I cani d’Albania

di Pino Narducci 23 luglio 2024
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

fonte https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-cani-d-albania

Sono trascorsi due mesi dalla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier e dallo scompaginamento della colonna veneta “Anna Maria Ludmann-Cecilia” delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente(1)

Nel paese infuria il dibattito sulla tortura usata contro i militanti delle BR arrestati dalle forze di polizia. Domenico Sica, sostituto procuratore romano, uno dei magistrati più noti dell’antiterrorismo, esprime le sue convinzioni a Guido Rampoldi di Paese Sera e lo fa in forma di apologo(2).   

Evoca oscure vicende accadute durante l’aggressione dell’Italia fascista all’Albania e racconta al giornalista una storia raggelante. 

Attingendo alla memoria familiare, ricorda che in Albania, durante il secondo conflitto mondiale, molti soldati italiani finivano negli ospedali o venivano rimpatriati perché denunciavano di essere stati morsi da cani idrofobi. Sulle loro gambe, in effetti, erano ben visibili i segni lasciati dai denti di un cane rabbioso. Poi, le autorità scoprirono che un militare aveva costruito una mandibola di cane in legno, con una dentatura fatta di chiodi, e la fittava ai soldati che, per sfuggire agli orrori della guerra ed alla morte, si conficcavano quei chiodi nella carne.

Per Sica, in sostanza, quelli che, nel 1982, denunciano violenze e sevizie sono come quei soldati italiani degli anni ‘40 (sicuramente, secondo la visione del magistrato, «vili traditori della patria»), simulatori che si infliggono ferite sul corpo pur di screditare coloro che li hanno arrestati o li tengono in custodia. Non esiste un problema tortura, ma solo, evidentemente, una gigantesca macchinazione.

Ma non tutti la pensano così.

Livio Zanetti, direttore de L’Espresso affida a Pier Vittorio Buffa l’incarico di condurre una inchiesta sulla storia delle torture. Il giornalista incontra Franco Fedeli, uno degli storici animatori della sindacalizzazione e democratizzazione della pubblica sicurezza, ed entra poi in contatto con due poliziotti. Sono colloqui rigorosamente clandestini durante i quali riceve la conferma che quelle storie sono vere(3)

Buffa scrive il pezzo(4) col quale denuncia le violenze che si stanno consumando, in particolare nel Veneto: «All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di Polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano e con la singolare spesa rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’è l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits, vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza aver più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese”(5). Quell’ultimo piano era infatti diventato il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona. Non hanno subito tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in gran quantità, pugni e calci per ore, per notti intere…La voglia di picchiare aveva infatti talmente contagiato gli agenti di quel distretto (molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che, quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta, poco a poco, estendendo come un contagio…». Buffa racconta che fatti di questo tipo sono avvenuti anche Roma, a Viterbo, a Verona e cita i casi di Stefano Petrella, Nazareno Mantovani, Ennio Di Rocco, Lino Vai, Luciano Farina e Gianfranco Fornoni.    

Il pubblico ministero di Venezia lo convoca. Vuole sapere come è entrato in possesso delle informazioni sul distretto di Ca’ Rossa e, soprattutto, vuole conoscere il nome della sua fonte. Il giornalista risponde che è tenuto al rispetto del segreto professionale e non può fare alcun nome. 

«Buffa, nel nostro sistema penale il giornalista non può invocare il segreto professionale per coprire il nome della fonte. Lei rischia di essere incriminato come testimone reticente».

Ma il giornalista non cede e il magistrato lo arresta. Così, nella indagine sulle violenze veneziane, il primo a finire in carcere non è un torturatore, ma il giornalista che le ha denunciate.   

Paradossalmente, entrando nel vecchio carcere di Santa Maria Maggiore, Buffa prosegue il suo lavoro perché, da alcuni detenuti, apprende altre storie che gli confermano che la pratica delle violenze si è diffusa a macchia d’olio. Un ragazzo arrestato per partecipazione a banda armata gli dice che ha scritto il vero perché anche lui è passato per il terzo distretto di Mestre e lì ha visto una persona sdraiata su una barella, uno che aveva parlato dopo essere stato picchiato(6).  

Il giorno successivo all’arresto di Buffa, il SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) di Venezia dirama un comunicato con il quale annuncia di aver chiesto un incontro urgente con il magistrato e precisa che le voci di maltrattamenti su arrestati per fatti di terrorismo sono giunte al sindacato. Si tratta di pratiche tollerate o incoraggiate dall’alto e sostenute dal tacito consenso dell’opinione pubblica.

L’11 marzo ‘82, tre poliziotti del sindacato incontrano il magistrato che ha spedito Buffa in carcere. Sanno che il giornalista è disposto a restare in galera e che non parlerà mai. Solo loro, pagando però un prezzo personale molto alto, possono tirarlo fuori dalla cella. 

Il capitano Riccardo Ambrosini e l’agente Giovanni Trifirò dichiarano al pubblico ministero di essere loro le fonti di Buffa. Il maresciallo Augusto Fabbri, dirigente del SIULP veneziano, non ha incontrato il giornalista, ma anche lui sa che i fatti di violenza sono veri e lo conferma. A quel punto, Buffa è libero di rivelare i nomi delle sue fonti ed il pretore lo assolve e lo scarcera.

Ma la liberazione del giornalista non è che l’inizio di una sofferta e dolente vicenda per i due poliziotti che hanno violato la consegna del silenzio.

La prima dura reazione è quella della questura veneziana, l’istituzione da cui dipende il terzo distretto di Mestre. Questore, funzionari e dirigenti appongono ben 32 firme in calce ad una lettera con la quale chiedono al Ministro dell’Interno e al Capo della Polizia di allontanare Ambrosini e Trifirò dal capoluogo veneto. 

Le proteste contro i due poliziotti dilagano in tutto il corpo della pubblica sicurezza: a Milano, nella scuola allievi ufficiali a Nettuno e nel reparto celere a Roma.

I sindacati più corporativi (il SAP e il SIPID-Intesa Democratica) attaccano a testa bassa il SIULP veneziano, colpevole di gettare discredito sull’operato della polizia perché, mentre questa subisce i colpi delle organizzazioni terroristiche, Ambrosini e Trifirò hanno confidato a un giornalista fatti che non sono provati. Si distanzia nettamente la posizione della CISL veneta che, invece, invoca «la destituzione, la carcerazione e la condanna» per i responsabili di «forme barbare di inquisizione»(7).

Ma anche il SIULP entra in fibrillazione. 

A Bologna gli iscritti attaccano i colleghi veneziani e Bari, addirittura, ne chiede la espulsione. I poliziotti veneti del sindacato si riuniscono nella caserma Santa Chiara. Il dibattito, animato e teso, va avanti per più di cinque ore, ma non riesce a produrre un comunicato finale mentre la segretaria nazionale del sindacato avvia una verifica sull’operato dei suoi aderenti ed anzi annuncia che il comitato di gestione ha accolto le dimissioni presentate da Ambrosini da ogni incarico rivestito nel sindacato.

Il Questore di Venezia rincara la dose ed ordina ad Ambrosini di non allontanarsi dalla città perché deve attendere l’arrivo di un ispettore inviato dal Ministero dell’Interno.

Ma qualcosa alla Cà Rossa sarà pur successo.

