Il segreto di Guido Rossa

L’appartenenza all’apparato riservato del Pci e il lavoro informativo all’interno della fabbrica

Il 24 gennaio 1979 Guido Rossa, militante del Pci e sindacalista della Fiom-Cgil all’interno degli stabilimenti dell’Italsider di Genova-Cornigliano, rimase ucciso in un’azione della colonna genovese delle Brigate rosse che inizialmente prevedeva soltanto il suo ferimento. Tre mesi prima della sua uccisione, il 25 ottobre 1978, Rossa aveva denunciato un operaio dell’Italsider, Francesco Berardi, scoperto mentre diffondeva all’interno della fabbrica volantini della Brigate rosse (leggi qui il verbale della denuncia).
Rossa era una figura importante all’interno della fabbrica, portavoce della linea ufficiale del Pci all’interno dell’azienda, svolgeva per conto del suo partito anche un incarico molto speciale. Ecco il ritratto che ne fece un suo compagno di lavoro:
«In fabbrica rappresentava il potere sindacale. Di indole schiva e modesta, non voleva apparire uomo di comando, pur esercitandolo con molta fermezza e autorità. Era conosciuto molto dagli addetti ai lavori, i dipendenti politicizzati e sindacalizzati, ma non dalla massa delle maestranze, stando poco in mostra. Non prendeva mai la parola nelle assemblee generali. Ma dentro il Consiglio di fabbrica, tra i delegati, era un numero Uno; dettava legge, incuteva quasi soggezione ai delegati che lo consideravano portatore del verbo di Enrico Berlinguer e Luciano Lama. Il reparto dove Rossa svolgeva il suo lavoro, l’officina di manutenzione, era la Stalingrado dello stabilimento. Il reparto più rosso, dominatondagli attivisti del Pci. Come una nicchia protetta, nel suo seno, in un sottoscala stava il piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti di precisione. Lì, Guido Rossa operava con molta libertà».1

I taccuini
Nel libro che ricostruisce la storia di suo padre, Sabina Rossa racconta una scoperta importante: il ritrovamento di alcuni taccuini che un suo compagno di lavoro e di sindacato aveva conservato per anni: «Ecco, sono tutte cose di Guido. Ero presente nello spogliatoio della fabbrica il giorno in cui, subito dopo l’attentato, la polizia aprì il suo armadietto. Trovarono questi documenti, avevo paura che andassero perduti e li presi in custodia. Li ho conservati fino ad oggi, per quasi trent’anni. Ma adesso è giusto che li abbia tu».2
I notes erano cinque, enormi – scrive Sabina Rossa – «E sulla copertina di ognuno era segnato un anno: sul primo il 1974, sull’ultimo 1978. Per cinque anni, anno per anno, con la sua grafia pulita e ordinata, papà aveva annotato con estrema precisione tutti i fatti sindacali dell’Italsider, con tanto di tabelle zeppe di dati ed elenchi di nomi… […] Per cinque anni aveva annotato, quasi giorno per giorno, con maniacale pignoleria, ogni cosa che avesse a che fare con l’attività sindacale all’interno della fabbrica. Organici. Livelli di avanzamento e anzianità. Qualifiche. Mansioni. Orari di lavoro. Paga. Nuovi assunti, loro provenienza e inquadramento. Ferie. Assenze giornaliere e richieste di rimpiazzo… In cinque anni papà aveva ricostruito il quadro della situazione, dipendente per dipendente. E di ognuno conosceva anche numeri di matricola e di patente, e di alcuni persino l’esito di «visite psicoterapeutiche». Non c’era nulla che fosse sfuggito alla sua attenzione. Ho pensato – prosegue ancora Sabina Rossa – che forse quei notes potevano essere riletti anche da un altro punto di vista. Non dovevo cercare grandi rivelazioni che sarebbe stato impossibile trovare fra quegli appunti. Ma dovevo capire perché mio padre aveva fatto quel lavoro, per cinque anni, con pazienza certosina e metodo scientifico».3

Intelligences di fabbrica, Guido Rossa e la struttura riservata del Pci
Proseguendo il suo coraggioso lavoro di scoperta della attività riservate del padre, Sabina Rossa incontra prima il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo che ebbe un ruolo importante nei nuclei speciali creati dal generale Alberto Dalla Chiesa di cui fu uno stretto collaboratore:
«Dalla Chiesa – spiega il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo».4
La successiva testimonianza di Bisso, raccolta sempre da Sabina Rossa, è rivelatrice della speciale missione che Guido Rossa conduceva in fabbrica:
«[…] Quell’esperienza si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».5

Note
1 Intervento di Pierluigi Baglioni, impiegato dell’Italsider, in Guido Rossa mio padre, Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Bur, pp.149-150, 2006.
2 Ivi, p. 145.
3 Ivi, pp. 145-148.
4 Ivi, p. 141.
5 Ivi, pp. 158-159.

