Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sulle ragioni complottiste che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est. Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola sui “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter ed alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che in settembre giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4) L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979, che all’interno delle carceri avrebbe dovuto avvicinare alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati anche perché nel 1977 i Br vennero trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Oltretutto – stando alla testimonianza di Gardner – l’operazione di infiltrazione sarebbe stata avviata alla fine del 1978, quando ormai per Stark era impossibile avvicinarli. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria. L’altro aspetto degno di nota riguarda i funzionari del ministero dell’Interno italiano che ebbero ripetuti incontri con Stark nel carcere di Matera, tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore dei Br Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.

Il Pci e gli amici americani /2

«Alla fine degli anni 70 l’ambasciata americana a Roma era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci». La restituzione del contesto storico sbriciola il principale movente che ha alimentato la letteratura dietrologica negli ultimi decenni – Leggi qui la Prima parte

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Dalla metà degli anni Settanta il Pci e l’ambasciata americana avviano una sorta di «politica dei contatti», una tessitura che passava attraverso relazioni di vario livello, soprattutto riservate, in alcune circostanze molto formali anche di natura pubblica, con esponenti della diplomazia e dell’intelligence statunitense. Eurocomunismo e compromesso storico, le due novità politiche introdotte da Berlinguer, avevano dato al Pci un rilievo internazionale attorno al quale ruotava l’inevitabile attenzione e l’interesse delle cancellerie occidentali per capire meglio i possibili sviluppi della situazione, adeguarsi alla possibile entrata nel governo del più importante partito comunista d’Occidente che alle elezioni regionali del 1975 aveva compiuto un balzo di 5 punti, minacciando il primato trentennale della Dc.

Il rapporto Boies

Proprio nel 1975 fu preparata una relazione, nota come Rapporto Boies, dal nome del primo segretario dell’ambasciata degli Stati uniti a Roma, Robert Boies, estensore del testo e forse funzionario della Cia sotto copertura, nel quale si prospettava l’arrivo al potere nel breve periodo del Pci. L’opinione però era in contrasto con le convinzioni del segretario di Stato, Henry Kissinger, e per queste ragioni non produsse effetti immediati; tuttavia, come ha spiegato il professor Joseph La Palombara, era condivisa da molti1. D’altronde, prosegue La Palombara, «vari personaggi che all’epoca testimoniarono al Congresso sul “caso Italia” ne erano convinti, e le elezioni del 1976 confermarono l’onda lunga comunista. Scrissi in quel momento che m’aspettavo anch’io il Pci al governo, ma non da solo e non senza problemi»2. La Cia sosteneva la necessità di aprire rapporti con il Pci e di individuarne gli interlocutori giusti in vista di un suo probabile accesso al governo e l’analisi di Boies era frutto di un lavoro protratto nel tempo: il 13 agosto 1974, infatti, Sergio Segre, responsabile della sezione Esteri del Pci, aveva già riferito a Berlinguer di alcuni incontri avuti con Boies poco tempo prima del suo rientro negli Stati uniti. In procinto di lasciare l’ambasciata, Boies aveva quindi presentato a Segre il suo successore, Martin Arthur Weenick. Nel corso di quell’incontro – riferisce Segre – il nuovo primo segretario dell’ambasciata Usa aveva ritenuto maturi i tempi di «un dialogo fruttuoso» tra le parti «superando le barriere di questi anni»3.

