelle scolastiche e cliniche dei miei figli di cui uno disabile, l’archivio amministrativo, l’intero archivio fotografico della mia compagna. Le imputazioni iniziali, mosse dalla Procura della repubblica e dalla Procura generale, erano l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp), rapidamente evaporata dall’inchiesta, e il favoreggiamento (378 cp).

La giostra delle accuse
Nel corso dell’inchiesta si sono succedute ben 5 imputazioni: prima della perquisizione l’indagine si era aperta ipotizzando una violazione di segreto d’ufficio (prima imputazione), successivamente lievitata in associazione sovversiva a scopo di terrorismo (seconda imputazione) e favoreggiamento (terza imputazione). Nel luglio del 2021 il Tribunale della libertà, sollevando dubbi sulle precedenti incolpazioni, evocate – a suo dire – «senza indicare precise condotte di reato», suggerì una nuova accusa: «violazione di notizia riservata» (quarta imputazione), che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando attraverso la posta elettronica avevo inviato alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo e sul quale non era mai stato posto alcun segreto, nemmeno funzionale. Pagine destinate a un gruppo di persone coinvolte insieme a me nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera). Nell’ottobre successivo, cioè un anno fa, il Gip scrisse in uno dei suoi provvedimenti che, in realtà, mancava «una formulata incolpazione anche provvisoria» (leggi qui). Insomma le uniche certezze dell’indagine erano il sequestro del mio archivio, le intercettazioni della posta elettronica, ma non l’esistenza di un reato per cui tutto ciò avveniva. A quel punto la procura sposando la richiesta di incidente probatorio sul materiale sequestrato, avanzato in precedenza dal mio avvocato, si attestò nuovamente sull’accusa di favoreggiamento (quinta imputazione).

La perizia accerta l’assenza di materiale riservato ma la procura non si arrende
A fine aprile 2022 il perito del tribunale dopo aver clonato i 27 supporti sequestrati estrae 725 elementi attinenti all’indagine: 589 pdf, 117 immagini, 1 video, 13 files testo e 5 folder, per buona parte scaricati dal sito di un ex membro della Commissione Moro (i (https://gerograssi.it/b131-b175/#B131). In nessuno di essi è presente materiale riservato. Per la procura è un clamoroso buco nell’acqua (leggi qui) ma nonostante ciò il pm si oppone alla riconsegna dell’archivio e il Gip lo appoggia. La procura chiede alla Polizia di prevenzione di analizzare il materiale estratto dal perito e a fine maggio dispone la riconsegna dei 23 supporti nei quali il perito non aveva trovato elementi attinenti all’indagine ma trattiene le copie forensi.

La Procura riconsegna il materiale sequestrato ma trattiene le copie forensi dell’archivio
Nel frattempo la Polizia di prevenzione analizza il materiale individuato dal perito e il 9 luglio 2022 invia una informativa alla pubblico ministero Albamonte, titolare dell’indagine, nel quale «si da riscontro dei contenuti dei file estrapolati dal perito nel corpo dell’incidente probatorio». In seguito a questa informativa il 26 luglio il pm dispone la riconsegna dei due telefonini, del tablet e del computer e dello spazio cloud ancora sequestrati ma anche in questo caso trattiene le copie forensi, ovvero il clone digitale dell’intero materiale presente nei quattro supporti, «in quanto – scrive il pm – costituiscono necessario compendio del fascicolo fino alla sua definizione e risultano tutt’ora utili ad approfondire le indagini circa la provenienza del materiale riservato trovato nella disponibilità del Persichetti».

Un’inchiesta senza più reato
L’avvocato Francesco Romeo chiede la visione dell’informativa della Polizia di prevenzione che aveva provocato l’improvviso cambio di atteggiamento della Procura ma la Procura oppone un rifiuto. A quel punto solleva un nuovo ricorso contro la decisone del pm per riavere le copie forensi dell’intero materiale portato via il 9 giugno 2021. L’impugnazione viene discussa lo scorso 30 settembre, per il Gip nonostante «l’assenza di una imputazione», che addirittura «potrebbe non essere mai formulata», le copie forensi dell’archivio devono restare in mano alla procura fino alla conclusione dell’indagine. Con buona pace della libertà di ricerca storica.

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

«Da 12 mesi i miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…»

Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di aver diffuso documenti riservati della Commissione Moro 2: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro?

Daniele Zaccaria, Il Dubbio 9 giugno 2022

Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commisione Moro 2 allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e i complottismi sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. «La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!».

Perché questo accanimento?
Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea di non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato.

Cosa sosteneva il “teorema”?
Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro 2, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso.

Quale sarebbe stata la finalità?
Siamo nel cuore del teorema : mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri, non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata agomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del libro sulla storia delle Brigate rosse a cui ho partecipato, trovandole sospette.

In che senso “recensioni”?
Secondo i funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria, nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo.

A quali fatti si riferiscono?
Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà.

È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni?
Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi lottizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo.


E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato.
Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sulla lotta armata, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”.


C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore.
Certo, questo ahimé è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro.