Un articolo pubblicato su L’Espresso ricostruisce lo stato d’animo degli iscritti al SIULP che si riuniscono a Mestre, nel salone della federazione unitaria CGIL-CISL-UIL. Sono tante le vicende che affiorano durante il dibattito, alcune i poliziotti le sussurrano ai giornalisti(8).

Un addetto all’archivio del terzo distretto racconta che, un lunedì mattina, gli è stato improvvisamente intimato di non entrare nel suo ufficio. Un altro addetto all’archivio spiega che, nelle stanze degli interrogatori, possono entrare solo alcuni funzionari e che loro, semplici agenti di pubblica sicurezza, sono ridotti a restare nei corridoi. Alcuni, però, le violenze le hanno viste: secchi d’acqua gelata addosso agli arrestati, ragazze a cui vengono brutalizzati i seni, peli strappati con le pinze, minacce di morte e colpi di pistola sparati vicino alla testa di un detenuto.    

Proprio in quei giorni, Alberta Biliato “Anna”, militante delle BR-PCC, arrestata a Treviso, prende la parola durante il processo che si svolge davanti al Tribunale di Verona contro i responsabili del sequestro del generale Dozier(9)

Denuncia che, appena arrestata, il 30 gennaio ’82, viene subito portata al terzo distretto di Polizia di Mestre e, proprio nelle stanze dell’archivio, viene lungamente torturata durante i circa 20 giorni di permanenza in quel posto (occhi sempre bendati, trattamento con acqua e sale, minacce di violenza sessuale, bastonature sotto la pianta dei piedi, sulle gambe, sul capo e sulle orecchie, strizzatura dei capezzoli, mani introdotte nella vagina, peli del pube strappati, pistola carica puntata alla tempia). 

Anche il militante Roberto Vezzà formula accuse analoghe a quelle lanciate dalla Biliato. A via Ca’ Rossa, sempre incappucciato, è stato pestato e, nelle stanze dell’archivio, lo hanno colpito sui piedi con un nerbo di bue e gli hanno somministrato acqua e sale con un imbuto(10).

Il giornalista Luca Villoresi di “La Repubblica” percorre la strada tracciata da Buffa ed intervista un poliziotto che chiede l’anonimato perché non vuole fare l’eroe: se parli, lui lo sa bene, cominciano a trattarti come un fiancheggiatore delle BR, i colleghi non ti salutano più e iniziano i discorsi sul trasferimento(11).

Lavora nella questura veneziana ed a lui, come ad altri, è stato detto di stare alla larga dalla stanza degli interrogatori alla quale possono accedere solo due o tre funzionari. Ma lui ha scelto di vedere quello che succedeva lì dentro, anche se era stato subito cacciato dai colleghi. Qualcosa però è riuscito a scorgere. C’è una immagine che non può dimenticare. Al centro della stanza, una ragazza con una sorta di cappuccio sulla testa dalla quale escono fuori capelli biondi. Un poliziotto la fa girare su se stessa e la colpisce sul capo. In un angolo, su una brandina, un ragazzo con la faccia rovinata. Cosa accadeva durante gli interrogatori lui l’ha già sentito raccontare dai colleghi: calci e pugni, acqua e sale, persone incappucciate, minacce di morte, peli strappati, genitali e capezzoli strizzati. Molti, leggendo l’articolo, ritengono che la ragazza con i capelli biondi vista dal poliziotto sia proprio Teresa Biliato.

La sorte di Villoresi si intreccia con quelle di Buffa, Ambrosini e Trifirò in una giornata memorabile, quella del 29 marzo, che, a sera, si chiude, con un colpo di scena. 

Negli uffici giudiziari veneziani compare la deputata radicale Adele Faccio che conferma di aver fornito al giornalista notizie sulle violenze di Mestre. Poi arriva Buffa, ma, mentre attende di deporre, riceve una comunicazione giudiziaria perché ha violato il segreto istruttorio scrivendo un pezzo sulle violenze che i Carabinieri hanno inflitto ad Annamaria Sudati(12). E’ il turno di Luca Villoresi a cui i magistrati chiedono di rivelare la identità degli anonimi poliziotti veneti citati nell’articolo pubblicato il 18 marzo. Il giornalista di “La Repubblica”, come Buffa, invoca il segreto professionale e spiega che deve contattarli per poter fornire i loro nomi.

Nella stanza dei magistrati entra Franco Fedeli, direttore di “Nuova Polizia”. Sì, è vero, nelle riunioni del SIULP sono circolate molte voci sulle torture che vengono praticate contro gli arrestati per vicende di terrorismo e, quando queste voci sono diventate sempre più corpose, ha chiesto di incontrare il Ministro dell’Interno, senza però aver ricevuto alcuna risposta. 

Torna a sedersi Villoresi che oppone ancora un rifiuto al PM perché ha consultato le sue fonti, ma queste vogliono continuare a restare anonime. Ed allora, anche Villoresi viene arrestato perché è un teste reticente. Però non lo portano subito via perché è il turno di Buffa, che deve indicare i nomi dei detenuti che gli hanno confidato episodi di violenza, e poi del capitano Ambrosini che, così spiega, non è la fonte di Villoresi perché lui ha parlato solo con Buffa. 

Così, quel frenetico lunedì di marzo si chiude con Villoresi che, con le manette ai polsi, esce dal palazzo di giustizia e, a bordo di un motoscafo, raggiunge le celle del carcere di Santa Maria Maggiore. E’ il secondo arresto della indagine veneziana, ancora un giornalista, ancora nessun torturatore. Il 31 marzo, Villoresi può uscire in libertà provvisoria.

Una delle vicende raccontate da Buffa esce dall’anonimato grazie alla denuncia di Marco Fasolato. Il 2 febbraio, il figlio Massimo è stato portato al distretto di via Ca’ Rossa per un controllo, ma giunto lì ha scoperto di essere sospettato di aver commesso una rapina ai danni di una pasticceria. Quattro poliziotti lo gettano a terra e lo picchiano con calci e pugni. Un ragazzo che sostiene di essere stato suo complice lo accusa, ma poi non sa dire quale sia il suo nome. Viene infine rilasciato in stato di shock. Fasolato denuncia che il figlio ha riportato lesioni con una prognosi di tre giorni e che è pronto ad identificare i quattro picchiatori, anzi tre di loro li ha già riconosciuti quando è entrato negli uffici di polizia per presentare la denuncia(13).

Se a Padova il processo per le violenze commesse dai poliziotti contro i carcerieri di Dozier sta per concludersi con una sentenza di condanna per gli imputati, a Venezia, il procedimento iniziato con l’arresto di Buffa, quello che dovrebbe disvelare le violenze della Cà Rossa, si avvia ad una conclusione di segno diametralmente opposto, anzi, in verità, non nasce neppure.   