La politica dei contatti
Prima del 1975, scrive Silvio Pons, Segre era stato il solo esponente del Pci ammesso ad avere rapporti con l’ambasciata americana4, ma dal 1975 anche Luciano Barca entrò a far parte di quella dinamica. E fu proprio Barca a raccontare per primo l’incontro tra un membro della Direzione del Pci ed emissari del governo degli Stati Uniti: «Nel giugno del 75, per iniziativa americana il primo segretario dell’ambasciata americana Weenick, con la motivazione di voler meglio capire la politica economica del Pci, prende contatto con me (ovviamente autorizzato da Berlinguer). È la prima volta che viene stabilito un contatto diretto con un membro della Direzione del Pci, anche se mascherato da interesse per le nostre proposte economiche. In realtà questo interesse non era solo una maschera tanto che al secondo incontro partecipò anche il rappresentante del Tesoro americano. Poiché gli incontri cominciarono ad essere periodici e ad entrare sempre più in questioni politiche decidemmo con Berlinguer di porre a Weenick la necessità di incontrare, prima di una nuova colazione, Giancarlo Pajetta, membro della Segreteria e nostro «ministro degli Esteri». La richiesta spaventò evidentemente l’ambasciatore e il Dipartimento di Stato perché bloccò per circa due mesi gli incontri. Alla fine entrambi accettarono un mio invito a pranzo da Piperno [noto ristorante situato nel Ghetto a Roma. Ndr]. Il primo contatto fu brusco. Pajetta si presenta ed esordisce così: “Non riesco a capire perché un membro della segreteria del Partito comunista – lui era molto conscio del suo ruolo, io l’ho visto anche all’estero, è un vero ministro degli esteri, difensore in tutte le occasioni della dignità italiana – non debba avere paura di incontrare un alto ufficiale della Cia, e un alto ufficiale della Cia debba aver tanta paura di me”. Così è iniziato l’incontro, e Weenick, da buon incassatore, ha risolto tutto sorridendo»5. Alla vigilia del primo incontro Barca aveva cercato di capire se il funzionario dell’ambasciata americana fosse un uomo della Cia: «Mi fu detto di sì e mi fu specificato che come tale era stato espulso da Mosca, a causa dei contatti che cercava con i dissidenti sovietici»6. Che Weenick fosse veramente un agente sotto copertura della Cia incaricato di raccogliere da fonti dirette informazioni sulla evoluzione del Pci non è del tutto certo (ed è anche secondario), e anni dopo Barca ricevette una diversa informazione che situava il funzionario alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Ciò che risulta rilevante sul piano storico è il fatto che due importanti dirigenti del Pci, su mandato del segretario e della sezione Esteri del partito, si incontrarono per diverso tempo con un funzionario che consapevolmente ritenevano essere un membro dell’agenzia di intelligence Usa. L’esito degli incontri fu molto positivo, tanto che poi «sono cominciati ad arrivare altri americani, anche quelli della Exxon tra gli altri, tutti in cerca di assicurazioni nel caso il Pci andasse al governo. Noi a tutti esponevamo la nostra politica: non volevamo nazionalizzare, ma anzi volevamo vendere molte aziende Iri non strategiche. Ciò li tranquillizzava. Molti rappresentanti di gruppi americani, forse perché vittime della corruzione dilagante in Italia e del crescente intreccio tra affari e politica, apprezzarono molto il discorso di Berlinguer sull’austerità (1977) che mostrarono di aver capito meglio della destra del nostro partito»7. Tra i cablo inviati dalla sede diplomatica romana al dipartimento di Stato ce n’è uno del 2 maggio 1978 che riferisce il risultato di una delle conversazioni periodiche che Barca teneva con i funzionari dell’ambasciata, svoltasi il 20 aprile precedente. Vi si può leggere che «l’alto esponente del Pci ci ha detto che il suo partito resta fermamente contrario a negoziati che portino a concessioni ai rapitori di Aldo Moro» e ha «fornito al governo delle informazioni su ex membri del Pci che adesso si ritiene stiano cooperando con i terroristi dell’estrema sinistra». «Sin dal rapimento – sono le parole di Barca riportate nel cablo – nel corso dell’ultimo anno il Pci ha consegnato al ministero degli Interni informazioni anche su alcuni nostri amici che riteniamo stiano partecipando a gruppi delle Br presenti in certe aziende come Sip e Siemens». Alle osservazioni del funzionario che lamenta un articolo di Macaluso apparso su l’Unità nel quale si suggerisce il coinvolgimento della Cia nel rapimento Moro, Barca replica: «La direzione del Pci ha ordinato, a lui e altri, di astenersi dal ripetere tali accuse senza fondamento poiché il Pci non ha alcun elemento che possa suggerire un coinvolgimento della Cia nel rapimento»8.