Analisi del complottismo intorno al «caso Moro»


Percorsi. «La polizia della storia» di Paolo Persichetti, per DeriveApprodi. Dal 5 maggio nelle librerie. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro l’autore; la seconda raccoglie una serie di articoli riguardanti alcune delle molteplici “visioni” che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione del presidente della Dc e della sua scorta

Marco Grispigni, il manifesto 3 maggio 2022

L’uscita in questi giorni del libro di Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (DeriveApprodi, pp. 277, euro 20), ci offre lo spunto per ritornare sulla vicenda giudiziaria di cui ci siamo già occupati sul manifesto. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro Persichetti; la seconda raccoglie una serie di articoli pubblicati su giornali, riviste e siti web che smontano, con documenti e testimonianze, alcune delle molteplici fandonie che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.

UN BREVE ACCENNO alla vicenda giudiziaria, ancora aperta dopo quasi un anno, è necessario. Il sequestro dell’archivio di studio e delle carte private di Paolo Persichetti viene giustificato con una accusa surreale: appartenenza a un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo, formata nel 2015, di cui non si faceva il nome, non si conoscevano gli altri appartenenti, né tantomeno gli obiettivi. La roboante accusa si rivela solo un utile grimaldello per ottenere l’autorizzazione al sequestro dell’archivio e ben presto scompare, sostituita da quella di divulgazione di documenti riservati e di favoreggiamento.
Nel vero e proprio teatro dell’assurdo rappresentato da queste vicende emerge una novità inquietante per la quale si passa da Kafka a Orwell: l’esistenza di quella che Persichetti definisce come la «polizia della storia». Si scopre infatti che fra le tante attività di controllo del territorio degli apparati di sicurezza c’è anche quella di occuparsi delle interpretazioni storiografiche sui cosiddetti anni di piombo che si distinguono dalle versioni «ufficiali».
Nella Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza per il 2019, infatti, nella parte che riguarda i «pericoli» interni si segnala che il Comparto intelligence ha rilevato «il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli anni di piombo» rivolto soprattutto a «un uditorio giovanile della composita area dell’antagonismo di sinistra». Non c’è che dire, una impeccabile interpretazione della ripetuta richiesta di una «storia condivisa». Versioni contrastanti si possono tollerare solo all’interno dell’accademia, siamo un Paese democratico; fuori solo «storia condivisa».

LE PAGINE SU DIFFERENTI aspetti della vicenda Moro vanno nella stessa direzione di quelle di altri studiosi, come Marco Clementi o Vladimiro Satta, a smontare l’incredibile mole di falsità che alimentano i cosiddetti «misteri» del caso Moro. Le interpretazioni complottistiche sulla drammatica vicenda Moro nascono già durante i 55 giorni del sequestro e poi divengono la lettura egemone di quegli avvenimenti. Dai libri di Flamigni fino ai lavori di Gotor una serie enorme di misteri si susseguono, puntualmente smentiti dalle carte processuali e dalle testimonianze, ma capaci di affermarsi ugualmente come un disperato rifiuto di accettare che un avvenimento enorme, il rapimento e l’uccisione del più importante uomo politico di quegli anni, possa essere spiegato esclusivamente all’interno delle vicende della lotta armata.
Negli ultimi anni la possibilità di accedere a numerosi documenti «desecretati» con le direttive Prodi e Renzi ha offerto nuovi e importanti fonti agli studiosi. Da questi archivi emergono documenti inquietanti sulle «frequentazioni» tra personaggi tristemente noti dell’eversione fascista, come Delle Chiaie o Zorzi, con i servizi e in particolare con l’Ufficio affari riservati guidato da Umberto D’Amato. Sempre a proposito dell’Uar ora sappiamo che fin dalla sera del 12 dicembre 1969 i suoi uomini presero nella Questura di Milano la guida delle indagini per la strage di piazza Fontana. C’erano loro in Questura anche la notte che Giuseppe Pinelli volò dalla finestra.

IN QUESTI STESSI ARCHIVI invece non emerge niente che possa sostenere i misteri del caso Moro, una direzione esterna delle Br, la presenza nell’organizzazione di infiltrati. Nonostante questo, la lettura complottistica del caso Moro persiste e continua a occupare le prime pagine dei giornali (ora con l’incredibile teoria dell’anagramma nelle lettere di Moro che avrebbe indicato l’indirizzo della sua prigione), mentre le notizie sulle stragi e l’uso dei fascisti restano confinate nei libri di storia «riservati» agli studiosi. Forse anche questa è l’idea di «storia condivisa».