L’opinione del pubblico ministero è che il caso è stato originato dalle «dichiarazioni generiche, avventate e non documentate di Ambrosini e Trifirò», le accuse di Alberta Biliato e Roberto Vezzà sono sospette perché avvenute con notevole ritardo rispetto ai fatti di violenza subiti a Mestre, anzi ancor più sospette perchè fatte con l’obiettivo di rendere credibile la ritrattazione di precedenti dichiarazioni. Quanto alla vicenda Fasolato, sostiene ancora il magistrato inquirente, il ragazzo si era rifiutato di salire in macchina e ed era stato necessario usare una «certa coazione fisica» nei suoi confronti. Quando poi era stato riconosciuto dal complice, Fasolato era andato in escandescenze ed era stato lui a colpirsi al volto ed alla testa. Il pm, che stigmatizza il comportamento di Buffa e Villoresi, sostiene che la campagna scandalistica sulle torture si fonda su voci e sul sentito dire, tanto che si dice sicuro che «è frutto della fantasia dei giornalisti, nonché di alcuni componenti del SIULP che simili pratiche nonché tollerate siano state incoraggiate dall’alto»(14). Il giudice istruttore archivia il procedimento per le violenze nel terzo distretto di polizia di Mestre. Nessuna tortura, nessuna direttiva dall’alto di usare le maniere forti. 

Trascorrono molti anni prima di scoprire che i fatti denunciati non erano frutto del lavoro fantasioso di Buffa e Villoresi e che le informazioni di Ambrosini e Trifirò(15) erano qualcosa di ben diverso dal sentito dire. 

Il commissario Salvatore Genova, uno dei funzionari inviati dal Viminale a Verona  per coordinare le indagini per liberare Dozier, racconta cosa è realmente accaduto nel Veneto durante la caccia ai sequestratori del generale della Nato ed ai militanti delle BR-PCC. Furono usati metodi illegali e furono i vertici del Ministero dell’Interno a dare il via libera all’uso della tortura.

Su quello che accadde a Venezia, Salvatore Genova ha un ricordo nitido che affida proprio a Buffa: «La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli stronzi non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non poterà da nessuna parte»(16)

Il giornalista finalmente può affermare: «…Allora, avevano ragione i poliziotti che avevano raccontato le torture ai giornalisti e aveva torto lo Stato che coprì se stesso e i suoi uomini, ordinò e avallò la tortura come strumento di interrogatorio di detenuti».  

Così, dopo trent’anni da quegli avvenimenti, salta fuori un pezzo importante di verità e si comprende che, in quei primi anni ’80, il contagio della violenza stava per diventare epidemia e che quei segni ben visibili sui corpi non erano stati lasciati da mandibole in legno di cani rabbiosi trasportate, chissà come, con un avventuroso viaggio, dall’Albania al Veneto.   

(1) James Lee Dozier, sequestrato a Verona il 17 dicembre 1981 dalle BR-PCC, venne liberato a Padova il 28 gennaio 1982. I brigatisti Antonio Savasta, membro del comitato esecutivo delle BR-PCC, Emilia Libèra, Emanuela Frascella, Giovanni Ciucci ed Emanuela Frascella, che comunque denunciarono le violenze subite dopo l’arresto, collaborarono con la magistratura   

(2) L’articolo di Guido Rampoldi, dal titolo Sulla tortura polemiche fra avvocati, magistrati, polizia, che contiene, fra l’altro, l’intervista a Sica, è stato pubblicato nella edizione di Paese Sera del 18 marzo 1982. Sul tema, esprimendo un’opinione che in quel periodo storico era nettamente minoritaria tra i magistrati, il giudice romano Luigi Saraceni, esponente di Magistratura Democratica, disse a Rampoldi: «Così è sempre stato, così continua ad essere: la polizia spesso picchia, la magistratura chiude gli occhi e si tura le orecchie». 

(3) Intervista di Valentina Perniciaro e Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa pubblicata il 18.1.2012 in Insorgenze.net      

(4) L’articolo di Buffa Il rullo confessore comparve sul settimanale L’Espresso il 28 febbraio 1982.

(5) Il commissario di pubblica sicurezza Alfredo Albanese venne ucciso dalle Brigate Rosse, a Mestre, il 12 maggio 1980.

(6) L’articolo di Buffa sulla esperienza vissuta nel carcere veneziano comparve su L’Espresso del 21 marzo 1982.

(7) I comunicati del SAP, del SIPID-Intesa Democratica e del Comitato di Gestione del SIULP sono pubblicati integralmente nel libro di Progetto Memoria Le torture affiorate, seconda edizione, febbraio 2022, Sensibili alle Foglie.

(8)  L’accurata ricostruzione dell’assemblea è opera dei giornalisti Francesco De Vito e Adriano Donaggio per il settimanale L’Espresso del 28 marzo 1982.

(9) Alberta Biliato, con sentenza dei giudici veronesi del 25 marzo 1982, venne condannata per aver partecipato al sequestro del generale Dozier.

(10) Roberto Vezzà, condannato per aver partecipato al sequestro di Roberto Taliercio, ha ricostruito l’esperienza vissuta a Cà Rossa durante gli anni della detenzione. Lo scritto è stato pubblicato nel libro Le torture affiorate, cit.

(11) L’articolo di Luca Villoresi Ma le torture ci sono state? Viaggio nelle segrete stanze. Quei giorni dell’operazione Dozier venne pubblicato sul quotidiano La Repubblica il 18 marzo 1982.

(12) Anna Maria Sudati dichiarò di aver subito violenze da parte dei carabinieri che l’avevano arrestata a Venezia il 26 gennaio 1982. La sua vicenda è narrata nell’articolo di Pier Vittorio Buffa e Mario Scialoja Una ventina di storie inquietanti pubblicato su L’Espresso del 21 marzo 1982.

(13) La vicenda Fasolato fu oggetto di una interrogazione rivolta al Ministro dell’Interno dal deputato Marco Boato e discussa nella seduta della Camera dei Deputati del 22 marzo 1982, seduta dedicata al tema della tortura e delle violenze contro gli arrestati per fatti di terrorismo.  

(14) La richiesta di archiviazione del pubblico ministero veneziano al giudice istruttore del 22 giugno 1983 è pubblicata nel libro Le torture affiorate, cit.   

(15) Il sovrintendente Giovanni Trifirò morì in circostanze drammatiche. Il 15 aprile 1986, a Mestre, durante un inseguimento a piedi lungo le strade cittadine, esplose accidentalmente un colpo di pistola che uccise la persona inseguita. Sconvolto, Trifirò puntò l’arma contro se stesso e si uccise.

(16) L’intervista di Pier Vittorio Buffa a Salvatore Genova, dal titolo Così torturavamo i brigatisti, venne pubblicata su L’Espresso del 5 aprile 2012.

Il filo che lega le torture contro le Brigate rosse alle violenze poliziesche di Genova 2001

Dalla brigatista torturata nel 1982 alla guida della questura di Genova subito dopo il G8 da dove denunciò i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz, fino agli affari con i dittatori africani: tutte le ombre nascoste nel passato di Fioriolli

Carlo Bonini
La Repubblica 9 Gennaio 2013 (Vai alla fonte)

fioriolli_oscarROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (…) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stimmate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.

Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.