Carter e “la diplomazia delle conferenze”
Con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter, nel gennaio 1977, trovò nuovo slancio la «diplomazia delle conferenze» ossia l’idea di ricorrere alla politologia come arma diplomatica, invitando negli Usa gli esponenti dell’Eurocomunismo a tenere dei cicli di lezioni nelle università. Sostenere lo sganciamento dei partiti comunisti occidentali dalla sfera d’influenza sovietica rientrava nella strategia americana, che mirava a rafforzare le spinte di dissenso all’interno del campo socialista. «Prima di fare una richiesta formale all’amministrazione abbiamo comunque sondato l’ambiente», racconta La Palombara: «Cyrus Vance [il nuovo segretario di Stato] lo conoscevo da prima, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione della Yale University. “Zibig” Brzezinski, che ora era consigliere per la Sicurezza nazionale, avrebbe già potuto dirci se l’idea era ok». Anche il presidente Carter era informato, spiega La Palombara, «perché Brzezinski non era certamente in grado, da solo, di mutare la politica dei visti ai dirigenti comunisti. A tal fine, inoltre, occorreva un lavoro di preparazione con il Congresso americano, e con i nostri sindacati, Afl-Cio, da sempre ferocemente anticomunisti. Insomma non bastava che Brzezinski bussasse allo studio ovale, soprattutto dopo le elezioni italiane del 1976»9.
 Tra coloro che si attivarono per creare un canale di comunicazione tra la nuova amministrazione statunitense e il Pci troviamo Franco Modigliani, futuro premio Nobel per l’economia, che venne più volte consultato dal Dipartimento di Stato sulla situazione economica e politica italiana. Questi aveva consigliato l’apertura al Pci e alla Cgil, ritenuti i soli in grado di arginare la protesta sociale e far accettare i sacrifici richiesti. Nel corso del 1976 aveva più volte incontrato Napolitano, in quel momento responsabile del settore economico del Pci10.

La diplomazia personale di Giorgio Napolitano
Nel novembre del 1976, dunque prima dell’insediamento ufficiale di Carter, giunse in visita a Roma il senatore Ted Kennedy. Sembrò l’occasione ideale per un incontro con un esponente del Pci, o almeno questa era la convinzione di Napolitano che, sia pur privo di incarichi nella politica estera del partito, fece di tutto per accreditarsi. L’entourage del senatore Kennedy agì in modo prudente e sotto stretta osservazione dell’ambasciata, che riferiva ogni suo movimento al Dipartimento di Stato. Oltre al presidente della Repubblica Leone, al presidente del consiglio Andreotti e al presidente della Fiat Gianni Agnelli, i politici ammessi agli incontri ufficiali furono solo i segretari della Dc, Zaccagnini, e del Psi, Craxi. Il responsabile dell’ufficio Esteri del Pci, Sergio Segre, ricevette un invito unicamente per la cena di cortesia insieme ad altri 30 ospiti. Kennedy non volle che l’evento fosse fotografato e l’ambasciatore Volpe riportò a Kissinger ogni minimo dettaglio, anche la disposizione a tavola degli invitati. In quella circostanza, riferisce Volpe in un documento stilato per il Segretario di Stato, «ci risulta che siano stati fatti almeno tre tentativi per inserire l’esperto economico del Pci, Napolitano, nella lista degli incontri, ma la squadra di Kennedy ha rifiutato»11. Una dimostrazione della pervicacia del personaggio e della propensione a tessere una sua diplomazia personale accanto a quella del partito.

La politica di «non interferenza, non indifferenza»
Nel marzo del 1977 arrivò da parte della nuova amministrazione democratica un primo prudente segnale di cambiamento: il segretario di Stato Vance e il ministro del tesoro Michael Blumenthal stilarono un memorandum per il presidente dove si tracciavano le linee della cosiddetta politica di «non interferenza, non indifferenza», riguardo alla scelte che il governo di Roma avrebbe effettuato nel caso di un coinvolgimento del comunisti nell’esecutivo. Una strategia che modificava l’interventismo praticato da Kissinger durante le presidenze Nixon e Ford. Nello stesso documento si davano indicazioni meno rigide sui visti d’ingresso da rilasciare ai dirigenti del Pci e si fornivano nuove direttive sulla «politica dei contatti» da tenere con gli esponenti di quel partito. Era questo il quadro all’interno del quale doveva operare il nuovo ambasciatore scelto da Washington: Richard N. Gardner, giovane avvocato e professore di diritto internazionale alla Columbia University12. Divisa al suo interno su quelli che sarebbero stati gli sviluppi della situazione politica italiana, l’amministrazione statunitense assumeva una posizione di prudenza, e apparentemente attendista, che in sostanza chiedeva al Pci di fornire le conferme del proprio mutato atteggiamento in politica internazionale, dando prova della propria affidabilità, prima di essere chiamata ad assumere una diversa posizione nei suoi confronti. Gardner aveva il compito di svolgere, come vedremo, questa «politica degli esami», un delicato lavoro di approfondimento e verifica. «Ricevemmo dettagliate istruzioni dal dipartimento di Stato – scriverà nelle sue memorie – che consentivano un approfondimento dei contatti con il Partito comunista», estese anche a funzionari del Pci con o senza incarichi pubblici ma con modalità che non suscitassero «l’impressione che i comunisti avessero improvvisamente guadagnato il favore americano». Fu così che Martin Weenick, il funzionario addetto ai rapporti con il Pci che aveva già contatti regolari con Sergio Segre e «occasionali con altre tre o quattro persone», poté «vedere anche membri di spicco della segreteria del partito, come Pajetta e Napolitano»13.