Persichetti racconta la sua storia processuale in “La polizia della storia”

Recensioni – La storia del sequestro del suo archivio, la girandola di imputazioni, la caccia al reato inesistente, il tentativo di imbavagliare la ricerca storica indipendente, le ultime acquisizioni sul rapimento Moro, una critica serrata delle narrazioni dietrologiche, un bilancio spietato dei lavori della Commisssione parlamentare Moro 2, il tutto raccolto in un racconto avvincente e pieno di colpi di scena. Il 5 maggio nelle librerie, in prevendita su tutti gli store online

Frank Cimini, il Riformista 30 aprile 2022

La polizia della storia è il titolo di 281 pagine, editore Derive Approdi, 20 euro, in libreria dal 5 maggio con cui Paolo Persichetti racconta il suo caso che la dice lunga sulla qualità della nostra democrazia, dalla Prima Repubblica fino ai giorni nostri. Come se non fossero passati ben 44 anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il fatto intorno al quale ruotano le parole del ricercatore che ormai quasi un anno fa subì i sigilli al suo archivio, il più pericoloso del mondo. E non ha ancora riavuto dall’8 giugno del 2021 “il maltolto” dove era compresa pure la certificazione medica di Sirio il figlio diversamente abile.
Paolo Persichetti combatte da anni la battaglia contro la dietrologia spiegando che il fenomeno non riguarda solo il passato ma il presente e il futuro di questo paese. Persichetti è coinvolto in una vicenda giudiziaria dove il capo di incolpazione ha subito cinque modifiche e visto l’eliminazione del reato più grave, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo attraverso la violazione del segreto di carte della commissione parlamentare sul caso Moro che segrete non erano. L’inchiesta è coordinata dal pm Romano Eugenio Albamonte lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei brigatisti condannati per via Fani e altre persone nell’ambito di una caccia a complici ulteriori veicolando il sospetto che servizi segreti nazionali e esteri avessero avuto un ruolo nella vicenda con cui la Prima Repubblica cominciò a morire.
“L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile diventa il nuovo modo di giustificare una contronarrazione che si pretende autonoma libera e indipendente dai ‘poteri’ – scrive l’autore – È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni, uno schema cognitivo che riporta ai tempi dell’Inquisizione…. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraverso le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.
Va ricordato che la dietrologia non è un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto accaduto intorno all’11 settembre. Ma il nostro è per molti aspetti un paese almeno un po’ particolare perché il capo dei dietrologi sta al Quirinale fa pure il presidente del Csm che quasi ogni 16 marzo e 9 maggio insiste: “Bisogna cercare la verità”. Come se cinque processi non avessero accertato anche dalle deposizioni di “dissociati” e “pentiti” che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse. “Esiste in questo paese un organismo che si chiama polizia di prevenzione il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica se non addirittura per prevenirla segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi” scrive nella prefazione Donatella Di Cesare aggiungendo di “una gendarmeria della memoria che assenza una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero, da una parte i buoni dall’altra i cattivi”.
“Il tratto di strada che il 16 marzo del 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del nord insieme a dei giovani romani dare l’assalto al convoglio di auto che trasportavano l’onorevole Moro non trova pace. Questo fatto storico non è accettato ancora dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili che nei decenni si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro” chiosa l’autore. E per questa ragione domenica 22 febbraio 2015 la zona fu sottoposta a scansione laser dalla polizia scientifica. I nuovi rilievi fecero emergere l’assenza di novità. In via Fani agirono le Brigate Rosse. Solo loro. Ma dirlo, riaffermarlo, ribadirlo è pericoloso. In pratica come dimostra la vicenda di Paolo Persichetti un reato.

L’archivio di Persichetti resta nelle mani della magistratura. Per il Gip Savio è fisiologico sequestrare più del dovuto

Il Gip Valerio Savio non ha accolto la richiesta di restituzione del mio archivio personale di studio sugli anni 70 e la storia della lotta armata, sequestrato l’8 giugno 2021. Nonostante l’istanza fosse stata presentata la scorsa estate e discussa solo il 17 dicembre 2021, la decisione è giunta a poche ore dalla data fissata per l’avvio dell’incidente probatorio sul materiale sequestrato, prevista il prossimo venerdì 14 gennaio 2022.
Contravvenendo a quanto indicato nel mandato di perquisizione disposto dalla procura, l’8 giugno 2021 il personale di polizia non si era limitato a individuare e sequestrare la documentazione relativa alle attività della commissione parlamentare Moro 2, che interessava un’indagine dai contorni ancora incerti (nel tempo si sono susseguiti diversi capi d’imputazione: dalla violazione del segreto d’ufficio, all’associazione sovversiva, alla violazione di notizia riservata, al favoreggiamento) ma aveva portato via ogni tipo di supporto informatico. La difformità tra quanto indicato dalla procura e quanto effettivamente preso non era stata successivamente sanata dalla procura con la convalida del materiale sequestrato in eccedenza. Da qui la richiesta di annullamento e restituzione avanzata dall’avvocato Romeo.
Nel provvedimento di rigetto il Gip, pur ammettendo che nel corso della perquisizione vi è stato un «esteso e certo verosimilmente in parte inutile sequestro operato», ha tuttavia ritenuto di non dover censurare questo comportamento, ridimensionando l’operato della polizia come una «una fisiologica o comunque non abnorme estensione del mandato contenuto nel decreto di perquisizione».
Nella ordinanza è scritto anche che nel corso delle operazioni peritali di imminente inizio sarà «possibile discernere i dati utili alle indagini e quelli invece inerenti la vita privata della persona indagata (o comunque irrilevanti per le investigazioni) alla cui restituzione l’indagato legittimamente aspira, e limitare ai primi la copia forense).