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Il verbale. L’ex commissario e il caso Dozier: «Così torturammo i brigatisti»

Il Corriere della sera pubblica alcuni passaggi della deposizione rilasciata dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, che confermano le torture praticate durante le indagini contro le Brigate rosse. Il verbale è stato raccolto nell’ambito dell’inchiesta difensiva condotta dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo per ottenere la revisione del processo che ha portato alla condanna di Enrico Triaca per calunnia, dopo che questi aveva denunciato le sevizie subite. L’ex commissario, ormai in pensione col grado di questore, ribadisce, questa volta nel corso di un atto giudiziario che Triaca diceva la verità: «Nicola Ciocia dell’Ucigos mi raccontò di avergli praticato il wateboarding. Tortura che impiegò anche nel 1982, durante le indagini sul rapimento Dozier, sempre su ordine dei vertici della polizia e del governo»

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
showimg2-1-cgiROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro anni di galera. È il rischio accettato dall’ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell’ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l’ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari. «È stato tutto disposto dall’alto — ha detto Genova all’avvocato Francesco Romeo, difensore dell’ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —.  C’è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d’accordo con l’allora ministro Rognoni… E infatti noi facemmo». L’avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l’autorizzazione a fare quel tipo di tortura…». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato “De Tormentis” che secondo il suo ex collega dirigeva i “trattamenti”, ndr)… Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell’Ucigos e ci disse “facciamo tutto ciò che è possibile”».
L’Ucigos era l’organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d’interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato…». L’alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant’è che durante tutte’queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d’interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell’annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata.
«Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l’esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all’interno delle cosce, delle gambe». «Dopo aver ingurgitato acqua e sale», racconta Genova, Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: “E se vi dicessi dov’è Dozier?”».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell’immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure II Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l’ex br arrestato nel ’78, all’indomani dell’omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l’avvocato Romeo ha presentato un’istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l’esperto di waterboarding che si muoveva –  a suo dire – con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni -. Anzi, i comportamenti “duri” accertati furono prontamente perseguiti. C’era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro “teste di cuoio” per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che luì dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent’anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell’antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.

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Chi è “Tormentis”?
Condannato per calunnia dopo-aver-denunciato le torture, Triaca chiede la revisione del-processo
Enrico Triaca denunciò le torture ma fu condannato per calunnia. In un libro il torturatore Nicola Ciocia-alias De Tormentis rivela “Era tutto vero”. Parte la richiesta di revisione
Triaca: “De Tormentis mi ha torturato così
Triaca: dopo la tortura l’inferno del carcere/ seconda parte
Che delusione professore! Una lettera di Enrico Triaca a Nicola Ciocia-professor De Tormentis
Processo verso la revisione per il tipografo Br torturato
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Il brigatista torturato chiede la revisione del processo. Vuole sapere tutto sulla squadra speciale guidata da Nicola Ciocia che praticava il waterboarding

Dopo le ammissioni di Nicola Ciocia, il funzionario di polizia che lo torturò, e la testimonianza dell’allora commissario Salvatore Genova, Enrico Triaca chiede la revisione del processo che portò alla sua condanna per calunnia. L’istanza depositata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo davanti alla corte d’appello di Perugia non mira soltanto all’annullamento del processo farsa che finì con una condanna per calunnia ad un anno e quattro mesi di carcere, che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse ed in un primo momento anche per il sequestro Moro. L’obiettivo è quello di fare luce sull’esistenza di un apparato di polizia parallelo che con il mandato del governo venne messo in piedi per condurre le indagini sulle organizzazioni rivoluzionarie armate ricorrendo alla tortura

di Marco Grasso e Matteo Indice
Il Secolo XIX 12 dicembre 2012

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Nicola Ciocia è l’uomo di spalle, di bassa statura con la chiera

Per piegare il terrorismo lo Stato italiano fece ricorso alla tortura. Un’accusa che allora, quando a lanciarla era Enrico Triaca, tipografo delle Br coinvolto nel sequestro Moro, finì con una condanna per calunnia. Era il 1978. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, l’ex brigatista chiede la revisione del processo: «Era tutto vero». Un atto che potrebbe riaprire una delle pagine più oscure degli anni di Piombo: l’attività di alcuni corpi speciali, che agivano sotto copertura, conosciuti come “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”.
A confermare l’esistenza di un nucleo “parallelo” all’interno della polizia, nel corso degli anni, sono stati alcuni ex funzionari. Ne parlò Salvatore Genova, superinvestigatore che nel gennaio del 1982 liberò il generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi anche Nicola Ciocia, anche lui ex poliziotto, che in quelle missioni speciali si celava dietro allo pseudonimo “Professor De Tormentis”. Ciocia, convinto che il fine giustificasse in mezzi («era per il bene dell’Italia»), raccontò la sua verità in un’intervista al Secolo XIX. Tra le rivelazioni anche quella di aver praticato ciò che allora veniva chiamato il «trattamento dell’acqua e sale». Una forma di interrogatorio divenuta famosa in tutto il mondo dopo la guerra in Iraq come waterboarding, tortura che simula l’annegamento del detenuto.
Quelli che fino a ieri erano frammenti sconnessi, adesso sono i pezzi di un mosaico coerente. A rimetterli insieme è una corposa indagine difensiva condotta da Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, avvocati di Triaca, e presentata alla Corte d’Appello di Perugia. In gioco non c’è solo l’annullamento di un processo, finito con una condanna a un anno e quattro mesi di carcere, arrivata dopo quella per banda armata.
L’obiettivo dichiarato del ricorso è quello di far luce su una delle pagine più oscure del dopoguerra italiano: «È molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi – spiegano – È molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato. È difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato».
A descrivere il waterboarding è lo stesso Triaca, al blog Insorgenze, punto di riferimento della sinistra più estrema: «Fui prelevato dalla questura, bendato e caricato su un furgone. Mi introdussero in una stanza, mi spogliarono e mi legarono alle quattro estremità di un tavolo, con la testa fuori. Qui, accesa la radio al massimo, iniziò il “trattamento”. L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riesco solo a ingoiare acqua. “De Tormentis” dava gli ordini. Dopo un po’ che tieni la testa a penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne».
L’esistenza di una «struttura organizzata» emerse già in un’inchiesta della Procura di Padova degli anni Ottanta, che indagò sulle sevizie commesse ad alcuni membri delle Br, senza riuscire a individuarne gli autori. A colmare quel vuoto, nel 2007, è il capo della squadra, Nicola Ciocia: «I metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo in alcuni casi».
La vicenda è stata anche oggetto di un’interpellanza parlamentare, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini. A rispondere a nome del governo, notano però i difensori di Triaca, si è presentato Carlo De Stefano, sottosegretario agli Interni, all’epoca dei fatti «uno dei poliziotti che parteciparono al suo arresto».


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Torture di Stato: i nomi di chi diede l’ordine ed eseguì le torture. Le rivelazioni di Salvatore Genova all’“Espresso”

Sevizie ai brigatisti. Le denunciò “l’Espresso” trent’anni fa. Fu smentito e il cronista arrestato. Oggi uno dei presenti conferma e dice chi le ordinò

Colloquio con Salvatore Genova di Pier Vittorio Buffa
L’Espresso 6 aprile 2012

«Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare».
Salvatore Genova è l’uomo il cui nome è da trent’anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l’accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l’acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.
Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici Ecco il suo racconto.

L’ordine dall’alto
«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. È la squadra messa in campo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.

Arriva Nicola Ciocia-De Tormentis, lo specialista del waterboarding
Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell’occasione ci viene presentato. E’ Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.
Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell’Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.

