Stazione di Bologna, 2 agosto 1980, la bomba con cui la destra vorrebbe rovesciare la storia dello stragismo

bologna-3-1024x669A pochi giorni dal trentaseiesimo anniversario della strage si torna a parlare della bomba, oltre venti chili di gelatinato e compound B, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, che esplose alle 10.25 del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Saltarono in aria circa 300 persone, 85 di queste morirono. Dopo una inchiesta molto discussa e un tormentato percorso processuale furono condannati come realizzatori materiali dell’orrenda carneficina, tre neofascisti appartenenti ai Nar: Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, minorenne al momento dei fatti (tutti già condannati per altre uccisioni). L’operato della procura bolognese fu caratterizzato da errori, l’uso di teoremi, il ricorso indiscriminato a ricostruzioni e piste aperte da pentiti, dovette anche confrontarsi con l’azione di depistaggio dei Servizi. Per l’inquinamento delle indagini vennero sanzionati Licio Gelli, Francesco Pazienza e due dirigenti del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte.
Per ammissione stessa dei magistrati che hanno redatto la sentenza finale di condanna, le conclusioni processuali non sono riuscite a definire in modo soddisfacente quello che fu il movente della strage ed individuarne i mandanti. Una indeterminatezza che ha lasciato aperte ipotesi e discussioni su piste alternative, scenari diversi che si sono sostituiti col passar dei decenni e delle maggioranze politiche. Negli anni 90 si è discussa l’ipotesi che la bomba alla stazione fosse stato un diversivo per distogliere l’attenzione dalla strage di Ustica: l’abbattimento, la sera del 27 giugno dello stesso anno, dell’aereo di linea Itavia che trasportava 81 persone sulla linea Bologna-Palermo. Disastro causato da una vera e propria azione di guerra aerea che vide jet militari Nato attaccare alcuni Mig libici che utilizzavano (autorizzati segretamente dalle autorità italiane) il “cono d’ombra” dell’aereo civile come schermo per traversare indisturbati i cieli del Tirreno di pertinenza Nato.
A partire dal 2000, su iniziativa della destra, si è imposta all’attenzione la cosiddetta “pista palestinese” che aggiornava la “pista mediorientale”, ipotizzata negli anni 80 da alcuni ambienti politici democristiani (Zamberletti), convinti della responsabilità del colonnello Gheddafi, di cui si sospettava la reazione per un accordo di protezione che l’Italia aveva concluso con Malta. La pista palestinese, a causa della sua strutturale fragilità (un movente inconsistente e indizzi striminziti rispetto a quelli della pista neofascista), ha sempre avuto dei contorni incerti e varianti successive (dalla rappresaglia all’esplosione accidentale durante un trasporto di esplosivo) elaborati di volta in volta per colmare palesi incongruenze e gigantesche illogicità, per non citare l’assenza di riscontri.
A detta dei suoi sostenitori, oltre a membri della resistenza palestinese, vedeva coinvolti militanti della sinistra rivoluzionaria tedesca, almeno una delle vittime della strage, ed avrebbe persino lambito gli ambienti della lotta armata italiana.
Nelle intenzioni dei suoi fautori, infatti, essa costituiva un vero e proprio capovolgimento di paradigma storico, una sorta di risarcimento simbolico che in qualche modo doveva riequilibrare e riabilitare in forma vittimistica l’immagine della destra italiana macchiata dall’infamia indelebile per il ruolo avuto nella lunga stagione delle stragi, da piazza Fontana all’Italicus.

Nonostante l’importante campagna politico-mediatica dispiegata attorno a questa pista nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili, in altre circostanze male utilizzati, i lavori molto discutibili della commissione Mitrokhin, l’azione di quella che può definirsi l’attività di una “agenzia di disinformazione e depistaggio” non ha prodotto risultati efficaci sul piano giudiziario: «Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati – concludeva il pm Ceri nella sua richiesta di archiviazione dell’inchiesta bis sulla strage, accolta dal Gip Giangiacomo – la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità a fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna».
Più fruttuosi sono stati invece i risultati sul piano del senso comune, dove il battage vittimistico del neofascismo e il paradigma rovescista messo in piedi dalla destra, che attribuiva per la prima volta le responsabilità di una strage, la più grande mai vista in Italia, ai “rossi”, grazie anche alla congiuntura favorevole del ventennio berlusconiano, ha riscontrato maggiore successo facendo breccia goebelsianemente in quella che possiamo definire la “percezione storica” del Paese.
Nella prossima puntata torneremo su alcune questioni recentemente sollevate dai sostenitori della pista palestinese, soprattutto – poiché questo è il vero tema – esamineremo la tecnica distorsiva e manipolatoria da loro utilizzata per dare vita ad una narrazione vittimistica e falsificatoria sulla strage.

1/continua

Precedenti puntate sull’argomento

0. Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
4. Puntata, Cutolilli, Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza è Raisi che deve giustificare le sue accuse
5. Accuse contro Mauro Di Vittorio, Paradisi e Pellizzaro prendono le distanze da Enzo Raisi ma non convincono affatto
6. puntata, ecco i documenti di Mauro Di Vittorio di cui Raisi negava l’esistenza

Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Strage di Bologna, ecco i documenti di Mauro Di Vittorio di cui Raisi negava l’esistenza

La pista palestinese si è rivelata inidonea a fornire una spiegazione della strage di Bologna. Ricorrono ad un linguaggio contorto ed involuto i magistrati della procura bolognese per argomentare la loro richiesta di archiviazione dell’indagine supplementare aperta per fugare ogni ombra di dubbio sull’attentato alla stazione che il 2 agosto 1980 provocò la morte di 85 persone e oltre 200 feriti.

«Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati, la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità a fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna, precludendo una ragionevole formulazione dell’imputazione dell’esecuzione della strage di Bologna al gruppo Carlos, nelle sue diverse articolazioni, operative nell’Europa Occidentale, e, direttamente o indirettamente, alle organizzazioni palestinesi».

Alla fine l’inconsistenza del movente (la rappresaglia per la presunta violazione del Lodo Moro) e l’assenza di elementi probatori nei confronti dei due cittadini tedeschi finiti nel registro degli indagati hanno imposto il riconoscimento della loro «sostanziale» estraneità alla strage, nonostante l’imponente campagna politico-mediatica dispiegata nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili o male utilizzati, l’azione di quella che può definirsi una “agenzia di disinformazione e depistaggio”.
I magistrati lo hanno fatto scegliendo un profilo basso, rinunciando nonostante le 82 pagine ad infierire lì dove le contraddizioni, le fandonie, i continui aggiustamenti, le palesi falsità e contraffazioni, avrebbero richiesto ben altre parole e potevano persino configurare ipotesi di reato, di fronte ad uno scenario che col tempo ha assunto sempre più le sembianze di un depistaggio piuttosto che quelle di una pista investigativa alternativa.

Una pista senza movente
Un mese prima dell’attentato del 2 agosto l’Italia era riuscita a far riconoscere al Consiglio d’Europa il diritto del popolo palestinese ad un proprio Stato. Era quello il primo riconoscimento a livello internazionale della Resistenza palestinese. Perché mai un mese dopo un’organizzazione come il Fplp, inserita nell’Olp, avrebbe dovuto organizzare per rappresaglia un attentato dalla portata devastante (il più grave in Europa prima delle bombe di Madrid), come la strage alla stazione di Bologna, solo perché due missili di loro proprietà in transito sul territorio italiano erano stati sequestrati e un suo rappresentante arrestato?
Un atto illogico, al di fuori di ogni ragionevole proporzione, rilevano i pm sulla base anche delle testimonianze fornite da esponenti del Sismi, come Armando Sportelli, direttore della Divisione Esteri “R”, dal 1977 al 1985, diretto superiore del colonnello Stefano Giovannone, capocentro a Beirut, uomo di Moro e tessitore dei rapporti con gli esponenti della Resistenza palestinese.
Sportelli fornisce una lettura del “Lodo Moro” ben diversa da quella narrata nella pubblicistica corrente. Nessun passaggio di armi tollerato, ma solo un appoggio politico per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi in cambio della cessazione delle azioni armate contro obiettivi israeliani, e non solo, sul territorio italiano. In realtà i carteggi del Sismi rintracciabili negli archivi segnalano anche un’intensa collaborazione di intelligence.
Secondo Sportelli, il colonnello Giovannone avrebbe poi applicato una sua “personale” interpretazione dell’accordo offrendo garanzie supplementari che provocarono, una volta venute alla luce, il suo trasferimento.
Insomma il “Lodo Moro”, secondo l’interpretazione dei pm bolognesi, non sarebbe stato un protocollo rigido ma una politica puntuale, duttile, messa in atto di volta in volta secondo le situazioni. In sostanza, lasciano capire i magistrati, vi può essere stata rappresaglia contro qualcosa che non esisteva? L’arresto di Saleh, l’indifferenza della magistratura e dei carabinieri alle pressioni di Giovannone, sarebbero la prova dell’assenza di un accordo complessivo, che altrimenti avrebbe legato le mani agli apparati e alle istituzioni.