Ramificazione dei contatti tra esponenti Pci e funzionari dell’ambasciata
L’estensione e l’approfondimento di queste relazioni fu tale che, racconta sempre l’ambasciatore, in un bilancio «della nostra politica dei contatti eseguito due anni dopo risultò che in quel momento l’ambasciata era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale»14. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci. Un rapporto della sezione politica dell’ambasciata riassumeva in questo modo la situazione: «Riteniamo un successo il programma di contatti. Ampliarli ci ha consentito di avere una più approfondita comprensione del partito e di formulare su di esso giudizi più accurati. Abbiamo avuto abbastanza successo nell’anticipare le sue mosse»15. Una ulteriore conferma di questa ramificazione e della profondità dei contatti tra diplomatici dell’ambasciata e apparato del Pci viene da una nota del 1 aprile 1978 nella quale il segretario della federazione provinciale di Piacenza, Romano Repetti, riferiva sull’incontro avuto con il console americano di Milano, Thomas Fina. Nella stessa occasione il console aveva visto anche responsabili della Cgil. Obiettivo del console era sondare le opinioni dei gruppi dirigenti provinciali, capire quanto la linea del gruppo dirigente centrale trovasse adesione nei vertici periferici. Tra i temi affrontati, al primo posto ci fu il sequestro Moro. «Il Console ha osservato – scrive Repetti – che esso avrebbe in qualche modo avvantaggiato il Pci perché aveva fatto superare alla base comunista lo scontento per la composizione del governo e perché qualificava il nostro partito nella pronta e concorde approvazione delle misure di rafforzamento dell’azione delle forze dell’Ordine e della Magistratura contro la criminalità. Ha manifestato la sua sorpresa per la grande risposta unitaria dei lavoratori nella giornata del rapimento, rilevato che per la prima volta nelle manifestazioni le bandiere rosse erano mescolate con quelle della Dc. Ha chiesto se il nostro partito aveva ordinato agli operai di uscire dalle fabbriche. Ha espresso interesse e meraviglia per quello che gli ho spiegato essere il naturale comportamento dei sindaci in circostanze come queste, cioè di convocare immediatamente riunioni con i dirigenti dei partiti e dei sindacati per concordare e promuovere iniziative unitarie»16. Nel luglio successivo il console approfondì i suoi contatti incontrando «due dozzine di funzionari Pci» della Lombardia arrivando alla conclusione che il «Pci in questa regione ha attraversato dei cambiamenti fondamentali» fino al punto da «far dire a molti responsabili locali sostanzialmente onesti che essi sostengono il modello di democrazia occidentale, inclusa la lealtà a Comunità europea e Nato». Il giudizio tuttavia non era condiviso dall’ambasciata di Roma che in un cablo del 19 luglio parlava di «conclusioni troppo ottimistiche» che a giudizio dell’ambasciatore Gardner non trovavano riscontro tra i dirigenti nazionali del partito17.

«Basta con la Dc», il dibattito in via Veneto
Il 3 marzo Allen Holmes, vice di Gardner e soprattutto Deputy Chief of Mission, ovvero diplomatico più alto in grado in via Veneto – perché Gardner era un ambasciatore di nomina politica – firmò un telegramma di undici pagine intitolato A dissenting of American politicy in Italy nel quale mostrava di dissentire radicalmente dalla politica estera statunitense condotta fino a quel momento in Italia. Il testo metteva informa un’opinione minoritaria ma presente nell’amministrazione Carter, che riteneva ormai superata «l’attitudine interventista» e la convinzione che l’Italia dovesse ancora essere considerata «una nazione a sovranità limitata»18. Il diplomatico suggeriva a Washington una «revisione politica che deve affrontare i fatti», i quali mostravano che l’alleanza con i democratico-cristiani aveva comportato «diversi svantaggi», trasformando l’America in «un fattore della politica interna italiana» che «ci porta a sminuire i fallimenti della Dc e a sopravvalutare la sua capacità di autoriformarsi». Il bilancio, secondo Holmes, era fallimentare: «Dovremmo essere onesti e ammettere che la perpetuazione al potere di un singolo partito non significa avere una democrazia sana» e che se in trent’anni gli Stati uniti non sono riusciti a «rafforzare la democrazia in Italia farebbero bene a lasciar perdere». Per il vice di Gardner andava rivisto «l’immutabile atteggiamento rispetto al Pci che invece sta cambiando»; a suo avviso l’amministrazione Usa era ferma «alle analisi del 1950 che lo descrivevano come il partito dei poveri mentre l’arricchimento della popolazione ha portato a un suo rafforzamento» e «la tradizione rivoluzionaria del Pci non è quella russa, i comunisti italiani non sanno nulla del comunismo russo e i suoi leader sono intellettuali marxisti dell’Ovest non dell’Est». Per il Deputy Chief di via Veneto, «la collaborazione con il governo Andreotti dal 1976, gli atteggiamenti responsabili sull’ordine pubblico, le posizioni moderate sull’economia, la formale accettazione della Nato e della Comunità europea, il discorso di Berlinguer al XIV Congresso del partito e la decisione della Cgil di abbandonare l’Organizzazione internazionale del lavoro [non potevano essere considerate] operazioni di facciata»19. 2/continua