Improta, Fioriolli e Genova “disarticolano” (tradotto: pestano brutalmente) Nazareno Mantovani in un villino appositamente affittato per le torture
Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all’ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo “disarticolarlo”, prepararlo per Ciocia e i quattro dell’Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un’altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: “Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male”. Poi il tubo in gola, l’acqua salatissima, il sale in bocca e l’acqua nel tubo. Dopo un quarto d’ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell’Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.
Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.

Lo stupro di Elisabetta Arcangeli
Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti.

Il giardino dei torturatori

Dopo i quattro dell’Ave maria arrivano i Guerrieri della notte
Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice.

Dopo Padova torture anche a Mestre
La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli “stronzi” non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte.
Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l’indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l’elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati.

L’impunità
Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all’ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. È una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi.
Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti.
Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria».


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Torture contro i militanti della lotta armata
8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista

Torture di Stato: «L’ordine venne dal governo. Oltre a me coinvolti De Francisci, Improta, Ciocia, Fiorolli, De Gregori». L’ex commissario Salvatore Genova racconta tutto

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Sull’Espresso in edicola da oggi venerdì 6 aprile 2012 la testimonianza rilasciata a Piervittorio Buffa dall’ex commissario di Polizia Salvatore Genova, aggregato alla squadra speciale del ministero dell’Interno durante le indagini sul sequestro Dozier tra la fine del 1981 e il 1982

«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Firiolli, e Luciano De Gregori. E’ la squadra messa in cmpo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno».

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Torture contro i militanti della lotta armata
8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista

8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura

Come documentano i dispacci dell’agenzia Ansa riportati qui sotto, l’8 gennaio 1982 si tenne una riunione del Ciis, il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, organo del servizio segreto italiano oggi sostituito dal Comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica.
Il comitato era presieduto e convocato dal Primo ministro, che all’epoca era il repubblicano Giovanni Spadolini, ed era composto dal ministro degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, Economia e Finanze e Attività produttive.

Da 22 giorni era in corso il sequestro del generale americano e vice-comandande delle forze terrestri della Nato nel Sud Europa, James Lee Dozier, rapito Il 17 dicembre 1981 nella sua casa di Verona da un nucleo delle Brigate rosse – partito comunista combattente, una delle tre branche in cui si era scissa l’organizzazione nel 1980. Azione rivendicata dalla colonna veneta Annamaria Ludman.

Era la prima volta che un’organizazzione marxista rivoluzionaria riusciva a rapire un membro del comando Nato in Europa, una novità per un militare statunitense così alto in grado. L’operazione, pensata all’interno di quella che era la tradizionale azione di contrasto contro l’aggressiva politica delle forze imperialiste, mirava a riaprire la battaglia in favore dell’uscita dell’Italia dalla logica dei blocchi, contro la presenza delle basi Nato e americane. Un’azione volta a denunciare i patti segreti che legavano la Penisola a una sorta di sudditanza, che molti storici e analisti non esitavano a definire senza mezzi termini “sovranità limitata”, e intervenire all’interno del movimento contro il riarmo e la presenza di testate nucleari, mobilitatosi per impedire l’istallazione in Europa di nuovi sistemi d’arma come i missili nucleari Pershing e Cruise, questi ultimi previsti nella base di Comiso e Sigonella in Sicilia.

Il rapimento del generale americano sfatava di fatto tutte le dietrologie sulla natura eterodiretta delle Brigate rosse da parte di ambienti atlantici. Interpretazione complottistica fatta circolare in primis dagli ambienti del Partito comunista ma poi ripresa su larga scala e divenuta uno dei più inossidabili luoghi comuni capaci solo di mutare di segno (i servizi dell’Est al posto di quelli dell’Ovest) ma non di eclissarsi.


RIUNIONE
CIIS: MISURE TERRORISMO

Primo dispaccio

1982-1-8  POLITICA      

RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO
19820108 00850
ZCZC047/01
U POL 01 QBXB

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – IL COMITATO INTERMINISTERIALE PER L’INFORMAZIONE E LA SICUREZZA (CIIS), NEL CORSO DI UNA LUNGA RIUNIONE TENUTA STAMANE A PALAZZO CHIGI, HA ADOTTATO UNA SERIE DI MISURE E DIRETTIVE AD EFFETTO IMMEDIATO RIGUARDANTI LA LOTTA AL TERRORISMO E LA SICUREZZA NELLE CARCERI. SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO SUL CONTENUTO DELLE MISURE PRESE, CHE RIENTRANO NELL’ AMBITO DELLA COMPETENZA DEL CIIS, C’E’ IL VINCOLO DEL PIU’ STRETTO RISERBO. SI TRATTA NATURALMENTE DI MISURE DI CARATTERE AMMINISTRATIVO. HANNO PARTECIPATO ALLA
RIUNIONE I MINISTRI DELL’INTERNO ROGNONI, DELLA DIFESA LAGORIO, DELLA GIUSTIZIA DARIDA, DELL’ INDUSTRIA MARCORA, CHE FANNO PARTE DELL’ORGANISMO, E I MINISTRI LA MALFA, DI GIESI E ALTISSIMO IN RAPPRESENTANZA DELLE FORZE POLITICHE DELLA
COALIZIONE DI GOVERNO. I MINISTRI SONO STATI D’ACCORDO UNANIMEMENTE, SEMPRE SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO, SULL’URGENZA E LA NECESSITA’ DELLE MISURE CHE SONO STATE DEFINITE DAL CIIS.
MR/SOR
8-GEN-82 12:45 NNNN

Secondo dispaccio

ZCZC196/01
U CRO 01 QBXB
RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO (2)

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – LE DICISIONI ADOTTATE DAL CIIS,
NELLA RIUNIONE DI QUESTA MATTINA, IN MATERIA DI SICUREZZA NELLE CARCERI SONO COPERTE DAL PIU’ STRETTO RISERBO. AL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA NESSUN COMMENTO E NESSUNA INFORMAZIONE E’ FILTRATA AL PROPOSITO, SI SMENTISCE SOLTANTO L’IPOTESI CHE TRA ESSE SIA COMPRESO IL PROGETTO DI RIAPRIRE IL CARCERE DELL’ASINARA. TENENDO COMUNQUE CONTO DELLE MISURE CHE NEI MESI SCORSI ERANO ALLO STUDIO DEGLI ESPERTI SI POSSONO AVANZARE DELLE IPOTESI: SEMBRA PROBABILE CHE (COME DEL RESTO E’ GIA’ AVVENUTO IN OCCASIONE DI ALTRI MOMENTI DI TENSIONE  NELLE CARCERI) VENGANO CONTROLLATI CON MAGGIOR RIGORE TUTTI I CONTATTI CON L’ESTERNO DEI DETENUTI DELLE SEZIONI SPECIALI. QUESTO VORRA’ DIRE, PROBABILMENTE, CHE IN QUESTE SEZIONI VERRANNO ABOLITI I COLLOQUI STRAORDINARI; CHE NON SARANNO PIU’ CONSENTITI COLLOQUI CON I FAMILIARI SENZA IL VETRO DIVISORIO; CHE SARANNO INTENSIFICATI I CONTROLLI SUI PACCHI CHE GIUNGONO AI DETENUTI E SULLA CORRISPONDENZA; VERRA’ INTENSIFICATA LA SORVEGLIANZA ESTERNA PER NON VESSARE INUTILMENTE DETENUTI CHE NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI MA IN ALCUNI CASI SI TROVANO A STRETTO CONTATTO CON  ”GLI SPECIALI”, PROBABILMENTE VERRA’ ACCELERATO IL PIANO ALLO STUDIO DA TEMPO CHE TENDE A MIGLIORARE LA SITUAZIONE DEI COSIDDETTI ” DETENUTI DEFINITIVI TRATTABILI” (COLORO CIOE’ CHE DEVONO SCONTARE LUNGHE PENE MA NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI). QUESTI, SECONDO IL PROGETTO ALLO STUDIO, DOVREBBERO VENIR CONCENTRATI IN CARCERI SITUATE NELLE RISPETTIVE REGIONI DI PROVENIENZA E DOVE SARANNO VIGENTI TUTTI I BENEFICI INTRODOTTI DALLA RIFORMA.
CZ BM
8-GEN-82 21:11 NNNN