Margot Christa Frohlich
Entra nell’inchiesta perché un cameriere dell’hotel Jolly di Bologna l’avrebbe riconosciuta due anni dopo la strage in una foto apparsa sui giornali al momento del suo arresto nello scalo aereo di Fiumicino, dove era stata trovata in possesso di una valigetta in cui era nascosta una miccia detonante.
Rodolfo Bulgini è il testimone che l’avrebbe riconosciuta come l’esuberante ballerina con forte accento tedesco che avrebbe fatto di tutto per farsi notare quel giorno chiedendo ad un inserviente di portare la sua valigia in stazione.
Solo che le verifiche del racconto di Bulgini non hanno trovato riscontri. Il locale dove avrebbe lavorato la ballerina era chiuso dal 1976 e nessuno aveva mai visto la Frohlich (che non è ballerina) e tantomeno una qualunque altra ballerina tedesca. Il Bulgini viene descritto dai colleghi di lavoro come una personaggio fantasioso, sempre pronto a inventare storie e situazioni per darsi importanza e mettersi al centro dell’attenzione. Cercato per essere interrogato, il testimone è risultato affetto da una grave invalidità civile per malattia psichiatrica. Insomma del tutto inattendibile, salvo che per Raisi, Pellizaro e Paradisi.
Di squilibrati che parlano a vanvera in questa vicenda ce ne sono fin troppi. Alla pagina 36 della richiesta di archiviazione si trova la testimonianza di una cittadina tedesca, Rosemarie Eberle, affetta secondo una perizia disposta dal tribunale di Darmstadt da «psicosi cronicizzata paranoide» che ha dichiarato di aver visto il futuro ministro degli Esteri tedesco e vice-Cancelliere del governo Schrôder dal 1998 al 2005, Joscka Fischer, aggirarsi con fare sospetto insieme ad altri suoi compagni nella stazione di Bologna il 2 agosto 1980 poco prima dell’esplosione.

Thomas Kram
Non fa parte del gruppo Carlos ma delle Cellule rivoluzionarie e si presenta alla frontiera di Chiasso e in albergo a Bologna con la sua carta d’identità. Un comportamento ben lontano da quello di una persona che si appresta a commettere un grave reato. «La sua presenza ingiustificata a Bologna – scrivono i pm – non è sufficiente alla formulazione dell’accusa di partecipazione alla strage della stazione ferroviaria». Tuttavia i magistrati censurano pesantemente il comportamento di Kram che con il suo atteggiamento reticente non fuga il «grumo di sospetto» che si addensa sulla vicenda.

Mauro Di Vittorio, vittima della strage
Veniamo alla figura di Mauro Di Vittorio, chiamato in causa dall’ex carabiniere missino, poi onorevole trombato, Enzo Raisi.
Quando l’ipotesi della rappresaglia come movente della strage per il sequestro dei missili palestinesi intercettati davanti al porto di Ortona prima del loro imbarco cominciò a traballare, venne introdotta la variante dell’incidente intercorso durante un trasporto di esplosivo.
Tecnicamente le perizie hanno sempre smentito un simile scenario perché la valigia esplosiva era collocata in una posizione tale da far pensare che la deflagrazione dovesse sortire il massimo effetto, e soprattutto conteneva l’innesco. Non si trasporta esplosivo innescato.
Contro ogni principio di realtà tuttavia i sostenitori della pista palestinese hanno cercato il complice italiano, l’anello mancante, quello che avrebbe dovuto portare con sé la valigia, e questo perché nessuno ha mai visto Kram o la Froelich in stazione. Il complice italiano era fondamentale anche per creare il nesso con le organizzazioni armate della sinistra rivoluzionaria italiana.
E così, come fanno le Jene (vedi qui), si è cominciato a rovistare tra i morti. Si cercava un giovane, possibilmente romano, legato all’area dell’autonomia, meglio se al collettivo di via dei Volsci, come Pifano e Baumgartner arrestati ad Ortona con i missili insieme ad Abu Saleh, il rappresentante del Fplp. Ma ancora meglio se fosse stato in odore di Brigate rosse. Magari uno di quei giovani presi nelle retate di Br city, tra la Tiburtina e Cinecittà. Alla fine è sbucato Mauro Di Vittorio, 24 anni, di Tor Pignattara. Non era affatto un militante anche se era conosciuto da chi frequentava la sezione di Lotta continua del quartiere. Di Vittorio guardava altre periferie, quelle londinesi, dove aveva una stanza in uno stabile occupato, portava lunghi capelli un po’ rasta, aveva una barba molto folta (vedi qui la sua storia).
I Pm gli dedicano appena una pagina per scagionarlo. Si affidano ad alcuni rapporti della Digos ed alle parole della sorella Anna, intervenuta per difenderne la memoria nel silenzio più assoluto (leggi qui) dell’associazione delle vittime della strage e del suo presidente, Paolo Bolognesi, che per ragione sociale avrebbe dovuto fare tuoni e fulmini contro questo linciaggio. Un eccesso di sufficienza di fronte ad un’accusa calunniosa rivolta verso una persona che non può più difendersi e che a distanza di decenni viene uccisa una seconda volta. Tanto più che le accuse di Raisi poggiano su evidenti contraffazioni documentali contenute anche in un libro e menzogne sfacciate.

Qui sotto potete trovare una pagina manoscritta del suo diario di viaggio. Respinto alla frontiera londinese, la mattina del 2 agosto dopo un rocambolesco viaggio di ritorno attraverso la Francia (dove venne multato perché privo di biglietto) si ritrovò a Bologna per morire nella deflagrazione.
Enzo Raisi ha sempre negato l’esistenza di questo diario di cui avevamo già pubblicato il testo integrale apparso su Lotta continua nei giorni successivi alla strage (leggi qui).

Quaderno MDV

Per i sostenitori della pista palestinese non solo il diario era una contraffazione costruita postmortem ma Mauro Di Vittorio sarebbe stato a Bologna in anonimato, proprio perché stava trasportando dell’esplosivo. Raisi ha sempre sostenuto che non vi era traccia della sua carta d’identità. Eccolo servito.
La carta d’identità di Mauro è stata restituita alla sorella Anna, insieme con altri effetti personali del fratello, dalla Polfer  il 12 agosto 1980. Ecco l’incipit del processo verbale di consegna presente negli atti dell’inchiesta di cui i pm hanno chiesto l’archiviazione:

L’anno 1980 addì  12 del mese di Agosto, alle ore 11.45, negli Uffici del Comando Posto Polizia Ferroviaria di Bologna, Innanzi a Noi sottoscritti Ufficiali di P.G., è presente la Signorina DI VITTORIO Anna, nata a Roma il 3.8.1954 ivi residente in Via Anassimandro Nr.26, nubile Insegnate, Tessera Mod AT rilasciata dal Ministero della Prubblica Istruzione-Provvedditorato Agli Studi di Roma il 14.1.1977 Nr.38290339.

C.I.Mauro

 

Per saperne di più

0. Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
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Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio

L’ultimo viaggio di Mauro Di Vittorio

da Lotta Continua, 21 agosto 1980

Parto con la sensazione di dover fare qualcosa di buono. Tante idee per la testa, chissà cosa combino. Dopo una grattachecca e una controllatina alla macchina comincia il viaggio. Peppe vuol fare la strada più lunga, cioè l’Aurelia, per vedere se ci sono due ragazze del Belgio in Toscana, ma dopo quattro ore di viaggio arriviamo e non le troviamo. Peccato.
Decidiamo di proseguire anche se è notte e arriviamo a Milano. Qui la macchina comincia a fare i capricci e cambiata la candela andiamo un po’ avanti un po’ più nervosi. Il giorno dopo, alla frontiera con la Svizzera ci tengono fermi due ore, ma il morale è  intatto. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare la  macchina. Peppe comunque è un ottimo guidatore e sono abbastanza sicuro. Andando avanti cominciano le difficoltà serie con la macchina perché la strada è in salita e c’è molto traffico. Comunque la Svizzera è bella, specialmente al passo del San Gottardo dove ancora c’è la neve e ci fermiamo a bere.
Dopo la Svizzera italiana c’è la Svizzera tedesca e in mezzo a un traffico tremendo e molte parolacce la sera siamo alla frontiera.
Già stavo pensando di arrivare il giorno dopo a Londra e tutto contento facevo i miei progetti, quando è successo l’imprevisto. I doganieri tedeschi dopo averci perquisito la macchina e visto i documenti arrestano Peppe perché due anni prima a Monaco non aveva  pagato la metropolitana.
Peppe è molto abbattuto perché non gli spiegano che cosa gli faranno, allora decidiamo che io vado in autostop ed eventualmente gli mando dei soldi da Londra. La macchina la lasciamo alla frontiera e Peppe viene portato via. Rimango in attesa per tre ore aspettando invano il suo ritorno insieme a due ragazze tedesche che mi offrono della cioccolata dopo due giorni che non mangio altro.
La mattina parto e prendo subito un passaggio in una Mercedes che però mi lascia fuori dell’autostrada. Sono abbastanza giù, anche perché qui parlano solo tedesco e per capire è un vero problema. Comunque sono abbastanza fortunato e cammino abbastanza velocemente, poi prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada.
La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo.
Questa mattina mi sono svegliato bene e dopo un caffé mi sono messo in marcia. Un passaggio dopo l’altro e sono arrivato a Ostenda. Mi permetto pure una colazione e all’una prendo il traghetto. Londra, eccomi. Faccio un giro sul traghetto e tre ore passano subito. Dover con le sue bianche scogliere mi sta di fronte.