Fonte: Paolo Persichetti in, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2007

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Note
1 Intervista a Joseph La Palombara (Politologo della università di Yale, tra i maggiori esperti della politica italiana, nel biennio 1980-81 fu capo dell’ufficio culturale dell’ambasciata americana a Roma) di G. Cubeddu, Alla ricerca della solidarietà nazionale, http://www.30giorni.it,4 aprile 2008, p. 3 (http://www.30giorni.it/articoli_id_17702_l1.htm).
2 Ibid.
3 Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 080, Estero 1974, f. 401.
4 S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, cit., p. 50.
5 L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/), scaricato il 26 aprile 2016), ma anche L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, Rubettino Roma, 2005, vol. II, pp. 601-603.
6 Ibid.
7 Ibid.
8 M. Molinari, Governo ombra. I documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, 2012, p. 109-112. Barca riferisce anche che Macaluso «è stato rimproverato per non aver informato il partito sul coinvolgimento di una figlia acquisita in un gruppo di estrema sinistra». Si trattava di Fiora Pirri Ardizzone.
9 J. La Palombara, Alla ricerca della solidarietà nazionale, Op. cit. p. 3.
10 F. Modigliani, L’impegno civile di un economista, a cura di Pier Francesco Asso, Protagon – Fondazione del Monte dei Paschi di Siena, 2007, pp. 35-37, cit. in P. Chessa, L’ultimo comunista. La presa del potere di Giorgio Napolitano, Chiarelettere, Roma 2013, p. 140.
11 la Repubblica, 8 aprile 2013, «Quell’incontro con Napolitano che Ted Kennedy rifiutò tre volte».
12 R.N. Gardner, Mission Italy, Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004 Italy, cit.
13 Ivi, p. 124. Cfr L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/).
14 R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 125.

Le torture ai brigatisti raccontate da Luigi Bisignani

luigi-bisignani-uomo-sussurra-potenti-acquista-libro-online-sconto-scarica-download-pdf1Chi è Luigi Bisignani? I magistrati che lo hanno arrestato qualche tempo fa per poi concedergli i domiciliari, lo hanno descritto come un «soggetto più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza». Uno che sa o che lascia credere di sapere, che del posseso di informazioni riservate ha fatto il suo mestiere.
Coinvolto in un’inchiesta sul mondo delle lobby, condotta dai pm napoletani Francesco Curcio e Henry John Woodcock, Bisignani si è visto contestare l’appartenenza ad un’associazione per delinquere finalizzata alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, in un misto, secondo l’accusa, di dossier e ricatti, anche attraverso interferenze su organi costituzionali realizzate manovrando un sistema informativo parallelo.
Trovare una definizione esatta per collocarlo è difficile: faccendiere, lobbista, uomo d’affari, addentro al mondo dell’informazione e dei servizi, capace di far circolare e orientare notizie, a suo tempo iscritto alla loggia P2, insomma un uomo di relazioni, punto di raccordo tra ambienti diversi, sempre capace di far valere i suoi rapporti influenti, la ricca agenda e la quantità di informazioni riservate in suo possesso. Un evergreen del potere discreto, che non agisce in prima fila ma dietro le quinte del palcoscenico.
In un libro-intervista, L’uomo che sussurra ai potenti, appena apparso per Chiarelettere, rispondendo alle domande del giornalista Paolo Madron, Bisignani si diverte a raccontare retroscena, piccoli segreti, gossip, lo fa con ironia, schizza ritratti velenosi di personaggi della finanza, della politica, della chiesa, della magistratura (tra i più gustosi), dei Servizi segreti, dei media, in altri casi è servile, appare un magiordomo del potere, ogni tanto rivela qualche verità. Tra queste, in una paginetta e mezza racconta delle torture condotte nel 1982 dalla squadra del professor De Tormentis, ovvero quel Nicola Ciocia che i lettori assidui di questo blog conoscono molto bene. Se un frequentatore del potere come Bisignani sapeva, quanti altri come lui sapevano?
Eccovi l’estratto, buona lettura

Bisigna 1Bisigna 2bisPer saperne di più
Chi è “Tormentis”?