Questo secondo dispaccio annuncia le prime avvisaglie di quella che sarà l’introduzione dell’articolo 90, ovvero l’instaurazione di uno stato di eccezione dentro le carceri e l’avvio di circuiti differenziati che approderà successivamente alla nascita delle aree omogenee, dove venivano concentrati i detenuti dissociati, formalizzato con decreto ministeriale il 22 dicembre 1982. In una intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il 25 agosto 1983, il direttore della Direzione Amministrativa Penitenziaria, Nicolò Amato, dichiarava che l’applicazione dell’art. 90 O.P. riguardava 18 istituti e poco meno di un migliaio di persone.

L’attenzione tuttavia va incentrata soprattutto sul primo dispaccio nel quale si riferisce che le misure prese sono di «carattere amministrativo», ovvero decisioni che emanano dalla diretta competenza dell’esecutivo e dei singoli ministri. Decisioni rivolte su due materie presentate in modo distinto: la «lotta al terrorismo» e la «sicurezza nelle carceri». Misure, infine, vincolate dal «più stretto riserbo».

E’ subito dopo questo vertice, la cui importanza strategica è dimostrata dal coinvolgimento inusuale di altri ministri (La Malfa, Di Giesi e Altissimo in rappresentanza delle altre forze politiche della coalizione di governo) che cominciano a circolare sui giornali le prime voci su un via libera concesso dall’esecutivo all’impiego della tortura per acquisire informazioni durante gli interrogatori.

In realtà il vertice del Ciis è solo il punto terminale di un processo decisionale avviato nei giorni precedenti, come dimostra la creazione di un gruppo operativo avente l’incarico di provvedere al coordinamento nazionale delle indagini sul sequestro, istituito con un decreto del ministro dell’Interno Rognoni il 28 dicembre precedente. E’ attorno alla nascita di questa struttura speciale e delle sue competenze e modalità di azione che prende forma la decisione di ricorrere in modo sistematico alla tortura impiegando gli esperti (il professor De Tormentis e la sua squadra, ma non solo) di cui disponeva la polizia.

Ciò spiega perché la sera del 4 gennaio 1982 Umberto Improta chiama d’urgenza Nicola Ciocia, alias De Tormentis, affinché sottoponga al «trattamento» Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, arrestati  appena 24 ore prima in via della Vite a Roma. I due erano militanti del Partito guerriglia, denominazione assunta dal Fronte carceri e dalla Colonna napoletana delle Brigate rosse dopo la scissione. Non c’entravano nulla con il sequestro Dozier ma gli inquirenti speravano in ogni caso di rompere il muro del silenzio, aprire le prime crepe nella struttura organizzativa.

Le feroci torture inferte avranno successo. Le dichiarazioni estorte permettono alla polizia di arrivare all’arresto di Govanni Senzani che imprudentemente era rimasto nell’abitazione conosciuta dai due militanti. Un arresto chiavi in mano: gli agenti della Digos entrarono e incappucciarono nel sonno il fondatore del Partito guerriglia.

Enrico Deaglio su Lotta continua dell’8 febbraio 1982 rompe il muro del silenzio e denuncia l’impiego della tortura, «deciso in varie riunioni di altissimo livello nei giorni tra lunedì 11 e mercoledì 13 gennaio; giorni in cui il Consiglio dei ministri decise importantissime quanto tuttora misteriose misure d’emergenza contro il terrorismo; giorni in cui vi furono riunioni tra il presidente del Consiglio e i massimi responsabili dell’Arma dei carabinieri, della polizia e dei servizi di sicurezza. Si dice, infine, che presa la decisione, i ministri si vincolarono al segreto e si impegnarono a coprire le decisioni che avevano preso in qualsiasi caso».

In un comunicato del 18 marzo 1982 (quello della ritirata strategica) le Brigate rosse Partito comunista combattente  si da notizia di una riunione del Ciis (informazione tratta come sempre dall’attenta lettura dei quotidiani delle settimane precedenti) in cui sarebbe stato dato l’avallo alla tortura. «Spadolini – scrivono – ha provveduto in riunioni separate a comunicarlo ed accordarsi con tutti i segretari dei partiti compreso il Pci, a quest’ultimo ha mostrato lo spettro di una inversione militare pilotata dagli americani. Così si sono garantiti l’assenso completo e il silenzio sulla tortura. Il Pci e il sindacato anche quando gli arresti li riguardavano da vicino, recitano con monotonia lo stesso ritornello: ribadiamo la nostra fermezza per la lotta contro il terrorismo. Sospensione cautelativa». (Potete trovare l’intero documento in Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 166-170. Il passo citato è a pagina 169).

Dei ministri che parteciparono a quelle riunioni sono ancora in vita Virginio Rognoni e Renato Altissimo.

Numerosi casi di tortura affiorano nel corso del 1982. Le denuncie tuttavia restano limitate rispetto al fenomeno reale. I casi identificati si aggirano attorno ai 18-20. Le modalità spazio-temporali in cui questi eventi accadono lasciano trasparire chiaramente la non episodicità e la non occasionalità di queste pratiche. Uno specifico apparato di tortura era stato costituito con protocolli di arresto e interrogatori violenti ben rodati. Si tratta di pratiche che non si improvvisano ma che necessitano dei nullaosta da parte delle gerarchie e di una struttura predisposta oltre che di un addestramento predefinito.

Per apparato della tortura deve intendersi un sistema complesso di convergenza di alcuni poteri: Governo, ministri di riferimento come Interni, Giustizia e Difesa, organi di polizia (nel caso specifico Digos, Nocs e Ucigos) e infine il ruolo decisivo, di fiancheggiamento e copertura, fornito dalla magistratura.

Le tecniche messe in atto:
Waterboarding (annegamento simulato) con la specifica del sale
L’uso di scariche elettriche riprese dalla tradizionale gegène delle truppe francesi in Algeria
Sevizie di natura sessuale, con particolare accanimento sulle donne
Bruciature
Pestaggi
Tagliuzzamenti
Fucilazioni simulate
Sostanze chimiche (in alcuni casi… ma la circostanza non è stata accertata con sicurezza)
Tecniche classiche come quella di impedire il sonno e trattenere il prigioniero in posture dolorose

Le modalità d’arresto non seguono la prassi legale: incappucciamento al  momento della cattura (tant’è che spesso la popolazione crede di assistere a dei rapimenti. Gli arrestati vengono trattenuti per settimane o mesi nelle questure, caserme, sotterranei, oppure portati in luoghi sconosciuti, non ufficialmente adibiti a trattenere persone fermate).