Archivio storico Persichetti, il Gip si riserva di decidere sulla legittimità del sequestro

Al termine dell’udienza di venerdì scorso il gip Valerio Savio si è riservato. La decisione arriverà con molta probabilità nel corso della prossima settimana. Era nuovamente presente, come era già avvenuto per il ricorso davanti al tribunale del riesame, il sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte che ha sostituito il pm di aula. Partecipazione del tutto inusuale ma alla quale ormai ci siamo abituati e che sta a significare l’importanza che la procura attribuisce a questa inchiesta o forse la preoccupazione per la piega inaspettata che stanno prendendo gli eventi. L’avvocato Francesco Romeo ha spiegato le ragioni del ricorso sottolineando come il personale di polizia sia andato di gran lunga oltre le indicazioni presenti nel mandato di perquisizione disposto dalla procura. Si trattava infatti di perquisire l’abitazione e in particolare tutti i supporti informatici per estrarre e sequestrare unicamente il materiale afferente l’indagine: ovvero la documentazione relativa alle attività della commissione parlamentare Moro 2. Contravvenendo a quanto indicato nel mandato, i tre servizi di polizia che conducevano l’operazione (polizia di prevenzione, digos e polizia postale) hanno invece portato via ogni cosa, arraffando ogni tipo di supporto informatico, oltre alle chiavi di accesso al cloud e diverso materiale cartaceo, raccolto stavolta dopo un’accurata perquisizione della libreria. Per sanare la difformità tra quanto indicato nel mandato di perquisizione e il materiale realmente sequestrato, il pubblico ministero Albamonte avrebbe dovuto effettuare nelle 48 ore successive – come previsto dal codice di procedura – una convalida del materiale acquisito in eccesso. Convalida mai avvenuta. E poco importa, come ha ribattuto Albamonte in aula che di fronte alla mole di materiale digitale archiviato gli operatori di polizia non avrebbero potuto effettuare all’interno dell’abitazione l’estrazione della documentazione che interessava l’indagine. Resta la mancata convalida successiva del pubblico ministero. Ad un certo punto dell’udienza il gip si è reso conto di aver già deciso in favore dell’incidente probatorio sul materiale sequestrato (prossimo 14 gennaio 2022), anticipando la decisione senza aver prima valutato il merito del ricorso sulla legittimità del sequestro. Una situazione imbarazzante!
Di seguito potete leggere la mia dichiarazione depositata agli atti.