Il racconto del viaggio di Mauro Di Vittorio apparso su Lotta continua el 21 agosto 1980. Il diario venne consegnato dalla polizia ferroviaria ad Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, dopo il riconoscimento del corpo

Leggi (qui) l’inchiesta che smonta le accuse contro Mauro Di Vittorio lanciate dal parlamentare finiano Enzo Raisi

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Il leader dell’Autonomia romana, «Sul 2 Agosto, Raisi non crei un caso Valpreda»

Daniele Pifano, arrestato nel 1979 a Ortona con i missili dei palestinesi, nega che la strage di Bologna sia stata una ritorsione del “fronte popolare”. E lo fa smentendo che una delle 85 vittime dell’attentato, Mauro Di Vittorio, tirato in ballo dal deputato di Fli, fosse un militante dei Comitati Operai di via dei Volsci: “La pista rossa non ha fondamento”

Antonella Beccaria, Il Fatto quotidiano 1 agosto 2012

Alla vigilia della commemorazione della strage alla stazione di Bologna a prendere la parola è Daniele Pifano, il militante dell’Autonomia di via dei Volsci arrestato a Ortona nel 1979 mentre trasportava due missili Strela insieme a Saleh Abu Anzeh, esponente del Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), Giuseppe Nieri e Giorgio Baumgartner. Lo fa per smentire legami tra la sua organizzazione e una delle vittime della strage, Mauro Di Vittorio, “uno sconosciuto per noi”, e per annunciare un’azione legale nei confronti del parlamentare di Fli Enzo Raisi.
Per lui, che oggi ha 66 anni e che collabora con il comitato di quartiere Pigneto-Prenestino, a Roma, il giovane morto nell’attentato del 1980 di cui parla Raisi “potrebbe essere un caso Valpreda a 32 anni di distanza”, facendo un parallelo con la vicenda dell’anarchico ballerino accusato e poi assolto per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. E aggiunge: “Vorrei che a parlare non fosse Raisi, ma qualcuno che non è un parlamentare e le cui parole possano dunque passare attraverso il vaglio della magistratura”.
La storia di Pifano è stata posta all’origine della cosiddetta “pista palestinese” per la strage del 2 agosto 1980, una presunta e finora indimostrata ritorsione per la violazione del lodo Moro dopo il sequestro dei missili di Ortona. E a indurlo a intervenire sono i contenuti della conferenza stampa dei giorni scorsi in cui Raisi era tornato a parlare di Di Vittorio, il ventiquattrenne romano che morì nell’attentato di Bologna, ascrivendolo “all’area dell’Autonomia romana, soprattutto quella dei Volsci, vicina ai palestinesi”. In questa occasione aveva parlato anche di incontri che esponenti dell’extraparlamentarismo di sinistra romano avrebbero avuto “a Verona, dove c’erano i vertici della colonna veneta delle Brigate Rosse”, facendo tra i referenti il nome di Antonio Savasta.
La prima iniziativa Pifano la prende scrivendo un comunicato datato 31 luglio 2012 in cui afferma che si tratta di “notizie sensazionali di grande effetto mediatico, ma di nessuna rispondenza reale”. E parlando di sé in terza persona aggiunge nel testo: “Questa volta [Raisi] ha tirato fuori che una delle vittime […] faceva parte dell’Autonomia Operaia, quindi la stessa di Daniele Pifano, quello dei missili dei palestinesi, quindi possibile trasportatore della bomba assassina che avrebbe fatto esplodere per sbaglio o volontariamente. Peccato che né il sottoscritto né gli altri responsabili a suo tempo del Collettivo del Policlinico o dei Comitati Autonomi Operai di via dei Volsci lo abbiano mai saputo o abbiano mai avuto notizia dell’esistenza di un compagno dell’autonomia tra le vittime dell’orribile strage di Bologna”.
Infine netto è il giudizio di Pifano sul contenuto delle parole di Enzo Raisi: “Per quanto mi riguarda ho dato mandato ai miei avvocati di sporgere denuncia contro [il parlamentare] pur sapendo che si farà scudo dell’immunità parlamentare”. L’ex militante dell’Autonomia romana, poi, al fattoquotidiano.it ha aggiunto: “Queste sono operazioni fatte a cicli costanti, ma viene da chiedersi quanto siano fatte coscientemente o meno. Certe persone non possono accettare, nonostante i pronunciamenti, che ci sia una targa che definisce fascista la strage di Bologna”.

Perché la vicenda di Ortona è stata messa in relazione alla strage di Bologna?
“In pratica si sostiene che, per liberare i palestinesi del Fronte popolare, si fa un attentato che aveva lo scopo di ricattare lo Stato ammazzando 85 persone. Lo Stato non ha liberato nessuno: Saleh Abu Anzeh, è uscito a scadenza dei termini, dopo 3 anni in cui si è fatto le carceri speciali e ha subito trattamenti altrettanti speciali. Lo stesso è accaduto a noi. È dunque un’affermazione falsa quella circolata secondo cui, subito dopo la strage di Bologna, il palestinese fu liberato. E poi dico questo: io voglio fare l’ergastolo, altro che qualche anno, se per liberare me e altre 2 o 3 persone se ne devono uccidere 85 in una stazione”.

In merito invece a presunti contatti tra l’Autonomia e la colonna veneta delle Br in funzione palestinese?
“Noi in contatto con le Br? E perché poi? Per far avere ai palestinesi magari dell’esplosivo? Chiunque c’era in questi anni e conosca cos’è accaduto sa che la situazione era diversa. I palestinesi ciò di cui avevano necessità ce l’avevano, non eravamo noi che dovevamo rifornirli. Chi delinea oggi scenari differenti però non è interessato alla plausibilità delle proprie affermazioni. Prima c’era Cossiga che sosteneva concetti analoghi, adesso ne sono venuti altri che tentano di occupare la scena pubblica. Quello che più mi preoccupa è che gente di sinistra abbia avallato tesi del genere a fronte delle quali non possiamo che presentare querele. Dal canto loro oggi i palestinesi non sono interessati a quello che si sta dicendo, hanno i loro problemi da risolvere, sia al loro interno che con Israele”.

Dunque un’eventuale “pista rossa” per Bologna non avrebbe fondamento?
“No, è fuori registro, fuori completamente. Hanno pure tirato in mezzo questa tedesca [Christa Margot Frohlich, la militante di sinistra arrestata nel 1982 a Fiumicino con dell’esplosivo e iscritta dalla procura di Bologna un anno fa nel registro degli indagati insieme a Thomas Kram nell’ambito degli accertamenti sulla pista palestinese, ndr], non ho mai capito perché. Di lei dicono che per fare un attentato come quello a Bologna arriva in città, si fa vedere e dà informazioni personali sul suo conto. Questa operazione porta da una parte sola: negare responsabilità politiche storicamente documentate. Insomma, in tutto questo, chiamare in causa Di Vittorio potrebbe essere un altro caso Valpreda a 32 anni di distanza. Lo ripeto: della sua esistenza ne siamo venuti a conoscenza qualche mese fa. Abbiamo cercato di capire chi potesse essere, se effettivamente avesse potuto avere qualche aggancio con il movimento, ma era sconosciuto. Nessuno ha quindi nemmeno saputo che era morto a Bologna”.

Strage di Bologna, “I depistaggi sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi”. Risposta a Enzo Raisi

Pubblichiamo la risposta di Sandro Padula alla replica e alle malevole insinuazioni che il deputato di Futuro e Libertà Enzo Raisi, amico della coppia Mambro-Fioravanti, gli aveva rivolto sul sito www.fascinazione.info (oppure qui), dopo un articolo che lo stesso Sandro aveva pubblicato su Ristretti orizzontirispreso su questo blog.

Nella replica Raisi fa apertamente il nome della vittima della strage di Bologna che a suo avviso poteva essere coinvolta in qualche modo nell’attentato: si tratta di Mauro Di Vittorio, 24 anni, originario del quartiere di Torpignattara a Roma. Un ritratto del giovane con simpatie di sinistra è stato proposto da Ugo Maria Tassinari sul suo blog (vedi qui). Ne consigliamo la lettura poiché dimostra quanto infondato, cinico e strumentale, sia stato il sospetto lanciato dal deputato finiano.