Il ministero dell’Interno e le procure competenti non hanno mai avviato inchieste (salvo quella di Padova, caso Di Lenardo) per accertare i fatti.

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Torture contro i militanti della lotta armata

Il generale Dozier incontra i giornalisti per il trentennale della sua liberazione: tranquilli nessuno parlerà delle torture!

Il generale James Lee Dozier, l’ex ufficiale statunitense comandante del settore meridionale della Nato, rapito dalle Brigate Rosse e liberato il 28 gennaio del 1982, dopo un’inchiesta segnata dal ricorso sistematico alle torture, ha incontrato oggi i giornalisti nei locali dell’Hotel Milton di Roma, in via Emanuele Filiberto 155. L’appuntamento era fissato per le 17. L’evento è stato organizzato per “festeggiare” il trentennale della sua liberazione insieme ai 12 uomini che agli ordini di Edoardo Perna, comandante del nucleo Nocs che penetrò nell’appartamento di via Pindemonte a Padova, riuscirono a liberare il generale della Nato.
«Sarà un’incontro di festa e allo stesso tempo l’occasione per rievocare e conoscere nel dettaglio l’operazione che portò alla sua liberazione», ha detto ieri all’Adnkronos Edoardo Perna. «Arrivammo all’appartamento a bordo di un camion, simulando un trasloco. Fu un’operazione perfetta, in pochi secondi riuscimmo a liberare Dozier», ricorda sempre Perna.
Questo è il link del servizio passato al Tg1 delle 20.00.
Ma il racconto di Perna è solo solo un breve fotogramma dell’operazione che prese inizio, come racconta qui sotto Salvatore Genova, all’epoca dei fatti commissario della Digos aggregato all’Ucigos, in un’intervista rilasciata il 24 giugno 2007 e confermata recentemente in una puntata di Chi L’ha visto? su Rai3, con la tortura scientifica di due «fiancheggiatori delle Br» ed in particolare su una donna, Elisabetta Arcangeli, messa in pratica da una squadra speciale del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia-professor De Tormentis, in una chiesa sconsacrata di Verona.

Aggiungiamo solo una piccola postilla al racconto dell’operazione di salvataggio del generale fatta da Matteo Indice, grazie alle dichiarazioni di Salvatore Genova e dell’anonimo funzionario, che poi – recentemente – si è scoperto essere Nicola Ciocia, alias De Tormentis, allora in forza all’Ucigos col grado di primo dirigente: sembra che su quei 100 milioni che un’altro importante funzionario dell’Ucigos si recò a ritirare a Roma venne fatta la cresta. Agli arrestati che sotto tortura divvennero collaboratori di giustizia fu consegnata la metà della somma presa dal fondo segreto del ministero dell’Interno. Anche la ragion di Stato ha il suo prezzo!

La vera storia della liberazione di Dozier

Matteo Indice
Il Secolo XIX
, 24 giugno 2007,  pagina 2

La soffiata decisiva per la liberazione del generale americano James Lee Dozier, vicecapo della Nato in Italia rapito dalle Br a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a Padova il 28 gennaio 1982 arrivò grazie alla tortura, scientifica,di due fiancheggiatori, messa in pratica in una chiesa sconsacrata a Verona, «un passaggio che impressionò persino la Cia». E dopo la liberazione, almeno 100 milioni delle vecchie lire furono distribuiti “informalmente” fra alcuni “pentiti”, le cui rivelazioni diedero impulso decisivo alla soluzione dell’inchiesta: gli stessi pentiti, ovviamente, non rivelarono mai nulla di preciso sulle sevizie.
È questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, raccolta dal Secolo XIX direttamente da due dei funzionari di polizia che parteciparono alle fasi più delicate di quell’operazione.
Di uno, Salvatore Genova (all’epoca commissario della Digos genovese “aggregato” all’Ucigos) abbiamo rivelato nei giorni scorsi l’identità. L’altro l’abbiamo raggiunto a Napoli, ed è il superpoliziotto che guidava saltuariamente “I cinque dell’Ave Maria”, una squadra specializzata in interrogatori violenti. Ne rispettiamo, al momento, la richiesta dell’anonimato. Ma le loro dichiarazioni colmano la lacuna che il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per il pestaggio dei br sequestratori (ma non dei fiancheggiatori, ndr) descrissero nella requisitoria e nella sentenza di primo grado. Rimarcarono che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – rivela oggi l’investigatore anonimo [Nicola Ciocia Ndr], con il quale abbiamo avuto il lungo colloquio riportato a pagina 3 – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza». Da Salvatore Genova arrivano invece le chiarificazioni sulle tappe che segnarono la soluzione del giallo. «Furono messe sotto controllo centinaia di utenze telefoniche, con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, in particolare le conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro investigativo era la questura di Verona, dove di tanto in tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uomini in divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare ». È in questo modo che vengono individuati RuggeroVolinia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati in questura – prosegue Genova – e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare indicazioni tanto importanti».
Non potevano immaginare, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di Lungadige Catena a Verona al covo di via Ippolito Pindemonte, a Padova. Aggiunge, Genova: «Un gruppo specializzato si occupò dell’interrogatorio. Separarono Volinia dalla compagna e su di lei ci furono violenze. Io non partecipai all’azione, ma in seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera in cambio del silenzio».
È solo la prima parte. «Sentendo le urla disumane della fidanzata, Ruggero Volinia a un certo punto supplicò di fermarsi. E iniziò a fare qualche nome; nulla di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». È lì che entrano in scena, direttamente, “I cinque dell’Ave Maria”. La conferma arriva da Napoli, a distanza di 25 anni, dalla voce del superiore che li guidava. «Io ribadisce il superpoliziotto [Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis] che non è mai stato coinvolto in alcun procedimento mi trovavo a cena in un ristorante con il capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, che mi disse dell’interrogatorio in corso. Fu deciso allora di trasferire Volinia in una chiesa sconsacrata, un luogo più isolato, e qui ottenemmo indicazioni sensazionali. Anch’io raggiunsi il santuario, insieme ai miei, e lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due fra gli ufficiali della Cia che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mani nei capelli: “Non credevamo, dissero, che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale”».
L’autista è provato da una giornata infernale e alla fine cede, racconta tutto. «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier?». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio, nella chiesa nessuno osa fiatare, a quel punto. E il prosieguo delle operazioni è cronaca nota: il blitz ad opera dei Nocs nella casa di via Pindemonte, dove Dozier era recluso sotto una tenda, e l’arresto dei brigatisti Antonio Savasta, Emilia Libera, Cesare Di Lenardo (colui che fece scattare la prima e circoscritta indagine sulle torture), Giovanni Ciucci e Daniela Frascella. Nei giorni successivi accadono altre cose, che nessuna indagine ha mai svelato con chiarezza. Le chiarifica ancora Salvatore Genova: «Un altro dei funzionari che parteciparono alle fasi finali degli accertamenti, e che assistette alle torture, andò a Roma a prelevare i soldi destinati ad alcuni pentiti, stornati da un fondo segreto destinato a quel tipo di risarcimento». Le stesse cose potrebbe ripetere a breve, davanti ai magistrati veneti che allora si occuparono del caso.