Il processo di Perugia
Non erano calunnie, il tribunale di perugia riapre il processo sulle torture contro le Br
Il processo alle torture si farà. La corte d’appello di Perugia accoglie la richiesta Enrico Triaca, il tipografo delle Br sottoposto a waterboarding dal poliziotto dell’Ucigos Nicola Ciocia
A Perugia il processo alle torture di Stato di militant blog.org
Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato
Processo alle torture, il professor De Tormentis chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura
Il brigatista torturato chiede la revisione del processo. Vuole sapere tutto sulla squadra speciale guidata da Nicola Ciocia che praticava il waterboarding
Enrico Triaca denunciò le torture ma fu condannato per calunnia. In un libro il torturatore Nicola Ciocia-alias De Tormentis rivela “Era tutto vero”. Parte la richiesta di revisione
Condannato per calunnia dopo aver denunciato le torture, Triaca chiede la revisione del-processo

Per approfondire la storia delle torture
Le torture della repubblica

Il verbale. L’ex commissario e il caso Dozier: «Così torturammo i brigatisti»

Il Corriere della sera pubblica alcuni passaggi della deposizione rilasciata dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, che confermano le torture praticate durante le indagini contro le Brigate rosse. Il verbale è stato raccolto nell’ambito dell’inchiesta difensiva condotta dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo per ottenere la revisione del processo che ha portato alla condanna di Enrico Triaca per calunnia, dopo che questi aveva denunciato le sevizie subite. L’ex commissario, ormai in pensione col grado di questore, ribadisce, questa volta nel corso di un atto giudiziario che Triaca diceva la verità: «Nicola Ciocia dell’Ucigos mi raccontò di avergli praticato il wateboarding. Tortura che impiegò anche nel 1982, durante le indagini sul rapimento Dozier, sempre su ordine dei vertici della polizia e del governo»

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
showimg2-1-cgiROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro anni di galera. È il rischio accettato dall’ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell’ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l’ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari. «È stato tutto disposto dall’alto — ha detto Genova all’avvocato Francesco Romeo, difensore dell’ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —.  C’è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d’accordo con l’allora ministro Rognoni… E infatti noi facemmo». L’avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l’autorizzazione a fare quel tipo di tortura…». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato “De Tormentis” che secondo il suo ex collega dirigeva i “trattamenti”, ndr)… Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell’Ucigos e ci disse “facciamo tutto ciò che è possibile”».
L’Ucigos era l’organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d’interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato…». L’alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant’è che durante tutte’queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d’interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell’annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata.
«Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l’esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all’interno delle cosce, delle gambe». «Dopo aver ingurgitato acqua e sale», racconta Genova, Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: “E se vi dicessi dov’è Dozier?”».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell’immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure II Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l’ex br arrestato nel ’78, all’indomani dell’omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l’avvocato Romeo ha presentato un’istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l’esperto di waterboarding che si muoveva –  a suo dire – con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni -. Anzi, i comportamenti “duri” accertati furono prontamente perseguiti. C’era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro “teste di cuoio” per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che luì dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent’anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell’antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.

Altri articoli sulla vicenda

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Un’antica ricetta per la memoria condivisa

Uno sguardo retrospettivo sull’impiego della tortura

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Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) è un’ultra centenaria organizzazione non governativa che, analogamente ad altre, si occupa di monitorare le condizioni ed il trattamento di detenuti. Tratta in particolare i prigionieri di guerra, in applicazione del diritto umanitario che deriva dalle Convenzioni di Ginevra del 1949.
Le Convenzioni, da cui il CICR deriva il suo mandato da parte della comunità internazionale, non coprono però solo le persone detenute per un conflitto armato internazionale.
La Croce Rossa Internazionale già in occasione della Comune di Parigi (1872), dell’insurrezione carlista in Spagna (1875) e di quella serba in Erzegovina (1876) cominciò ad intervenire nei conflitti interni, non internazionali.
I suoi primi interventi rispetto ai detenuti politici iniziarono con la rivoluzione russa (1917) e soprattutto con quella ungherese (1919).
Quest’ultimo è considerato (Jacques Moreillon, Le Comité international de la Croix-rouge et la protection de détenus politiques, Lausanne, L’age d’homme, 1973) il primo ‘vero’ caso in questo senso. La presa di potere di Bela Kun trovò infatti scarsissima resistenza e fu quasi incruenta; non si trattava quindi di opera di soccorso alle vittime, altrimenti non curate, di un conflitto interno, ma delle prime visite a detenuti ‘puramente politici’.