Aggiungiamo unicamente una postilla: troviamo davvero singolare il fatto che due persone che si fregiano di lavorare per un’associazione denominata “Nessuno tocchi Caino”, si dimenino al punto da sfoggiare un cinismo senza limiti che, pur di approdare (pretesa ovviamente legittima) alla revisione della propria condanna, si mostra disponibile a seminare senza scrupoli sul proprio cammino ulteriori capri espiatori. La ricerca della verità non consiste nel sostituire un capro espiatorio con un altro. Un simile atteggiamento dimostra che, almeno sul piano etico, la distanza con la cultura stragista è inesistente

 

Strage di Bologna: la ricerca della verità completa non giustifica l’avallo di nuovi depistaggi

di Sandro Padula
21 aprile 2012

Dopo il mio articolo intitolato “Fascicolo bis sulla strage di Bologna: la “pista palestinese” non regge e Raisi accusa la Procura” (Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2012)  si è aperto un dibattito su diversi siti Internet al quale ha partecipato, attraverso una replica articolata in cinque punti (vedasi sito www.fascinazione.info e qui), lo stesso parlamentare di Futuro e Libertà di cui avevo criticato il teorema.
Rispondo perciò punto per punto a Enzo Rasi, amico e portavoce della coppia Mambro & Fioravanti che a sua volta, nel quadro della battaglia per ottenere la libertà condizionale della donna ex militante dei Nar (vedasi «Le lettere (e una cena) a Giusva e Mambro: vi perdoniamo», Corriere della sera del 3 agosto 2008), alcuni anni fa fece amicizia con Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, la vittima della strage di Bologna che oggi secondo lo stesso Raisi potrebbe aver avuto qualcosa a che fare con quel crimine.

Primo punto
Le Br, organizzazione in cui ho militato nella seconda metà degli anni ’70 e fino al momento del mio arresto avvenuto nel novembre 1982, non hanno mai intrattenuto rapporti politici o d’altra natura con il gruppo di Carlos e neppure con il Fplp. Ciò premesso, per semplice amore della verità vanno corrette le numerose informazioni false e le inesattezze sostenute da Raisi.
Il parlamentare di Futuro e Libertà afferma che “all’interrogatorio con Cieri nel 2009 Carlos ha fatto scena muta e ha detto che parlava solo di fronte ad una commissione parlamentare”.
In realtà, pur non firmando nulla, Carlos fece un discorso al pm Cieri in riferimento alla strage di Bologna, poi riportato dalla stampa italiana, nel quale dichiarò in sintesi quanto segue:  «….  è roba della Cia, i servizi segreti italiani e tedeschi lo sanno bene». (Corriere della Sera, 26 aprile 2009). Questo fatto, cioè l’assenza di una “scena muta”, è dato per certo a pagina 158 del “Dossier strage di Bologna”, un libro scritto da Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro, François de Quengo de Tonquédec, persone amiche di Enzo Raisi e pubblicizzato da quest’ultimo il 10 settembre 2011 nel corso di un meeting di Futuro e Libertà a Mirabello.

Secondo punto
L’onorevole Raisi asserisce che nessun paragone sarebbe mai stato fatto sulla compatibilità del materiale sequestrato alla Frolich all’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e quello usato nella strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Una recente notizia di stampa, pubblicata proprio sul quotidiano bolognese al quale Raisi spesso rilascia delle interviste, fornisce sulle indagini condotte una versione molto diversa: “dalla comparazione tra i documenti sulla qualità degli esplosivi utilizzati dal gruppo del terrorista Carlos e le perizie sull’esplosivo usato per l’attentato del 2 agosto 1980 non è, al momento, risultata alcuna immediata compatibilità. Quella della comparazione sulla qualità degli esplosivi era una delle strade che vengono seguite nell’inchiesta bis sulla strage della stazione. Una strada che al momento quindi non registra novità. Il pm Enrico Cieri aveva chiesto ed ottenuto delle autorità francesi i documenti sulla qualità dell’esplosivo utilizzato dal gruppo dello Sciacallo. Parimenti negativa sarebbe stata la comparazione fatta con la qualità dell’esplosivo che Margot Frohlich (indagata nell’inchiesta assieme a Thomas Kram) aveva in una valigia quando fu arrestata a Fiumicino nell’82.” (Resto del Carlino, 6 aprile 2012).
Come se non bastasse, la natura dell’esplosivo trovato alla Frolich è nota da molto tempo anche ai principali teorici della “pista palestinese”. In una interpellanza urgente si affermava: “il 18 giugno 1982, quindi due anni e mezzo dopo le stragi di Ustica e Bologna e due anni prima della strage del 904, all’aeroporto di Fiumicino veniva fermata per un controllo la cittadina tedesca Christa Margot Frolich trovata in possesso di una valigia contenente due detonatori e tre chili e mezzo di miccia detonante, contenente esplosivo ad alta velocità di tipo Pentrite, una sostanza detonante che entra nella composizione del Semtex”. (Interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664).
Come è altresì noto, l’ordigno impiegato per la strage di Bologna non era costituito da esplosivo di tipo Pentrite ma “da un esplosivo contenente gelatinato e Compound B” (sentenza secondo processo di Appello sulla strage di Bologna, 16 maggio 1994). E il Compound B, una miscela di tritolo e T4, è roba della Nato.

Terzo punto
Smentito anche dal suo amico Gabriele Paradisi sulla circostanza che avrebbe visto Carlos vivere a Parigi nel 1980, come aveva affermato sul Resto del Carlino dell’8 aprile 2012, il parlamentare futurista dieci giorni dopo tenta di salvarsi in corner sostenendo che Carlos  “a Parigi aveva un gruppo operativo della sua organizzazione denominata Separat.”
Una presenza stabile in Francia di un nucleo del gruppo Carlos, per altro già ristretto ad un numero molto limitato di componenti, non ha mai trovato conferma nelle lunghe indagini condotte dalla polizia francese. Forse Raisi, sbagliando comunque le date, voleva fare riferimento al periodo di detenzione nel carcere di Fresnes di due esponenti del gruppo Carlos: Bruno Breguet e Magdalena Kopp, detenuti dal febbraio 1982 al maggio e settembre 1985.
Fin qui nulla di nuovo dunque. Si tratta della solita rimasticatura di alcuni elementi utilizzati per dare corpo al depistaggio che vorrebbe orientare le nuove indagini verso la “pista palestinese”. A tale proposito va ricordato che l’Olp, di cui faceva parte integrante il pur critico e marxista Fplp, considerava un piccolo passo positivo la dichiarazione del Consiglio europeo di Venezia del 13 giugno 1980, contestata solo dagli Usa e dal governo israeliano, a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Non vi era dunque alcuna ragione di colpire obiettivi italiani da parte di chi aderiva all’Olp.

Quarto punto
La vera novità stavolta è il cinico coinvolgimento da parte di Raisi e dei suoi mandanti di una delle vittime della strage: Mauro Di Vittorio.
Perché proprio Di Vittorio? Semplice: era romano e simpatizzava col “Movimento” di quegli anni. Attribuendogli una precisa identità politica, ovvero quella di militante di Autonomia operaia romana, Raisi intende richiamare ancora una volta la “pista palestinese” che si regge sull’assunto che qui cito: “Ricordo che Pifano e altri componenti del gruppo di Via dei Volsci, autonomia romana, furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona per i famosi missili che appartenevano all’Fplp e al gruppo Separat, cioè al gruppo di Carlos.
A quanto risulta, tre autonomi del collettivo del Policlinico (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Lusiano Nieri) furono arrestati nel novembre 1979 e poi condannati per il trasporto di due lanciamissili (non i missili) che appartenevano esclusivamente all’Fplp, erano smontati e dovevano essere spediti in Medioriente.
Inoltre il cosiddetto gruppo di Carlos si chiamava Ori (Organizzazione dei rivoluzionari internazionalisti) e non certo Separat (vedasi “A Bologna a colpire furono Cia e Mossad”, Corriere della sera del 23 novembre 2005 ).
Infine, a differenza di quanto sostiene Raisi, quei tre autonomi non “furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona”. Abu Anzeh Saleh fu “fermato a Bologna una settimana dopo l’arresto degli autonomi” (pagina 25 del “Dossier strage di Bologna” scritto dagli amici di Raisi).
La vicenda è sufficientemente nota e chiara come quella connessa allo strumentale tentativo del generale Dalla Chiesa che, tanto per produrre un nuovo teorema accusatorio corollario del 7 aprile, fece pressioni su Saleh affinché dichiarasse che quei lanciamissili servivano ad Autonomia in Italia. Ciò detto, non risulta minimamente che il ventiquattrenne Mauro Di Vittorio avesse mai fatto parte del Collettivo del Policlinico in cui militavano i tre autonomi arrestati ad Ortona.
Dalle cronache dell’epoca si evince che era un giovane del Movimento di quegli anni. Al funerale venne salutato dai compagni e dalle femministe del suo quartiere, Tor Pignattara. Una scheda biografica è presente sul sito dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. Il tentativo di coinvolgerlo è dunque una volgare azione di sciacallaggio, in particolare se si tiene conto del fatto che la sorella di Di Vittorio fece passi significativi in favore della coppia Mambro-Fioravanti. Il livello di strumentalizzazione a questo punto raggiunge vertici di cinismo abissale.
Perché tutto questo? Pur di arrivare alla revisione del processo, i due ex militanti dei Nar insieme a Raisi sono disposti a gettare fango in ogni direzione, creando così ennesimi capri espiatori.

