Sabina Rossa: «Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre»

In un libro Sabina Rossa rivelava l’incontro con uno dei militanti delle Br che avevano sparato a suo padre. Oggi afferma: «Ha scontato la sua pena, deve essere scarcerato»

Giorgio Ferri
Liberazione
, giovedì 16 ottobre 2008

Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano, sindacalista della Cgil e militante del Pci ucciso nel corso di un’azione realizzata dalla colonna genovese delle Brigate rosse, ha chiesto alla magistratura di sorveglianza di riconsiderare la decisione che ha portato al rifiuto di concedere la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, 31 anni di carcere sulle spalle, anche lui ex operaio della Fiat, poi della Magneti Marelli, e membro del gruppo di fuoco che la mattina del 24 mini_sabina_rossagennaio 1979 colpì suo padre. «Ho incontrato Vincenzo Guagliardo quando era in regime di semilibertà e credo di poter testimoniare a favore del suo ravvedimento», ha dichiarato la senatrice del Pd, aggiungendo di voler «parlare con il giudice perché possa riconsiderare la sua decisione». Guido Rossa venne colpito dopo aver denunciato e fatto arrestare dai carabinieri un altro operaio, Francesco Berardi, suo compagno di lavoro, sospettato di diffondere volantini delle Br in fabbrica e poi morto suicida nel carcere speciale di Cuneo. L’episodio fu uno dei momenti più drammatici e laceranti della storia di quegli anni. Mise a nudo la profondità di un conflitto che arrivava fin nel cuore più rosso e combattivo della classe operaia e segnò uno dei punti di crisi maggiore nella strategia brigatista.
La scelta di colpire Rossa fu molto dibattuta all’interno delle Br, consapevoli dei rischi politici che quell’azione comportava per la loro organizzazione. Dopo aver scartato per ragioni operative l’ipotesi del rapimento incruento, i brigatisti optarono per il ferimento ma qualcosa andò male quella mattina. L’inchiesta giudiziaria accertò che Guagliardo aprì il fuoco solo per ferire il sindacalista. Dietro di lui Riccardo Dura intervenne nuovamente colpendo Rossa, questa volta mortalmente forse perché questi nel tentativo di sottrarsi aveva spostato il baricentro del suo corpo. In un comunicato dell’esecutivo i brigatisti parlarono di errore. La morte di Rossa suscitò viva emozione nel Paese e i funerali furono l’occasione per un grande cordoglio di massa. La colonna genovese non si riprese più dopo quell’episodio.
Sabina Rossa era adolescente quando morì suo padre e in un libro pubblicato nel 2006, Guido Rossa, mio padre (Rizzoli Bur), rievoca il doloroso percorso della memoria, la riscoperta del padre attraverso chi l’aveva conosciuto e con lui aveva vissuto la fabbrica, la lotta politica, il clima di «guerra civile contro il terrorismo», la grande passione per l’alpinismo. Un libro molto sincero, che non nasconde nulla e svela anche aspetti rimasti sconosciuti. Un percorso del lutto che la porta a voler incontrare anche le persone condannate dalla giustizia per la morte del padre. Una passaggio difficile ma a cui Sabina Rossa, mostrando grande forza e coraggio, non si sottrae.
Il libro si apre con la telefonata a Vincenzo Guagliardo, che interpella subito con un «tu», quasi fosse una figura familiare. Finalmente dava una voce, una consistenza materiale a una figura che per decenni aveva accompagnato i suoi pensieri, le sue angosce, la sua rabbia, i suoi incubi, la voglia di sapere.
Il libro riporta i passaggi registrati della telefonata, l’imbarazzo ma anche la cordialità umana del detenuto. «Tu hai un debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi» dice Sabina, e Guagliardo accetta. Sabina Rossa racconta per un intero capitolo quel viaggio nell’hinterland sperduto della metropoli milanese, dove Vincenzo Guargliardo, insieme alla moglie Nadia Ponti, anche lei pluridecennale prigioniera politica delle Br e in attesa in questi giorni di una risposta della magistratura sulla richiesta di libertà condizionale, si recava ogni mattina per lavorare in una cooperativa che trasferisce le pagine dei libri in linguaggio braille per i ciechi.
Nell’ordinanza che il 23 settembre scorso il tribunale di sorveglianza di Roma ha emesso per motivare il rigetto della domanda di liberazione condizionale non c’è però alcuna traccia di questo episodio. A Guagliardo, sia pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» realizzato, si contesta paradossalmente «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime allo scopo di “ricevere il perdono o una ricompensa”, reputando il silenzio “la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato”».
Qui emerge l’assurdità dell’intera vicenda, talmente assurda da essere paradigmatica dello stallo che ormai blocca la concessione delle libertà condizionali nei confronti degli ultimi prigionieri politici ultraventennali, se non trentennali, rimasti. Il detenuto Guagliardo non si è sottratto alla richiesta di Sabina Rossa, l’ha incontrata ma non ne ha fatto sfoggio o mercimonio. Non l’ha raccontato, né ufficializzato con delle lettere da depositare nel fascicolo di una «osservazione scientifica della personalità» che più cieca di così non può essere, che non è nemmeno al corrente dei libri distribuiti in tutte le più grandi librerie d’Italia, recensiti nei grandi quotidiani nazionali e dibattuti in numerose trasmissioni televisive. Gli operatori carcerari e i magistrati non sanno, non leggono, non vedono, non sentono o forse fanno finta, ma denunciano «l’assenza di reale attenzione verso le vittime».
Qui si tocca un nodo di fondo, lo stesso affrontato in una lettera scritta nel luglio scorso da Marina Petrella, ma resa nota solo ieri e pubblicata da Le Monde, «il dolore delle vittime mi ha sempre accompagnato. Il pudore nel manifestarlo e il rifiuto di ricavarne un qualunque guadagno personale sono state sempre le uniche ragioni che hanno fatto ostacolo alla sua espressione».
Il tema del perdono, o comunque della mediazione riparatrice o riconciliatrice attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato. La giustizia moderna si è costruita regolamentando innazitutto “il fai date”, la vendetta privata, con il Si membrum rupsit… presente nelle XII tavole romane, per arrivare ad un giudizio che si fonda sulla terzietà tra le parti. Oggi assistiamo ad una sorta di deregulation della giustizia penale: la parte pubblica si annulla e demanda la soluzione giudiziaria alla parte lesa gravandola di un peso immane.