È oggi acquisito, per la comunità internazionale, che l’organizzazione può domandare l’accesso a persone detenute per motivi legati a situazioni di violenza di intensità minore di quella di un conflitto armato.

A differenza di organizzazioni che svolgono un’attività analoga, in particolare di Amnesty International, la politica del CICR s’incentra, oltre che sui principi di neutralità, imparzialità ed indipendenza, anche su quello di confidenzialità. Questo implica non solo il poter parlare con i detenuti liberamente, cioè senza le autorità di detenzione, ma soprattutto il fatto di esporre e discutere le osservazioni sulle condizioni di detenzione e sul trattamento dei prigionieri in modo diretto e confidenziale con le sole autorità responsabili.
Nella sua visione strategica, il CICR ritiene che proprio questa confidenzialità gli permetta di ottenere e mantenere l’accesso alle persone detenute (in una settantina di paesi) e di conseguire dei risultati di concreto miglioramento del trattamento e della detenzione, grazie ai suoi soli interventi confidenziali con le autorità.

Il CICR evita dunque ogni presa di posizione nello spazio pubblico, mantenendo segrete le sue osservazioni e proteggendo il proprio lavoro perché resti ‘lontano dai riflettori mediatici’. A differenza appunto di Amnesty International, non lancia denunce o campagne pubbliche, né pubblica tempestivamente i propri rapporti, temendo che possano essere utilizzati per finalità politiche.
Si tratta di una posizione certo criticabile, e che del resto non impedisce le indiscrezioni -tanto più quando una situazione è già posta all’attenzione pubblica ed informazioni analoghe a quelle raccolte dai delegati del CICR possono trovare altri percorsi dalle fonti ai media- ma coerente e rispettabile.

La domanda si pone casomai in senso inverso, ovvero quando un rapporto del CICR viene reso pubblico, perché tanta stampa lo ignora?

Il rapporto del CICR
Recentemente il CICR ha pubblicato il suo rapporto ‘strettamente confidenziale’ fatto nel 2007 alle autorità statunitensi, sulle persone detenute segretamente dalla CIA, e non sembra che i media gli abbiano dedicato molto interesse.
Certo arriva oltre due anni dopo, eppure si tratta con grande probabilità della fonte più attendibile e precisa su una questione tanto controversa ed appunto ‘segreta’ come quella dei prigionieri di Guantanamo Bay. Questione inoltre non secondaria, se già il 22 gennaio 2009 il nuovo Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato diversi decreti, che affermano che l’articolo 3 comune alle Quattro Convenzioni di Ginevra è la norma minima che regola il trattamento di ogni persona detenuta dagli USA nel quadro di un conflitto armato.

Sulla stampa italiana, l’esistenza del rapporto è stata letteralmente ignorata. La notizia figura solo su una breve di 15 righe su La Stampa del 17.3.2009.
Il rapporto che descrive il trattamento subito dai quattordici detenuti “high value” (categoria inventata di sana pianta per tentare di sottrarli a qualsiasi legge e giurisdizione normale) vale invece la pena di essere letto, lo si può sfogliare e scaricare qui :

Si noterà il linguaggio utilizzato, molto diplomatico, strettamente incentrato sui fatti, tanto che né sentimenti né emozioni traspaiono dalle stesse testimonianze dei torturati, ed assolutamente privo di toni accusatori: eppure fermo nel definire le condizioni ed il trattamento specifico dei detenuti come ‘tortura’ e/o ‘trattamento inumano o degradante’.

Scriveva Christian Rocca, su il Foglio del 30.1.2009, che Guantanamo “è probabilmente la prigione d’alta sicurezza più rispettosa dei diritti umani di sempre…” (sic). Infatti la Croce Rossa Internazionale, “salvo casi isolati di abusi fisici, ha lamentato soltanto l’assenza di status giuridico dei detenuti.”