Quinto punto
Nel 1983, quasi un anno dopo il mio arresto, conobbi la detenuta Christa Margot Frolich tramite posta controllata dalla censura del carcere. Lei si trovava in cella con una mia coimputata, non parlava affatto bene la lingua italiana, non era mai stata una ballerina, non aveva figli e nel 1980 aveva 38 anni. In altre parole, Christa Margot Frolich non era per niente l’ex ballerina e donna madre tedesca che nell’agosto 1980 fu vista frequentare un albergo di Bologna e che, secondo i testimoni, conosceva alla perfezione la lingua italiana.
Lo stesso discorso vale per Kram. A parte le sue idee politiche antitetiche allo stragismo, un tipo come lui – secondo i documenti anagrafici ben conosciuti da teorici della “pista palestinese” come gli autori di “Dossier strage di Bologna” – non sarebbe certo passato inosservato nella stazione di Bologna del 2 agosto 1980 se avesse lasciato la valigia della strage nella sala d’attesa della seconda classe in cui scoppiò.
“Poco prima dell’esplosione — ha detto Rolando Mannocci alla figlia e al fratello accorsi al suo capezzale — ho notato due giovani aggirarsi nella sala. Li ho seguiti per un po’ con lo sguardo. Ho visto che hanno posato un qualche cosa, forse una valigia, proprio nell’angolo dove dieci minuti dopo è avvenuta l’esplosione. Non mi sono insospettito, non c’era alcun motivo perché lo dovessi essere. Erano due come tanti altri. Invece forse…». (La Stampa del 4 agosto 1980).
I giovani, per essere tali, debbono almeno avere un’età sotto i 30 anni. Per poi considerarli “come tanti altri” dovrebbero avere un’altezza media di circa 1 metro e 65 per le ragazze e di circa 1 metro e 75 per i ragazzi.
Tutto ciò significa, a rigor di logica, che Thomas Kram – alto quasi due metri e allora trentaduenne – non era certo uno dei “giovani” – “due come tanti altri” – visti da Rolando Mannocci all’interno della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 mentre posavano qualcosa nell’angolo in cui avvenne l’esplosione.
Infine vorrei ricordare a Raisi che la legittima ricerca della verità completa sulla strage di Bologna, che persone come me hanno sempre appoggiato, è cosa diversa dall’avallare depistaggi che di fatto sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi.

Link
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Stazione di Bologna, una strage di depistaggi
Il paradigma vittimario

Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi (Fli) tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese

Sciacallaggio. Non c’è altro termine per definire il nuovo tentativo di depistaggio sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 messo in piedi dal deputato finiano Enzo Raisi, già membro della commissione Mitrokin. In un articolo apparso l’8 aprile scorso sul Resto del Carlino Raisi, che annuncia l’uscita per la prossima estate di un suo libro sulla vicenda, non soddisfatto per gli scarsi esiti fino ad oggi forniti dalla “pista palestinese” punta l’indice accusatorio addirittura su una delle vittime della strage.

«Una delle vittime della bomba – afferma il deputato postfascista – era un ragazzo di Autonomia operaia. Ho saputo da alcune testimonianze che il giorno dopo, nella sala autopsie, andarono due persone, un giovane mediorientale e una ragazza. Passarono in rassegna i corpi e, quando videro il ragazzo, si guardarono in faccia, si spaventarono e tirarono dritto. Un maresciallo dei carabinieri vide tutto e li chiamò, ma loro uscirono di corsa e sparirono. Chi erano quei due? E perché il ragazzo di Autonomia operaia aveva in tasca un biglietto della metrò di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?».

Lo scenario a cui allude il parlamentare di Futuro e libertà è più che palese. Al giovane rimasto vittima dell’attentato, che secondo quanto lascia intendere Raisi sarebbe in qualche modo coinvolto nell’esplosione, si attribuisce una identità politica ben precisa, quella di Autonomia operaia. Siccome i depistatori fautori della pista palestinese hanno sempre sostenuto che l’attentato fosse frutto di una rappresaglia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash a causa dell’arresto di un suo membro (e dunque della violazione del Lodo Moro), insieme a tre militanti dell’Autonomia romana legati a via dei Volsci e al Collettivo del Policlinico, durante il trasporto di un lanciarazzi che doveva essere imbarcato nel porto di Ortona in direzione Medioriente, con la chiamata in causa del “ragazzo di Autonomia operaia” ritrovato dilaniato sotto le macerie della stazione il cerchio verrebbe a chiudersi.
Nella ricostruzione scenografica fatta da Raisi ci sono tutti gli ingredienti: si accenna ad un mediorientale e ad una ragazza che dopo aver scoperto all’obitorio il corpo del giovane ripresisi dalla sorpresa avrebbero preso la fuga come se avessero avuto qualcosa da nascondere.

Il cinico tentativo di coinvolgere il “ragazzo di Autonomia operaia” non regge. Per giunta Raisi, tentando di creare un legame tra il ragazzo e Carlos per il solo fatto di aver avuto in tasca un biglietto della metro per Parigi, commette un errore plateale perché nel 1980 Carlos non aveva più base in quella città. Aveva abbandonato la capitale francese dove era ricercato fin dal 1975 dopo aver ucciso un confidente doppiogiochista dei Servizi francesi e due funzionari sempre dei Servizi che erano venuti ad arrestarlo. Quegli stessi Servizi che non cessarono di dargli la caccia per decenni e lo catturarono “comprandolo” con uno stratagemma dalle autorità del Sudan dove Ilic Ramirez Sanchez aveva trovato il suo ultimo rifugio.

Riportiamo più avanti i passaggi salienti di un articolo di Sandro Padula apparso su Ristretti Orizzonti che mostra l’infondatezza e la natura strumentale di questa tesi.

A noi interessa sottolineare un’altra cosa, ovvero come la squallida sortita di Raisi introduca una fase nuova nell’uso strumentale della figura delle vittime, e dei loro familiari, rimaste colpite nelle stragi oppure sul versante opposto nelle azioni della lotta armata di sinistra.

– Iniziò il Pci che mise a disposizione i suoi avvocati (lo studio legale di Fausto Tarsitano) per sostenere le parti civili durante i maxi processi di fine anni 70 e 80 contro i militanti della lotta armata. In questo modo il partito di Botteghe oscure si intrometteva nei processi cercando di condizionarli, sopratutto orientando indagini e giudizi in senso dietrologico.

– Ci fu poi la fase querulenta nella quale, una volta conclusosi alla fine degli anni 80 il ciclo politico della lotta armata, sempre il Pci-Pds insieme con importanti gruppi editoriali come Repubblica, autodecretatisi rappresentanti delle vittime le utilizzavano come pretesto per rinviare o anteporre ad ogni discorso o proposta di soluzione politica e percorso amnistiale l’assenza di una legge sul risarcimento e il riconoscimento dei danni inferti alla vittime di stragi e terrorismo. Vulnus legislativo prorogato per diverse legislature.

– Nella terza fase, introdotta una legislazione ad hoc, sono state costituite ed hanno trovato ampio riconoscimento le associazioni dei familiari (lottizzate anche politicamente), fino all’instaurazione di una giornata della memoria (9 maggio) sotto il patrocinio della presidenza della Repubblica, l’attribuzione alle associazioni ufficiali dei familiari di un ruolo nell’amministrazione della memoria pubblica, nella gestione degli archivi, nella costruzione di una storia ufficiale. In questa fase, all’interno di quello che gli esperti definiscono un processo di privatizzazione della giustizia, alla figura dei familiari è stato attribuito anche un ruolo centrale nella esecuzione pena dei condannati. A loro infatti le magistrature di sorveglianza delegano la decisione sulle concessioni delle liberazioni condizionali per gli ergastolani.

– La sortita di Raisi rappresenta l’ultimo stadio di questo percorso che ha visto lo Stato utilizzare sistematicamente le vittime come uno scudo dietro il quale nascondersi, celare le proprie responsabilità, camuffarle. Con Raisi le vittime delle stragi diventano anche causa della loro tragedia, responsabili della loro morte. La strumentalizzazione giunge così ad un punto di vertigine estremo che permette allo Stato di assolversi completamente.

– C’è dell’altro da raccontare in questa vicenda ma attendiamo che sia il deputato Raisi a fare il nome, se ne ha il coraggio, del giovane morto nella strage e che insinua essere in qualche modo coinvolto nelle cause dell’esplosione.

Strage di Bologna, la “pista palestinese” non regge e Raisi (Fli) accusa le vittime di essersi autoattentate

di Sandro Padula

Ristretti Orizzonti 16 aprile 2012

[…]
Raisi «non accetta la verità secondo cui, in base a quanto riportato dagli stessi documenti forniti dalle autorità francesi e italiane, l’esplosivo utilizzato per la strage del 2 agosto non è compatibile con quello che sarebbe stato usato – per altro alcuni anni dopo – dal cosiddetto gruppo Carlos in Francia e con quello trovato in una valigia della Frohlich quando quest’ultima, nel 1982, fu tratta in arresto a Fiumicino.