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Quando il rapimento Sossi non veniva giudicato un atto di terrorismo

L’aggravante di eversione dell’ordinamento costituzionale fu introdotta solo nel 1979

Paolo Persichetti
Liberazione 2 ottobre 2008

Una legislazione antiterrorista e un diritto penale politico speciale in senso proprio nascono soltanto alla fine del 1979. Spiega Luigi Ferrajoli, nel suo ormai classico Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, che nel 1979 si opera un rovesciamento della strategia antiterrorista condotta dallo Stato. È la magistratura, non più la polizia, che ne assume per intero la supplenza. Vengono così rivitalizzati gli ampi strumenti normativi già presenti nel codice Rocco e introdotti nuovi dispositivi che daranno il via alla stagione dell’emergenza. Con il decreto-legge del 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge n. 15 del 6 febbraio 1980, viene introdotta la circostanza aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (successivamente corretta con la dizione “ordinamento costituzionale”). La nuova aggravante comporta un aumento di pena pari alla metà della pena edittale del reato base e l’esclusione delle attenuanti, oltre a modificare i criteri di cumulo di più circostanze aggravanti nel senso di un sostanziale aumento della quantità di pena irrogabile. Lo stesso decreto introduce nuove fattispecie criminose come «l’attentato per finalità terroristiche o di eversione» (nuovo testo dell’articolo 280 del codice penale) e «l’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico» (articolo 270-bis del codice penale).
Tutti i reati con movente politico commessi prima dell’entrata in vigore della nuova aggravante antiterrorista vennero giudicati in base alla normativa preesistente, sulla scorta del principio di irretroattività della legge penale. Considerati episodi di natura eversiva solo dal punto di vista socio-storico ma non giuridico. Così avvenne per il sequestro Sossi (1974) che diede luogo a un’accesa disputa giurisprudenziale. Da una parte chi riteneva andasse inquadrato nella fattispecie del «sequestro semplice» e chi invece configurava nelle richieste politiche delle Br delle finalità di natura estorsiva. Analogo trattamento ebbero i reati politici commessi fino al 1979 (ivi compreso l’attentato a Coco) fatta eccezione per quelli ritenuti di «natura permanente» e protrattisi oltre la data di entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge.

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Giustizialismo e lotta armata