Dichiarazione di Paolo Persichetti al Gip Valerio Savio – udienza del 17 Dicembre 2021
Nel corso del 2014, quando le condizioni mediche del mio secondo figlio lo hanno consentito, con grandi sforzi e fatica, anche solo per poche ore a settimana, ho iniziato a frequentare biblioteche e archivi d’ogni tipo alla ricerca di materiali e documenti, oltre a raccogliere tutto quello che i vari portali e le fonti aperte presenti sul web consentivano di rintracciare. Dopo aver consultato parte della documentazione presente preso l’archivio storico del Senato relativa alle attività delle commissioni d’inchiesta parlamentare che hanno lavorato sull’affare Moro, ho scoperto, quasi per caso, le carte della direttiva Prodi versate in archivio di Stato: 27 faldoni che ho consultato interamente per quasi tre anni, previa autorizzazione ministeriale che all’epoca era richiesta. Successivamente è arrivata la direttiva Renzi e altri materiali di notevole interesse (materiale digitale interamente sequestrato lo scorso 8 giugno). Da qui è nata l’idea di un progetto editoriale complesso, insieme a due altri studiosi, che è poi sfociato nel 2017 nella pubblicazione di un primo volume, “Brigate rosse, dalle fabbriche alla compagna di primavera” per le edizioni Deriveapprodi. Successivamente ho chiesto anche l’accesso agli archivi della Corte d’appello depositati presso l’aula bunker di Rebibbia. Nello stesso periodo con i miei colleghi ho avviato anche un lavoro di ascolto delle fonti orali disponibili e raggiungibili in presenza e a distanza. Da qui lo scambio di mail posto all’attenzione delle indagini della procura.
Poiché alla fine del 2014 aveva avviato le sua attività una nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda del sequestro e della uccisione di Aldo Moro, è iniziato un parallelo lavoro, sempre con i miei colleghi, di studio dei nuovi materiali accessibili prodotti dalla nuova commissione (fondamentalmente audizioni) e di interazione con la commissione stessa, almeno fino al maggio 2016, quando ci è stato impedito di tenere un convegno presso la Camera dei deputati.Preso contatto con un suo membro, insieme ai miei colleghi abbiamo formulato delle proposte come l’audizione, novità assoluta rispetto al passato, di studiosi del caso Moro molto critici rispetto alle ricostruzioni complottiste della vicenda. Grazie a questo lavoro, tra il giugno e il novembre 2015 sono stati auditi il professor Marco Clementi, il documentarista del Senato e in passato archivista della Commissione Stragi, dottor Vladimiro Satta, e un giovane studioso, il dottor Gianremo Armeni. Queste persone hanno portato all’attenzione della commissione uno sguardo nuovo, una metodologia differente, una quantità rilevante di nuove informazioni e nuovi documenti. In particolare il professor Clementi, con il quale collaboravo in modo stretto, nel corso della audizione del 17 giugno 2015, ha depositato delle foto ed un verbale di interrogatorio del testimone Alessandro Marini, che hanno poi condotto il teste a ritornare sulle sue precedenti dichiarazioni e ammettere che nessuno sparo aveva colpito il parabrezza del suo motorino, come per altro risultava nel verbale d’interrogatorio del 1994 (da me scovato presso l’archivio storico del Senato e da tutti sempre ignorato) e le numerose foto del mezzo parcheggiato su un marciapiede di via Fani attestavano. Circostanza rilevante poiché metteva definitamente in dubbio le ricostruzioni che parlavano delle presenza di una moto Honda nella dinamica del rapimento Moro in via Fani. Il professor Clementi ha depositato anche un fonogramma proveniente da Beirut, trovato nelle carte della direttiva Renzi, inviato dal colonnello Giovannone che attestava per la prima volta l’esistenza del “Lodo Moro”, infine uno schizzo disegnato da Mario Moretti che ricostruiva la dinamica dell’azione di via Fani.
Attiro l’attenzione su questa singolare circostanza che mi vede accusato di essermi procurato e aver divulgato documenti riservati, in realtà la bozza di una relazione che sarebbe stata resa pubblica poche ore dopo e che non costituisce quello che in materia storiografica viene definito un documento “primario” che può avere carattere riservato o segretato, come un verbale che raccoglie testimonianze, attività d’indagine in corso, materiale giudiziario, documentazione segregata proveniente da altri Enti, ma rappresenta una sintesi politica – per buona parte già pubblica (si vedano le sintesi delle audizioni), quando in realtà è accaduto l’esatto contrario: con il mio lavoro ho contribuito a far pervenire all’attenzione della Commissione documentazione di significativa rilevanza per i suoi lavori.
Nel luglio del 2015 era stato audito il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che nel riassumere le vicende estradizionali aveva riportato delle informazioni errate riguardo alla posizione giudiziaria e penitenziaria del dottor Alvaro Loiacono Baragiola. Il dottor Baragiola, dopo aver ascoltato su radio radicale l’audizione, mi comunicò il suo disappunto e l’intenzione di intervenire sulla questione. Informai il membro della commissione con cui ero in contato, il quale a sua volta ne parlò con il presidente Giuseppe Fioroni che si mostrò subito interessato. In effetti nell’autunno del 2015 la Commissione Moro 2 aveva avviato una nuova fase: il presidente della Commissione si era convinto della necessità di audire gli ex militanti delle Br che in passato avevano sempre rifiutato, in ragione delle ricostruzioni complottiste sempre avanzate dalle commissioni. In alcune dichiarazioni pubbliche aveva affermato che era venuto il momento di ascoltare queste persone. L’intenzione di intervenire espressa dal dottor Baragiola sembrava quindi confortare i progetti del presidente Fioroni.
Tra il novembre e la fine del dicembre 2015 ci fu un intenso lavorìo che portò ad uno scambio di lettere tra il dottor Baragiola e il Presidente Fioroni, un flusso comunicativo che mi pose inevitabilmente nella posizione di veicolatore dei reciproci messaggi che passavano attraverso una terza persona, un membro della Commissione (e che allego insieme a questo testo). E’ nell’ambito di questo contesto, assolutamente noto al presidente Fioroni, che ho inviato alcune pagine della bozza della prima relazione attinenti ad uno dei punti cruciali della vicenda, su cui si focalizzava l’attrito tra il nostro lavoro di ricostruzione storica del sequestro e l’ipotesi portata avanti dalla Commissione: ovvero l’abbandono in via Licinio Calvo delle tre vetture con cui i brigatisti erano fuggiti da via Fani. Ed è a partire dalle richieste di chiarimenti fatte a più testimoni, non solo al dottor Baragiola, che è iniziato il lungo percorso di ricostruzione dell’azione di via Fani in tutti i suoi aspetti, logistici e politici poi sfociato nel volume sopra citato. Un lavoro condotto in completa trasparenza, senza alcun artificio cospirativo, attraverso le mail e i vari social e appuntamenti in presenza con le fonti residenti in Italia.
Alla luce di queste circostanze non trova fondamento l’accusa di violazione di una qualunque notizia riservata, non avendo io mai ricevuto documenti classificati ma piuttosto letto più volte sulla stampa rivelazioni provenienti dall’interno della commissione presieduta dal presidente Fioroni e, ad oggi, stranamente mai perseguite dalla magistratura. Non comprendo quale possa essere l’attività di favoreggiamento che mi viene contestata. Non mi risulta che intervistare una persona la quale, pur avendo ancora pendenze penali, risiede in un altro Paese dove ha scontato una lunga detenzione, ha acquisito la nazionalità, possiede un domicilio noto (tanto da essere raggiunto dai giornalisti), lavora e vive con la propria famiglia, sia un comportamento vietato dal codice penale. Comprendo ancora meno come si possa elevare una accusa di partecipazione ad associazione sovversiva senza fornire la minima condotta di reato: forse solo perché questa imputazione fornisce agli inquirenti strumenti d’indagine più agevoli e invasivi della sfera personale.
Le chiedo anche come sia possibile entrare in una abitazione per una intera giornata stravolgendo la vita di una persona anziana, di due minori, di cui uno con una grave disabilità, del personale infermieristico e di sostegno che se ne occupa, con il pretesto di prelevare della documentazione molto specifica e limitata, riferita alle attività della Commissione Moro 2, per altro da me fornita subito senza problemi (e direi con estremo stupore visto che me la sono procurata scaricando il materiale dal sito di un ex membro della commissione stessa, https://gerograssi.it/b131-b175/#B131), ed invece portare via tutto ciò che era possibile. Arraffare ogni supporto informatico, persino telefoni cellulari obsoleti e rotti, vecchie pendrive che usavo per il mio lavoro di giornalista, le cartelle sanitarie e scolastiche dei miei figli, l’intero archivio fotografico della mia famiglia e di mia moglie, che è fotografa e da mesi si ritrova privata di parte del suo archivio, sottrarmi i miei strumenti di lavoro, computer, tablet, telefonino, portare via tutto l’archivio dei miei studi universitari, il mio intero archivio storico personale raccolto presso l’archivio centrale dello Stato, l’archivio storico del senato, le biblioteche parlamentari e pubbliche, l’archivio della corte d’appello di Roma, i materiali della direttiva Prodi e Renzi, quelli della prima commissione Moro e della commissione Stragi, una infinità di files scaricati da fonti aperte. Quale può essere la finalità investigativa di un’azione del genere? Una pesca a strascico indiscriminata che mi ha sottratto del mio passato, della mia intimità (cosa può esserci di sospetto nelle foto dei miei figli in sala parto?) e che – a quanto pare – ha il solo fine di menomare la mia attività, di imbavagliare la mia ricerca, di prendere in ostaggio la storia, di sequestrare il passato.
Paolo Persichetti