Sabina Rossa: «Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre»

In un libro Sabina Rossa rivelava l’incontro con uno dei militanti delle Br che avevano sparato a suo padre. Oggi afferma: «Ha scontato la sua pena, deve essere scarcerato»

Giorgio Ferri
Liberazione
, giovedì 16 ottobre 2008

Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano, sindacalista della Cgil e militante del Pci ucciso nel corso di un’azione realizzata dalla colonna genovese delle Brigate rosse, ha chiesto alla magistratura di sorveglianza di riconsiderare la decisione che ha portato al rifiuto di concedere la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, 31 anni di carcere sulle spalle, anche lui ex operaio della Fiat, poi della Magneti Marelli, e membro del gruppo di fuoco che la mattina del 24 mini_sabina_rossagennaio 1979 colpì suo padre. «Ho incontrato Vincenzo Guagliardo quando era in regime di semilibertà e credo di poter testimoniare a favore del suo ravvedimento», ha dichiarato la senatrice del Pd, aggiungendo di voler «parlare con il giudice perché possa riconsiderare la sua decisione». Guido Rossa venne colpito dopo aver denunciato e fatto arrestare dai carabinieri un altro operaio, Francesco Berardi, suo compagno di lavoro, sospettato di diffondere volantini delle Br in fabbrica e poi morto suicida nel carcere speciale di Cuneo. L’episodio fu uno dei momenti più drammatici e laceranti della storia di quegli anni. Mise a nudo la profondità di un conflitto che arrivava fin nel cuore più rosso e combattivo della classe operaia e segnò uno dei punti di crisi maggiore nella strategia brigatista.
La scelta di colpire Rossa fu molto dibattuta all’interno delle Br, consapevoli dei rischi politici che quell’azione comportava per la loro organizzazione. Dopo aver scartato per ragioni operative l’ipotesi del rapimento incruento, i brigatisti optarono per il ferimento ma qualcosa andò male quella mattina. L’inchiesta giudiziaria accertò che Guagliardo aprì il fuoco solo per ferire il sindacalista. Dietro di lui Riccardo Dura intervenne nuovamente colpendo Rossa, questa volta mortalmente forse perché questi nel tentativo di sottrarsi aveva spostato il baricentro del suo corpo. In un comunicato dell’esecutivo i brigatisti parlarono di errore. La morte di Rossa suscitò viva emozione nel Paese e i funerali furono l’occasione per un grande cordoglio di massa. La colonna genovese non si riprese più dopo quell’episodio.
Sabina Rossa era adolescente quando morì suo padre e in un libro pubblicato nel 2006, Guido Rossa, mio padre (Rizzoli Bur), rievoca il doloroso percorso della memoria, la riscoperta del padre attraverso chi l’aveva conosciuto e con lui aveva vissuto la fabbrica, la lotta politica, il clima di «guerra civile contro il terrorismo», la grande passione per l’alpinismo. Un libro molto sincero, che non nasconde nulla e svela anche aspetti rimasti sconosciuti. Un percorso del lutto che la porta a voler incontrare anche le persone condannate dalla giustizia per la morte del padre. Una passaggio difficile ma a cui Sabina Rossa, mostrando grande forza e coraggio, non si sottrae.
Il libro si apre con la telefonata a Vincenzo Guagliardo, che interpella subito con un «tu», quasi fosse una figura familiare. Finalmente dava una voce, una consistenza materiale a una figura che per decenni aveva accompagnato i suoi pensieri, le sue angosce, la sua rabbia, i suoi incubi, la voglia di sapere.
Il libro riporta i passaggi registrati della telefonata, l’imbarazzo ma anche la cordialità umana del detenuto. «Tu hai un debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi» dice Sabina, e Guagliardo accetta. Sabina Rossa racconta per un intero capitolo quel viaggio nell’hinterland sperduto della metropoli milanese, dove Vincenzo Guargliardo, insieme alla moglie Nadia Ponti, anche lei pluridecennale prigioniera politica delle Br e in attesa in questi giorni di una risposta della magistratura sulla richiesta di libertà condizionale, si recava ogni mattina per lavorare in una cooperativa che trasferisce le pagine dei libri in linguaggio braille per i ciechi.
Nell’ordinanza che il 23 settembre scorso il tribunale di sorveglianza di Roma ha emesso per motivare il rigetto della domanda di liberazione condizionale non c’è però alcuna traccia di questo episodio. A Guagliardo, sia pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» realizzato, si contesta paradossalmente «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime allo scopo di “ricevere il perdono o una ricompensa”, reputando il silenzio “la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato”».
Qui emerge l’assurdità dell’intera vicenda, talmente assurda da essere paradigmatica dello stallo che ormai blocca la concessione delle libertà condizionali nei confronti degli ultimi prigionieri politici ultraventennali, se non trentennali, rimasti. Il detenuto Guagliardo non si è sottratto alla richiesta di Sabina Rossa, l’ha incontrata ma non ne ha fatto sfoggio o mercimonio. Non l’ha raccontato, né ufficializzato con delle lettere da depositare nel fascicolo di una «osservazione scientifica della personalità» che più cieca di così non può essere, che non è nemmeno al corrente dei libri distribuiti in tutte le più grandi librerie d’Italia, recensiti nei grandi quotidiani nazionali e dibattuti in numerose trasmissioni televisive. Gli operatori carcerari e i magistrati non sanno, non leggono, non vedono, non sentono o forse fanno finta, ma denunciano «l’assenza di reale attenzione verso le vittime».
Qui si tocca un nodo di fondo, lo stesso affrontato in una lettera scritta nel luglio scorso da Marina Petrella, ma resa nota solo ieri e pubblicata da Le Monde, «il dolore delle vittime mi ha sempre accompagnato. Il pudore nel manifestarlo e il rifiuto di ricavarne un qualunque guadagno personale sono state sempre le uniche ragioni che hanno fatto ostacolo alla sua espressione».
Il tema del perdono, o comunque della mediazione riparatrice o riconciliatrice attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato. La giustizia moderna si è costruita regolamentando innazitutto “il fai date”, la vendetta privata, con il Si membrum rupsit… presente nelle XII tavole romane, per arrivare ad un giudizio che si fonda sulla terzietà tra le parti. Oggi assistiamo ad una sorta di deregulation della giustizia penale: la parte pubblica si annulla e demanda la soluzione giudiziaria alla parte lesa gravandola di un peso immane.

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