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Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
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Il generale Dozier partecipa alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, il vicequestore che diede il soprannome “De Tormentis” a Nicola Ciocia, torturatore esperto di waterboarding

Forse non lo sapevate ma esiste anche un premio intitolato alla memoria del prefetto Umberto Improta. Chi era Improta?
Molti di voi, almeno quelli che hanno letto i ripetuti post sulla storia delle torture e le gesta del professor De Tormentis, pseudonimo coniato proprio da Improta dietro il quale si cela l’identità del funzionario dell’Ucigos oggi in pensione, Nicola Ciocia, già lo sanno.
Per chi ancora non lo dovesse sapere, Improta è stato una delle figure centrali della polizia politica, responsabile dell’ufficio politico della questura di Napoli nei primi anni 70, poi all’Ucigos, poi questore a Roma e infine a coronare una carriera da sbirro all’acqua e sale (Lo Sbirro. Umberto Improta, vita e indagini, Laurus Robuffo, 2004, è il titolo di un libro carico di omissis e sibilline allusioni che gli ha dedicato Piero Corsini), l’incarico a prefetto di Napoli, sua città natale, e – dulcis in fundo – di commissario straordinario ai rifiuti in Campania.
A dire il vero la sua carriera si chiuse malamente nel 1995, quando decise di lasciare l’incarico tra le lacrime in una drammatica conferenza stampa. Aveva ricevuto un avviso di garanzia per presunte irregolarità nella concessione di licenze ad istituti di vigilanza nel Napoletano. Vicenda che più tardi si concluse comunque con un’assoluzione. La morte lo colse nel 2002.
Nel libro sopra citato si dice, come se niente fosse, che quando c’era bisogno di “scuotere” un’arrestato, insomma di interrogarlo con le maniere forti, veniva chiamato Improta. Tutti sanno, in polizia e fuori, nel mondo dell’avvocatura, del giornalismo giudiziario, delle procure, di chi si è occupato un po’ delle vicende e delle indagini sulla lotta armata, che il nome di Improta è legato al cono d’ombra delle torture. Sulla sua scia infatti seguiva sempre il “professor De Tormentis”, suo inseparabile collega. Il suo nome è legato ad episodi rimasti irrisolti, come l’uccisione di Giorgio Vale, militante dei Nar ucciso con un colpo in testa sparato a bruciapelo al momento del suo arresto.
L’ex commissario Salvatore Genova ha più volte fatto il nome di Improta, nel libro di Nicola Rao e durante la trasmissione Chi l’ha visto, su Rai tre. Nome bippato ma comprensibile. Nel libro di Rao, Genova indica il trio al completo dell’Ucigos comandata da Gaspare De Fracisci: Improta, Fioriolli e De Gregorio, funzionari sempre presenti, dunque pienamente al corrente, attivamente partecipi, corrivi e omissivi, durante le varie fasi degli interrogatori sotto tortura da cui attendevano solerti i risultati, ovvero che il seviziato sputasse fuori nomi e indirizzi oppure l’anima se non sapeva nulla. E se questi primi “approcci” non davano i risultati sperati passavano alla fase successiva, al grado superiore: sollecitando l’intervento del “professor De Tormentis” che girava su è giù per le questure e le caserme d’Italia sempre pronto a mettere in pratica il suo trattamento a base di acqua e sale fatta ingurgitare con la forza.

A parlare di Improta fu anche la magistratura: il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per le torture sui Br al momento del blits che portò alla liberazione del generale Dozier. Nella requisitoria e nella sentenza di primo grado si riconosceva che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – ha rivelato il professor De Tormentis, l’autore degli interrogatori a base di acqua e sale, la cui identità è ormai divenuta di dominio pubblico (Nicola Ciocia) – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza».

Alla memoria di Improta è stato istituito un «prestigioso riconoscimento» che sorprendentemente non consiste nella scelta della migliore bottiglia di acqua salata o nella migliore produzione di sale iodato, o ancora nella scelta di un campione di apnea, ma nella premiazione del personale della polizia di Stato distintosi per aver dato dimostrazione nel corso dell’anno di «non comune determinazione operativa», «elevata professionalità» e «sprezzo del pericolo».

«La cerimonia – come recitano le note d’agenzia – è iniziata stamani alle 11 presso la Scuola superiore di Polizia di Roma, sita in via Guido Reni nel quartiere Flaminio. Il premio è giunto alla nona edizione e vuole riconoscere il merito degli appartenenti alla Polizia di Stato che si sono distinti particolarmente per la loro professionalità operativa».
Quest’anno c’è stata una presenza d’eccezione oltre a quelle rituali dei vertici di polizia rappresentati per l’occasione dal Vice Capo, prefetto Francesco Cirillo, dal questore di Roma, Francesco Tagliente, dal neo direttore della Scuola, Roberto Sgalla, dai vertici del Dipartimento della Pubblica Sicurezza coadiuvati dal fondatore del premio, l’avvocato Amedeo Tarsia in Curia, dal giornalista Rai Franco di Mare e dai familiari di Improta.
A celebrare il prefetto scomparso c’era anche il generale James Lee Dozier che – recita sempre la nota d’agenzia ­– «insieme ai diplomatici statunitensi ha voluto ricordare, a 30 anni dal sequestro, come la sua liberazione sia avvenuta grazie alle indagini coordinate Improta, allora in servizio all’Ucigos».
Metodi delle indagini che dopo le rivelazioni di Salvatore Genova e le ammissioni a denti stretti di Nicola Ciocia sono note a tutti.
A chiudere il siparietto hanno assistito anche degli ignari alunni della scuola elementare di Roma, Principessa Mafalda.

«Tutti – conclude il dispaccio d’agenzia – hanno voluto ricordare la figura non solo professionale ma anche personale del Prefetto Improta, esempio per tutti gli operatori di Polizia. Il prefetto Cirillo e Sgalla, si sono rivolti ai frequentatori del corso di formazione presso la Scuola, evidenziando come anche nei momenti difficili del suo percorso professionale, Improta non abbia mai abbandonando il profondo senso dello Stato».

In Italia succede anche questo. Soprattutto questo.

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La tortura c’era

Dopo trent’anni PierVittorio Buffa torna a scrivere delle torture. La sua è una testimonianza importante: per averlo fatto nel febbraio 1982 venne messo in carcere. Un mese dopo fu la volta di Luca Villoresi. Per  la magistratura avevano indagato troppo, messo il naso dove non si doveva, raccolto testimonianze inopportune, trovato scomodi riscontri. E’ questo un’altro aspetto dimenticato di questa storia: l’attacco alla libertà di stampa, il bavaglio messo sulla bocca di chiunque provava a denunciare quello che stava accadendo.
Tempo fa Buffa ci aveva concesso un’intervista nella quale raccontava la sua esperienza Leggi qui

La tortura c’era

Di PierVittorio Buffa
http://buffa.blogautore.repubblica.it/2012/02/16/la-tortura-cera/

Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent’anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all’Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c’è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e LEspresso, non e’ gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre. Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l’essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell’articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell’intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent’anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verità. Confermano che la tortura programmata e’ davvero esistita nel nostro paese. Che l’acqua e il sale non erano l’invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verità. A me resta l’amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice. Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze. Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent’anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta. E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.

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