Il sequestro del passato

I gendarmi della memoria e la storia vietata delle Brigate rosse

Donatella Di Cesare, Il Riformista 16 dicembre 2021


Ha accompagnato i due figli a scuola quando, sulla strada del ritorno, viene fermato da una pattuglia della Digos che lo scorta fino a casa. Lì ci sono già altri agenti – in tutto una decina – pronti a iniziare la perquisizione. Tutto viene messo sottosopra, perlustrato, ispezionato. Senza troppi riguardi per l’intimità di una famiglia, di cui fa parte anche una persona anziana. Vengono sequestrati computer, cellulari, apparati elettronici, materiali di ogni tipo, compresi quelli privati, foto, appunti, lettere. Finiscono lì anche i documenti che riguardano Sirio, un bambino che il verdetto medico aveva consegnato all’esistenza vegetativa e che invece oggi va a scuola combattendo ogni giorno per la vita e insegnando agli altri a guardare il mondo con gli occhi della disabilità. Nel tardo pomeriggio si conclude la perquisizione. Da allora la vicenda non si è conclusa. Come in una novella kafkiana si aggiungono, anzi, incriminazioni ulteriori.
Quel che importa davvero è l’accusato: Paolo Persichetti. Entrato nel 1986, all’età di 24 anni, in quel che restava della colonna romana delle Br, che nelle periferie poteva contare ancora su un certo appoggio, venne arrestato nel 1987. Persichetti ha scontato una lunga pena detentiva, anni e anni di carcere, dopo essere stato estradato dalla Francia. Ha avuto sempre la passione per la ricerca storica e il giornalismo. Ma sono mestieri che ha potuto esercitare quasi solo da outsider nella sua vita attuale votata all’impegno su tanti fronti. In Italia un ex brigatista non può accedere alla ricerca universitaria. Malgrado ciò Persichetti ha frequentato gli archivi, ha studiato nelle biblioteche, collaborando con Marco Clementi ed Elisa Santalena al primo volume di una storia delle Brigate rosse. Il secondo avrebbe dovuto uscire prima che la polizia sequestrasse tutto il materiale chi lui aveva messo da parte. L’interesse per quel periodo è più che giustificato. Tutti dovremmo essere interessati, perché si tratta della storia da cui proveniamo. All’estero è difficile spiegare quel che accade oggi in Italia, quel veto minaccioso che ostacola chiunque voglia parlare di un periodo rimosso e tabuizzato. Possibile che a decenni di distanza manchi ancora una ricostruzione storica complessiva e condivisa nei suoi tratti essenziali? Possibile che di quell’epoca si possa parlare solo aderendo a una versione in cui molti della mia generazione non riescono a riconoscersi?
Il sequestro dell’archivio personale di Paolo Persichetti è la triste conferma di tutto questo. È il sigillo impresso da un apparato statale che mostra il suo volto più tetro. Esiste in questo paese un organismo che si chiama Polizia di prevenzione, il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica, se non addirittura per prevenirla, segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi. Una gendarmeria della memoria che asseconda una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero – da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i probi, dall’altra i malvagi. Solo in tale contesto si può tentare di chiarire quel che sta capitando a Paolo Persichetti bersaglio, in questi mesi, di accuse iperboliche che sono andate sommandosi in un crescendo clamoroso che non può non suscitare interrogativi. Si passa dall’associazione sovversiva che, iniziata l’8 dicembre 2015, avrebbe dovuto condurre a chissà quali azioni di cui non c’è nessuna traccia, alla divulgazione di materiali segretati della commissione Moro, che a ben guardare erano destinati a essere pubblicati il 10 dicembre 2015, fino addirittura al favoreggiamento solo perché Persichetti aveva intervistato un ex brigatista, già condannato, per ricostruire i fatti storici. Dove sarebbe il reato?
Mentre si attende l’udienza di domani, in cui potrebbe essere finalmente accolta la richiesta di dissequestro avanzata da Francesco Romeo, difensore di Persichetti, ecco arrivare l’ultimo colpo di scena: il giudice per le indagini preliminari di Roma Valerio Savio ammette la richiesta di copiare il materiale sequestrato avanzata dal procuratore Eugenio Albamonte – una mossa che sembra già un giudizio. Un linguaggio burocratico quasi indecifrabile, ma allusivo quanto basta per insinuare sospetti, stigmatizzare e, in fondo, già condannare. Viene allora da pensare che l’archivio personale di Persichetti, messo insieme con anni di duro lavoro, sia stato sequestrato non a causa di un reato, bensì allo scopo di cercare un reato. Non è accettabile che in un paese democratico la magistratura segua piste complottistiche intervenendo nella ricerca storica. Né è accettabile che un ex brigatista, solo per essere tale, non abbia i diritti degli altri cittadini e venga considerato colpevole in ogni circostanza. Solo una democrazia debole e insicura cerca la rappresaglia andando a caccia di fantasmi.