[…]
Inoltre «le organizzazioni palestinesi – specie dopo la riunione a Venezia del Consiglio europeo che il 13 giugno elaborò una dichiarazione a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese – non avevano neanche il benché minimo motivo per compiere un attentato stragista a Bologna».

[…]
«Il giovane – come riportano le cronache di alcuni giornali dell’epoca dopo il riconoscimento del suo cadavere – si era sostituito al  padre deceduto per aiutare la madre e la famiglia. Aveva intrapreso delle attività lavorative in giro per l’Italia e a Londra e, senza dubbio, nel 1980 non aveva più il tempo libero per effettuare una qualche forma di attività politica.

[…]
Come tutti sanno o dovrebbero sapere, dopo la strage del 2 agosto furono svolte anche delle indagini per capire se fra le vittime ci fossero dei possibili responsabili del crimine. Non se ne trovò nessuno fra quelle decedute e, anni dopo, ne fu trovato solo uno fra le persone ferite. Si chiamava Sergio Picciafuoco  […] pochi ricordano che in carcere, durante il processo di appello che si svolgeva a Bologna ed in cui era imputato, Picciafuoco ricevette un significativo aiuto dal faccendiere e depistatore reaganiano Francesco Pazienza, ex dirigente del Sismi. Nella sentenza del processo d’Appello datata 18 luglio 1990 si parla infatti della “memoria indirizzata dal Pazienza al Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. In essa riferiva il Pazienza di avere appreso dal Picciafuoco che costui, nel 1985, essendo detenuto all’Asinara, aveva potuto incontrare “tre misteriosi personaggi” che gli avevano promesso due o tre miliardi ed un passaporto per espatriare in Sudamerica, in cambio di una conferma da parte sua delle “assai improbabili teorie sviluppate dal G.I. e dal P.M. di Bologna”.
Queste rivelazioni il Picciafuoco le aveva fatte durante una pausa delle udienze innanzi alla Corte di Assise di Bologna. Interpellato in merito al contenuto della lettera del Pazienza, il Picciafuoco confermava le cose riferite …” .
Grazie anche a quella memoria scritta da Francesco Pazienza, Picciafuoco venne assolto dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna del suddetto processo. E la sua posizione giudiziaria, condizionata da alterne vicende, cinque anni dopo fu stralciata per passare sotto la competenza di un tribunale di Firenze, dove alla fine trovò la più completa assoluzione.

Per saperne di più
Stazione di Bologna, una strage di depistaggi

#Strage di #Bologna, #Raisi replica a #Padula. E spunta il nome del compagno morto

Fascinazione,18 aprile 2012

L’on. Enzo Raisi ha tempestivamente replicato all’intervento di Sandro Padula sulla strage di Bologna e le nuove piste investigative. Per l’occasione, tra l’altro, spunta per la prima volta il nome del “giovane compagno romano” morto nell’esplosione.

Rispondo punto per punto al signor Padula già marito della signora Frolich:

 1) Falso, all’interrogatorio con Ceri nel 2009 Carlos ha fatto scena muta e ha detto che parlava solo di fronte ad una commmissione parlamentare. Infatti le dichiarazioni dell’altro giorno con le quali Carlos si dichiarava finalmente disponibile a parlare con i giudici sono una novità, una importante novità.

2) Falso. Nessun paragone è mai stato fatto sulla compatibilità del materiale esplosivo sequestrato alla moglie di Padula, la signora Frolich, all’aereoporto di Fiumicino e quella usata a Bologna. Non esistono documenti ufficiali in tal senso. Anzi fatto strano e clamoroso, il materiale esplosivo sequestrato alla Frolich è stato dato alle autorità francesi che stavano indagando su Carlos e mai più restituito.

3) Carlos il giorno della strage, secondo i documenti della commissione mitrokhin e specificatamente una nota della Stasi, agli atti della commissione,  il giorno della strage era in Germania. Ma a Parigi aveva un gruppo operativo della sua organizzazione denominata Separat. Sugli interessi di Carlos e Separat di fare o meno attentato a Bologna prego il sig Padula di leggersi relazione commissione Mitrokhin capitolo strage di Bologna, magari si ricorda qualcosa.

4) Io ho solo reso noto  un espisodio molto strano accaduto all’orbitorio di Bologna con tanto di testimoni. Due ragazzi di cui uno con sembianze mediorientali e una ragazza, il giorno dopo la strage del 2 agosto, nel passare davanti al corpo del sig Mauro Di Vittorio si sono guardati e si sono scambiati uno sguardo di stupore. Poi si sono allontanati, il sottufficiale dei carabinieri maresciallo Ceccarelli ( faccio nome e cognome a scanso di equivoci )  ha cercato di chiamarli e questi si sono messi a correre e si sono allontanati: perchè è accaduto? Perchè nessuno l’ha mai raccontato? Ricordo che Pifano e altri commponenti del gruppo di Via dei Volsci, autonomia romana, furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona per i famosi missili che appartenevano all’Fplp e al gruppo Separat, cioè al gruppo di Carlos.

5) Sulle indagini fatte stenderei un velo pietoso come sulla vicenda del povero Picciafuoco, un ladruncolo sfigato che per trovarsi in un posto sbagliato al momento sbagliato si è fatto 20 anni di processi per poi essere assolto.Mai avuto rapporti con movimenti politici di nessun tipo. A differenza di Kram che quel giorno era alla stazione e nessuno ha mai indagato.

Capisco che il marito o ex marito della signora Frolich abbia tutto l’interesse a dire altro ma ci piacerebbe sapere ad esempio quando e dove ha conosciuto la Frolich prima di sposarla. Un tema interessante, se mi risponderà a questo quesito gli spiegherò anche perchè.

 Cordiali saluti

 On Enzo Raisi

Strage di Bologna, la “pista palestinese” non regge e Raisi (Fli) accusa la Procura

strage di Bologna, la “pista palestinese” non regge e Raisi (Fli) accusa la Procura 
di Sandro Padula

Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2012

Attraverso delle dichiarazioni rilasciate al quotidiano Il Resto del Carlino dell’otto aprile (2012), l’onorevole Enzo Raisi (Futuro e Libertà) lancia numerose accuse rispetto alle modalità con cui la Procura di Bologna sta affrontando il fascicolo bis sulla strage del 2 agosto 1980.
Critica il procuratore capo Roberto Alfonso perché quest’ultimo si sarebbe limitato a chiedere una rogatoria alle autorità competenti per ascoltare Christa Margot Frohlich e Thomas Kram, i due cittadini tedeschi indagati in riferimento alla “pista palestinese”. A dispetto di ogni minima cognizione del diritto nazionale e internazionale, afferma che la Procura avrebbe dovuto spiccare dei “mandati di cattura” verso la Frohich e il Kram. 
A differenza del procuratore capo di Bologna, pretende altresì che Carlos, detenuto in Francia, sia ascoltato. Finge così di non sapere che, in un interrogatorio del 2009 condotto dal pm Enrico Cieri, lo stesso Carlos ha già parlato di una pista alternativa a tutte quelle finora avanzate sulla strage del 2 agosto 1980 e, nello specifico, della possibile e diretta responsabilità di settori particolari dei servizi segreti degli Usa e di Israele, un po’ come successe con la strage compiuta dal finto anarchico Gianfranco Bertoli davanti alla Questura di Milano il 17 maggio 1973.
Raisi non accetta inoltre la verità secondo cui, in base a quanto riportato dagli stessi documenti forniti dalle autorità francesi e italiane, l’esplosivo utilizzato per la strage del 2 agosto non è compatibile con quello che sarebbe stato usato - per altro alcuni anni dopo - dal cosiddetto gruppo Carlos in Francia e con quello trovato in una valigia della Frohlich quando quest’ultima, nel 1982, fu tratta in arresto a Fiumicino.
Come se non bastasse, propone un ulteriore scenario: “Una delle vittime della bomba era un ragazzo di Autonomia operaia. Ho saputo da alcune testimonianze che il giorno dopo, nella sala autopsie, andarono due persone, un giovane mediorientale e una ragazza. Passarono in rassegna i corpi e, quando videro il ragazzo, si guardarono in faccia, si spaventarono e tirarono dritto.
Un maresciallo dei carabinieri vide tutto e li chiamò, ma loro uscirono di corsa e sparirono. Chi erano quei due? E perché il ragazzo di Autonomia operaia aveva in tasca un biglietto della metro di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?”. (Il Resto del Carlino, 8 aprile 2012).
In realtà, nel 1980 Carlos non viveva in Francia, paese da cui era fuggito nel 1975 dopo una sparatoria conclusasi con la morte di due poliziotti, e le organizzazioni palestinesi - specie dopo la riunione a Venezia del Consiglio europeo che il 13 giugno elaborò una dichiarazione a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese - non avevano neanche il benché minimo motivo per compiere un attentato stragista a Bologna.
Questa è la verità storica. Non sembrerebbe perciò necessario dover aggiungere altro a commento delle fantasie di Raisi ma tutte le bugie vanno sempre contrastate in tempo prima che diventino un ulteriore depistaggio. Per questo motivo dobbiamo dire a chiare lettere che le affermazioni raisiane costituiscono dei sospetti privi di fondamento.
Il ragazzo morto a cui si riferisce il parlamentare di Futuro e Libertà forse era stato un giovane del movimento del 1977. In ogni caso, stando a quanto riportarono alcuni quotidiani allorché fu riconosciuto il suo cadavere, sostituì il padre deceduto per aiutare la madre e la famiglia, intraprese delle attività lavorative in giro per l’Italia e a Londra e, senza dubbio, nel 1980 non aveva più il tempo libero per effettuare una qualche forma di attività politica.
Come tutti sanno o dovrebbero sapere, dopo la strage del 2 agosto furono svolte anche delle indagini per capire se fra le vittime ci fossero dei possibili responsabili del crimine. Non se ne trovò nessuno fra quelle decedute e, anni dopo, ne fu trovato solo uno fra le persone ferite. Si chiamava Sergio Picciafuoco ed era un personaggio, proprio come Bertoli, dal carattere fragile e dalla mentalità mercenaria. Al di là di queste caratteristiche, suscettibili di essere poco precise, contano comunque i fatti. Ad esempio, pochi ricordano che in carcere, durante il processo di appello che si svolgeva a Bologna ed in cui era imputato, Picciafuoco ricevette un significativo aiuto dal faccendiere e depistatore reaganiano Francesco Pazienza, ex dirigente del Sismi. 
Nella sentenza del processo d’Appello datata 18 luglio 1990 si parla infatti della “memoria indirizzata dal Pazienza al Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. In essa riferiva il Pazienza di avere appreso dal Picciafuoco che costui, nel 1985, essendo detenuto all’Asinara, aveva potuto incontrare “tre misteriosi personaggi” che gli avevano promesso due o tre miliardi ed un passaporto per espatriare in Sudamerica, in cambio di una conferma da parte sua delle “assai improbabili teorie sviluppate dal G.I. e dal P.M. di Bologna”.
Queste rivelazioni il Picciafuoco le aveva fatte durante una pausa delle udienze innanzi alla Corte di Assise di Bologna. Interpellato in merito al contenuto della lettera del Pazienza, il Picciafuoco confermava le cose riferite …” .
Grazie anche a quella memoria scritta da Francesco Pazienza, Picciafuoco venne assolto dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna del suddetto processo. E la sua posizione giudiziaria, condizionata da alterne vicende, cinque anni dopo fu stralciata per passare sotto la competenza di un tribunale di Firenze, dove alla fine trovò la più completa assoluzione.
Diversi indizi e troppe coincidenze facevano supporre che Picciafuoco, latitante per circa dieci anni prima dell’arresto avvenuto nel 1981 e frequentatore di alcuni ambienti dell’estrema destra, potrebbe essere stato un collaboratore dei servizi segreti militari ma su questo punto nessuno fece delle approfondite indagini.
Tutto ciò significa che la verità giudiziaria sulla strage di Bologna cercò di avvicinarsi alla verità storica ma fu ostacolata in mille modi, anche dentro le carceri, dai depistatori di Stato e da persone a suo tempo imputate, ma ormai morte, come lo stesso Sergio Picciafuoco e Carlo Digilio, il tecnico delle stragi di Piazza Fontana e di Brescia che fu collaboratore dei servizi segreti militari Usa dal 1966 al 1982. 
Quest’ultimo a metà degli anni 90 si “pentì” e fece ampie confessioni esclusivamente rispetto ai reati che erano andati in prescrizione. Non certo rispetto a quelli per cui, come nel caso della strage di Bologna del 1980, avrebbe rischiato una lunga pena detentiva.

Strage di Bologna: la montatura della pista palestinese

Abu Saleh e i lanciamissili di Ortona
da http://www.arabmonitor.info

Amman, marzo 2009 – Abu Saleh, cittadino giordano, ora imprenditore, nel 1979 viveva in Italia e studiava all’Università di Bologna. Il 7 novembre di trent’anni fa era ad Ortona: doveva imbarcare per il Libano due lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica destinati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, di cui faceva parte.
Abu Saleh si fece aiutare da Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, i quali, all’oscuro della natura del carico, si prestarono a portare ad Ortona la cassa contenente i lanciamissili. Vennero tutti arrestati e condannati. Da qualche tempo quell’episodio viene periodicamente rievocato in Italia per tentare di collegarlo all’attentato di Bologna del 2 agosto 1980 e cercare di capire che tipo di legami esistessero all’epoca tra gli apparati dei servizi di sicurezza italiani e la resistenza palestinese. Arabmonitor ne ha parlato con lo stesso Abu Saleh.
Si dice che negli anni Settanta-Ottanta ci fosse un’intesa tra le autorità italiane e le organizzazioni palestinesi, perché l’Italia venisse risparmiata da operazioni palestinesi in cambio del libero transito di armi via Italia destinate appunto ai palestinesi.
“Io posso dire che c’era effettivamente un accordo ed era tra l’Italia e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Fu raggiunto tramite il Sismi, di cui il colonnello Stefano Giovannone, a Beirut, era il garante. Non era un accordo scritto, ma un’intesa sulla parola. Lui ci aveva dato la sua parola d’onore, come dite voi, e noi gli abbiamo assicurato che non avremmo compiuto nessuna azione militare in Italia, perché l’Italia non rivestiva alcun interesse militare per il Fronte, e anche perché il popolo italiano era noto come amico dei palestinesi. In cambio Giovannone ci riconobbe, diciamo, delle facilitazioni in base alle quali si concedeva al Fronte la possibilità di trasportare materiale militare attraverso Italia. L’accordo fu fatto nei primi anni Settanta tra Giovannone e un esponente di primissimo piano del Fronte, il quale è tuttora presente sulla scena pubblica e non voglio nominarlo. Tutte le volte che c’era un trasporto, Giovannone veniva avvisato in anticipo. Non ci dava mai una risposta subito, ma dopo un paio di giorni. Penso che prima consultasse i vertici del Sismi (prima Sid) a Roma”.

Quando ha conosciuto Stefano Giovannone ?
Nel 1974 a Beirut. L’Ambasciata italiana di Beirut non mi aveva dato il visto ed è intervenuto lui. Io ero già in Italia dal 1970. Ero iscritto all’Università di Bologna a scienze politiche. Il primo visto mi fu concesso dall’Ambasciata italiana ad Amman. A Beirut dissero che non era possibile rinnovarlo, perché ero cittadino giordano e dovevo farne richiesta ad Amman, ma noi del Fronte abbandonammo la Giordania dopo il 1970. Quindi non potevo tornare. Allora il Fronte popolare si rivolse a Giovannone, il quale risolse il problema velocemente.

Che tipo di persona era ?
Mi disse subito al primo incontro “Qualsiasi cosa ti possa servire, anche dei soldi, chiamami. Mi diede anche il suo numero riservato a Roma, perché si alternava tra Beirut e Roma. Quando lo chiamavo a Roma, e non c’era, dovevo lasciar detto: “Ha chiamato Gianni”. Mi richiamava da lì a poco. Nel 1975 alla Questura di Bologna mi comunicarono che non potevano rinnovarmi il foglio di soggiorno, perché il mio passaporto giordano era scaduto. Allora lo chiamai. Sistemò tutto in poche ore. Era sempre molto cordiale, disponibile. Ricordo che in quel periodo, grazie a lui, ricevemmo due borse di studio presso Università italiane per i ragazzi del Fronte popolare. Penso che lui non avesse mai rinunciato in quegli anni all’idea di reclutarmi per i servizi segreti italiani. Non mi spiego altrimenti la frequenza con cui usava ripetermi a non esitare a chiamarlo se mi fossi trovato in difficoltà economiche. Questo, comunque, non avvenne mai. Non mi dimenticherò che per tutto il periodo che sono stato in carcere ha continuato a ripetere ai compagni del Fronte: ‘State tranquilli. Verrà rilasciato. Abbiate fiducia in me. Datemi solo un po’ di tempo’.

Lei fu contattato da Giovannone durante il rapimento Moro?
Giovannone mi chiamò a Bologna già all’indomani del sequestro. ‘Puoi venire a Roma?’, mi fece. Gli risposi: ‘Prendo il treno domani’. ‘No, vieni in aereo, oggi’. Mi aspettava già in aeroporto, e ricordo bene il suo discorso. ‘Ti ho chiamato nella speranza che tu possa aiutarmi. Io faccio questo personalmente, perché sono molto amico di Moro. Tu sai quanto Moro abbia a cuore i palestinesi. Ti chiedo di contattare i responsabili del Fronte popolare e domandare se hanno qualche notizia sul rapimento?’. Gli dissi subito che noi non abbiamo nessun legame con le Brigate Rosse e io personalmente non conosco proprio nessuno delle BR, ma che avrei subito contattato Beirut. Da Beirut mi fecero sapere: come Fronte non abbiamo il benché minimo collegamento con le Brigate Rosse.