Per il Gip «nell’archivio di Persichetti possibili nuove informazioni sul sequestro Moro»


Il gip del tribunale di Roma Valerio Savio ha sciolto il proprio riserbo autorizzando la richiesta di incidente probatorio avanzata dal pm Eugenio Albamonte il 23 novembre scorso. Lo ha fatto senza attendere l’udienza del 17 dicembre prossimo nella quale il giudice deve pronunciarsi sulla legittimità del sequestro dell’archivio storico e degli altri documenti familiari portati via dalla polizia di prevenzione e dalla digos romana nel corso della lunga perquisizione avvenuta all’inizio dell’estate passata nella mia abitazione. Inoltre l’autorizzazione alla estrazione della copia forense è stata fornita senza quelle garanzie di tutela richieste dal mio legale perché – afferma il gip – queste afferiscono alla fase processuale. Ma l’incidente probatorio è stato introdotto nella riforma del codice di procedura proprio per consentire l’assunzione di prove con le forme e le garanzie del dibattimento (quindi del processo) durante le indagini preliminari.

Anticipazione del giudizio
La decisione del gip rappresenta un’anticipazione del giudizio di merito: sarebbe stato certamente più corretto, almeno sul piano formale, attendere l’udienza del 17 dicembre. Ci ritroviamo ora con il semaforo verde per l’estrazione della copia forense senza che sia mai stata detta una parola sul fondamento giuridico e le modalità con cui è stato condotto il sequestro. Ancor più sconcertanti appaiono le ragioni addotte a sostegno di questa decisione. Per il gip, infatti, risulta utile esaminare il contenuto del mio archivio digitale per valutare, nell’ambito della ipotizzata condotta di «favoreggiamento» sostenuta dalla procura, la rilevanza delle possibili informazioni contenute nei supporti informatici sequestrati «in relazione alla posizione giudiziaria (attuale o pregressa in relazione ad eventuali giudizi per reati imprescrittibili o a giudizi anche di revisione) di Loiacono Alvaro e Casimirri Alessio e a possibili violazioni di segreto d’ufficio che li riguardino». Una prosa alquanto contorta, come l’intera vicenda che col passare dei mesi si avvita sempre più su se stessa. Una volta tradotto, il passo del gip vuole significare che tra i documenti del mio archivio, raccolti in anni di pazienti ricerche tra archivio di Stato, archivio storico del senato, archivio della corte d’appello di Roma e fonti aperte, potrebbero trovarsi informazioni utili ad accertare nuovi rilievi penali, a carico o discarico, di Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. A questo punto viene facile obiettare che gli inquirenti sarebbero potuti andare a cercare queste ipotetiche informazioni direttamente nei vari archivi istituzionali da me frequentati, anziché venire a parassitare il mio lavoro, criminalizzando per giunta la mia attività di ricerca. In fondo – se queste informazioni le ho trovate io – come ipotizza il gip – avrebbero potuto scovarle anche gli inquirenti e i giudici. Ma di quali informazioni si tratta?