Ci può raccontare quello che avvenne a Ortona il 7 novembre 1979?
C’erano due lanciamissili, giunti in Italia da fuori, che Daniele Pifano e altri nostri amici ritirarono senza sapere cosa contenesse la cassa in cui erano chiusi. A loro fu richiesto di trasportarla a Ortona. Giovannone venne avvisato a Beirut che c’era un carico in transito. Fu l’unico trasporto in cui venni coinvolto. I lanciamissili dovevano essere caricati su una nave libanese a Ortona, diretta in Libano. Sulla stessa nave volevo imbarcare un carico di vestiti, acquistati a Bologna. L’appuntamento con Pifano e gli altri era ad Ortona. Non ci siamo, però, incontrati per una serie di incredibili sfortunate coincidenze. Io ho fatto caricare la mia merce e la nave è partita. Non ho visto arrivare nessuno. Non ho potuto chiamare nessuno. I cellulari allora non esistevano. Sono quindi rientrato a Bologna tranquillo e all’oscuro di quello che fosse successo. Non ho visto nessun motivo per scappare nemmeno dopo aver appreso del loro arresto. Le circostanze le venni a conoscere solo più tardi, in carcere. Loro, arrivando a Ortona, vennero notati in centro da alcuni metronotte, i quali, allarmati, chiamarono i carabinieri, perché proprio quel giorno in città ci fu una rapina in banca e c’era parecchia tensione in giro. Dissero ai carabinieri che erano diretti al mare, volevano prendere un traghetto. Vennero identificati, ma siccome il collegamento con la centrale di Roma era fuori servizio, non riuscirono a capire subito chi fossero. Allora ordinarono a loro di seguirli alla locale stazione e attendere. Dopo alcune ore il collegamento venne ripristinato. I carabinieri scoprirono che avevano a che fare con esponenti dell’Autonomia romana. Il furgone, già controllato in precedenza, venne nuovamente perquisito. Saltò fuori la cassa. Loro dissero che si trattava di cannocchiali che volevano usare durante la gita in mare.

Lei fu arrestato quando?
I carabinieri trovarono su uno di loro un foglietto con il mio numero di telefono a Bologna. Se ricordo bene, sei giorni dopo ero in giro per Bologna con degli ospiti sauditi, venuti per acquistare dei mobili. All’uscita da un’agenzia di viaggi, dove abbiamo prenotato il loro volo di ritorno, degli agenti in borghese ci circondarono, chiedendoci i documenti. Dopo il controllo, mi dissero ‘Tu vieni con noi’. I sauditi vennero lasciati subito. Perquisirono la mia abitazione in Via delle Tovaglie 33 e mi dissero ‘Trovati subito un avvocato’. Sotto di me c’era uno studio legale, andai a chiamare uno di loro. Ricordo che i carabinieri presero solo l’agenda telefonica. Al termine, mi caricarono in macchina e venni portato a Chieti al comando dei carabinieri. Mi chiusero in una stanza. Qualche ora dopo si presentò un alto ufficiale. Non mi disse il suo nome, ma penso che fosse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La mia è un’ipotesi. Vedendo la sua foto sui giornali successivamente, ho pensato che fosse stato proprio lui. Gli assomigliava molto. Mi interrogò e dopo mi disse ‘Ti faccio uscire subito da qui attraverso la porta sul retro se mi dici che i lanciamissili sono per gli autonomi. Tu sei straniero. Da te non voglio nulla. Ti diamo quello che vuoi, cittadinanza, soldi, ma devi dire che le armi sono per loro’. Gli risposi che non sapevo nulla di cui stesse parlando. Replicò secco: ‘Pensaci’, e se ne andò. Per tre giorni sono stato picchiato praticamente di continuo. Mi hanno sempre tenuto nudo, abbandonandomi su una tavola di legno, su cui mi lasciavano dormire un po’. Ricordo che mi è venuta una febbre molto alta. Allora mi hanno portato al carcere di Chieti, dove ho ricevuto le prime cure mediche.

Lei in quegli anni era il responsabile del Fronte popolare in Italia?
Assolutamente no. Ero uno dei membri del Fronte presenti in Italia.

Al processo fu condannato per il trasporto di armi.
Mi condannarono a sette anni, come tutti gli altri. Il processo fu celebrato per direttissima, dopo 40 giorni, nel gennaio 1980. Mio fratello, che stava in Italia, venne a trovarmi in carcere e mi disse che sarei stato rilasciato prima del processo, perché il Fronte ha ricevuto assicurazioni in tal senso, penso da Giovannone. Mi raccontò di un avvocato che da Beirut si era recato a Roma, verso la fine di dicembre, per degli incontri con alcuni rappresentanti italiani, forse lo stesso Giovannone. Comunque, io restai in carcere e al processo venni condannato.

Lei fu tuttavia l’unico a ottenere la libertà anticipata, già nel 1981.
Penso che sia stato Giovannone a intervenire per ottenere la mia scarcerazione per scadenza dei termini. Era in corso il processo di secondo grado all’Aquila e il mio avvocato non aderì alla richiesta di rinvio del dibattimento (giugno 1981) come fecero gli altri. Così il 14 agosto 1981 scattò la scadenza dei termini. Ricordo molto bene quel giorno, perché stavamo organizzando una festa per il mio compleanno, che è il 15, chiedendo del vino e dei dolci. Verso le undici di mattina mi convocano in direzione e mi comunicano che c’è il mandato di scarcerazione. Ricordo che chiesi di poter restare un altro giorno per festeggiare il compleanno coi compagni, ma rifiutarono. Uscito da Rebibbia, restai a Roma per qualche giorno con l’obbligo della firma e quindi tornai a Bologna.

Durante la detenzione non è mai stato interrogato in relazione a qualche altro fatto avvenuto in quegli anni?

Sì, ricordo un episodio curioso. E’ venuto Domenico Sica a interrogarmi. Ero appena stato trasferito da Trani a Regina Coeli. Mi chiese se conoscessi Ali Agca? Quando gli feci ‘E’ una nuova accusa?’, mi rispose ‘Non pensarci nemmeno, è solo per capire.Vedi che non scrivo nulla’.

Ha, poi, completato gli studi a Bologna?
Sì, nel luglio 1983. Lo stesso mese ho lasciato l’Italia, partendo da Fiumicino per il Medio Oriente. Nemer Hammad (allora ambasciatore palestinese a Roma) mi disse già poco dopo la mia scarcerazione ‘Ti consiglio di partire il più presto che puoi. Quando vuoi andare, le autorità italiane chiuderanno un occhio”. Così è stato. Non sono più tornato.

Ci sono persone in Italia che mettono in relazione il suo caso con la bomba alla stazione di Bologna, sostenendo che il suo mancato rilascio, tra la fine del 1979 e la prima metà del 1980, spinse i palestinesi, cioè il Fronte popolare, a organizzare l’attentato.
Io seppi dell’attentato in carcere e posso dirle che ero più dispiaciuto degli stessi italiani. Ho vissuto molti anni a Bologna e ho conosciuto personalmente delle gente meravigliosa. Noi come palestinesi abbiamo ricevuto molta solidarietà e il Fronte popolare ha avuto molti aiuti dal popolo italiano. Mi meraviglio che si voglia ignorare la verità soprattutto quando a sostenere queste falsità sono delle personalità che avevano accesso a numerose informazioni, anche riservate. Smentisco nel modo più assoluto che prima dell’attentato ci fossero delle tensioni tra l’Italia e il Fronte popolare per via del mio caso. Giovannone era rimasto per tutto il tempo in contatto con i nostri responsabili a Beirut, tranquillizzandoli e ripetendo ‘Bisogna ridurre l’intensità della fiamma per poter spegnere il fuoco’. Cercare di accreditare la tesi che la mia detenzione abbia spinto il Fronte popolare a una rappresaglia, è una menzogna colossale. Si tratta di un tentativo di riscrivere la storia.

In un’intervista concessa tempo fa a un autorevole quotidiano italiano, Bassam Abu Sharif sostiene che il Fronte popolare di tanto in tanto forniva aiuto a piccoli militanti, “non gente importante”, delle Brigate Rosse che stavano scappando, e racconta che il colonnello Giovannone veniva a protestare da lui per questo.
Vede, Bassam Abu Sharif negli anni Settanta era semplicemente uno dei responsabili del settore dell’informazione al Fronte popolare. Non aveva nessun potere decisionale, né responsabilità operative. Non poteva avere rapporti con i servizi segreti italiani. Sfido Abu Sharif a dimostrare di aver incontrato il colonnello Giovannone per un colloquio anche una volta sola o di aver fornito documenti a gente delle Br in fuga dall’Italia. Sarà l’effetto dei lunghi anni trascorsi. La memoria che inganna o il desiderio di apparire più di quello che si era.

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