Reati imprescrittibili
Sono trascorsi 43 anni dal sequestro Moro. Gli unici reati che non trovano prescrizione dopo oltre quattro decenni sono quelli di omicidio e strage, il primo dei quali sappiamo essere avvenuto in forma plurima al momento del rapimento e della uccisione dello statista democristiano, in via Fani e in via Montalcini. Per questi reati sia Lojacono che Casimirri sono stati già ampiamente sanzionati con condanne definitive all’ergastolo. Pene che riguardano anche altri episodi avvenuti nel corso della loro partecipazione alla colonna romana delle Brigate rosse, per Lojacono in parte già scontate con una lunga detenzione in Svizzera. Non risultano pervenute in questa vicenda storica altre notizie di reato che abbiano una durata penale imprescrittibile. Non si comprende dunque, ancora una volta, quale sia l’obiettivo di questa indagine e del sequestro del mio archivio. Per rafforzare la sua decisione, il gip menziona anche l’ipotesi che da queste informazioni possano scaturire «possibili giudizi di revisione», in sostanza l’emergere di errori in sede giudiziaria che abbiano condotto a condanne ingiustificate delle due persone menzionate. Come a dire: non cerchiamo solo eventuali nuovi crimini imprescrittibili ma anche le prove di una eventuale innocenza! Un intento certamente lodevole, ma se questo fosse il caso, resta ancora da capire come io possa aver favoreggiato degli innocenti. Un reato che, almeno per il momento, non è previsto dal codice penale.

Gli acchiappafantasmi
Non so quanto abbia senso cercare una logica comprensibile nelle motivazioni esposte dal gip. Fin dall’inizio ogni magistrato che si è cimentato con questa vicenda si è esercitato nell’arte del tirare ad indovinare, cercando di giustificare l’ingiustificabile, rattoppando male gli enormi buchi di un’inchiesta che ricorda la veste di Arlecchino. Cinque imputazioni diverse: dall’associazione sovversiva alla violazione di notizia riservata, dal favoreggiamento alla ricerca di informazioni su reati imprescrittibili fino al ritorno della violazione del segreto d’ufficio, con uno svolazzo anche sulla revisione dei processi. Un gioco al rilancio continuo, un nonsense che ha come risultato finale la confisca del mio archivio, l’attacco frontale alla libertà di ricerca storica, il bavaglio al mio lavoro.
Tuttavia è un pò difficile non chiedersi se l’affermazione del gip costituisca solo una ipotesi di scuola: nella ricerca di eventuali informazioni che possano innescare giudizi di revisione si intravede la caccia ad altri possibili complici del sequestro sfuggiti alle indagini. Una ossessione che traversa come un fiume carsico la storia giudiziaria della vicenda Moro, pietra miliare di tutte le narrazioni complottiste. Ora a parte la facile ironia suscitata dal fatto che si venga a cercare la soluzione a questi dilemmi nel mio archivio, appare sempre più surreale questa rincorsa ai fantasmi di fronte alla ormai accertata inattendibilità del testimone chiave dell’agguato di via Fani (leggi qui). L’ingegner Alessandro Marini ha ripetutamente mentito, testimoniando il falso, rettificando la propria versione almeno dodici volte. Nessuno mai sparò da una moto in corsa contro questo testimone colpendo il suo parabrezza. La circostanza ormai è talmente assodata che lo stesso Alessandro Marini ha dovuto ammettere davanti ai consulenti della commissione Moro 2 di aver detto cose non vere in proposito (il parabrezza si era rotto a causa della caduta del motorino alcuni giorni prima del sequestro e Marini lo aveva riattaccato con del nastro da pacchi, come si può vedere nelle numerose foto che raffigurano via Fani dopo l’agguato). A scrivere il contrario è rimasto solo Sergio Flamigni, circostanza che non stupisce affatto. Nonostante ciò, ben 25 persone restano condannate per un tentato omicidio mai avvenuto. Informazioni per attivare possibili giudizi di revisione su questo punto esistono da diverso tempo, presenti in diversi libri e pubblicazioni, compresi i lavori della commissione Moro 2.
Per quanto attiene invece l’ipotesi di «complici non identificati», serve ricordare che per il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della scorta sono state condannate ben 27 persone in quattro processi diversi, nonostante alla esecuzione del rapimento, alla custodia e alla gestione politica del sequestro, abbiano partecipato effettivamente solo 15 di queste e la sedicesima sia stata assolta. Alle altre sono state attribuite responsabilità morali nonostante facessero parte di strutture delle Brigate rosse che non erano coinvolte nella operazione e non potevano essere informate per ovvie ragioni di sicurezza e compartimentazione. A puro titolo di esempio cito il caso di Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri delle colonna torinese e genovese. I due vennero condannati solo perché avevano incarichi nazionali, rispettivamente – stando a quanto è scritto nelle sentenze – «nel fronte di massa e fronte della controrivoluzione» e quindi per i giudici «non potevano non sapere», anche se l’unica struttura centrale informata sul sequestro era l’esecutivo nazionale, di cui non facevano parte.