Quel che il CICR ha invece constatato, figura appunto nel Rapporto (ed è solo ‘un’ rapporto).
Sul menu del trattamento, con le differenze tra un caso e l’altro, figuravano, oltre all’isolamento assoluto e la totale assenza di informazioni e comunicazioni da e verso l’esterno (“incommunicado detention”):

  • il soffocamento con l’acqua
  • lo stress da prolungata posizione in piedi
  • lo sbattimento al muro tirando il collare
  • le botte con pugni, calci, schiaffi
  • il confinamento in una piccola gabbia chiusa
  • la nudità prolungata
  • la privazione di sonno
  • l’esposizione a temperature fredde
  • l’ammanettamento prolungato di mani e/o piedi
  • la minaccia di riprendere il trattamento, e di applicarlo ai famigliari
  • la rasatura forzata di barba e capelli
  • la deprivazione di cibo solido.

Il soffocamento con l’acqua, ora mondialmente famoso come ‘water boarding’, consiste nell’immobilizzare il prigioniero con la schiena a terra, o su un ripiano che permetta di inclinarlo in modo che i piedi siano più in alto della testa, e di versargli ininterrottamente dell’acqua sul viso, coperto da un telo, impedendogli di respirare. Non provoca dolore, se non per il fatto che la reazione del corpo che vuole naturalmente svincolarsi può provocare ferite, ma un senso di soffocamento e di morte, che fa leva sul profondo timore animale di annegare per provocare il panico.
Questo metodo ha il vantaggio, dal punto di vista degli inquirenti, di non lasciare tracce visibili, rispetto alle sue varianti, che consistono nel fare ingurgitare molta acqua, talvolta salata, anche infilando un tubo in bocca.
Il senso di questo trattamento, come di tutti gli altri, sta nel desiderio degli interroganti di ottenere risposte confacenti alla propria prospettiva. ‘Condividi con noi, che siamo i buoni, la tua memoria’, dicono, ‘e raccontaci chi sono i cattivi’.

Uomini della CIA ed ‘esperti’ hanno più volte affermato l’efficacia del trattamento, cui gli interrogati resisterebbero solo per lassi di tempo dell’ordine di secondi.
In un articolo su Il Giornale del 2.10.2009, Fausto Biloslavo vanta la bontà dei sequestri di persona chiamati “extraordinary renditions”, e cita i casi di Khalid Sheikh Mohammed e di Abu Zubaydah, catturati in Pakistan dalla CIA e poi trasferiti in varie prigioni segrete fino a Guantanamo Bay:

La CIA li ha sottoposti a tattiche di interrogatorio che sfiorano la tortura. Alla fine hanno ottenuto informazioni cruciali sia con le buone che con le cattive maniere.

Nel rapporto si può leggere la testimonianza diretta di Khalid Sheikh Mohammed, che racconta di essere stato sottoposto 5 volte al water-boarding in quel periodo (si veda per il seguito il New York Times, che parla di 183 volte) e che conclude (p. 38) :

Durante il periodo più duro del mio interrogatorio ho dato un sacco di false informazioni per soddisfare ciò che credevo gli interroganti volessero sentire perché il maltrattamento terminasse. In seguito dissi loro che i loro metodi erano stupidi e controproduttivi. Sono certo che le false informazioni che sono stato forzato ad inventare per far smettere il maltrattamento gli ha fatto perdere un sacco di tempo ed ha portato a far annunciare diversi allarmi rossi negli Stati Uniti.


La tortura tra storia e oblio

Il water boarding venne introdotto dall’amministrazione di George W. Bush nella sua ‘guerra al terrorismo’, ed accompagnato dalla favola memoriale che si trattava di un metodo appreso dalla Corea del Nord ai tempi della guerra fredda.

L’immagine all’inizio di questo post riproduce la copertina della rivista Life del 22 maggio 1902. Il disegno rappresenta dei militari statunitensi che praticano il water-boarding su di un prigioniero filippino. Sotto la figura c’è scritto “Chorus in background: Those pious americans can’t throw stone at us anymore”.
Il “coro sullo sfondo” è composto dai rappresentanti delle potenze coloniali europee, che cantano “Questi pii yankees non potranno più scagliarci pietre”, cioè rimproverarci l’uso di metodi inumani che sono anche i loro.
Gli Stati Uniti, dopo aver fatto guerra alla Spagna (1898), in nome della libertà e dell’indipendenza delle sue principali colonie, Cuba e le Filippine, si accorsero che l’indipendenza delle Filippine non conveniva agli interessi imperialisti –che vedevano quelle isole come una testa di ponte per i mercati cinesi- e giunsero a chiederne alla Spagna la cessione della sovranità (negoziandola per 20 milioni di dollari).

Il disegno caricaturale della copertina di Life magazine non è inventato, ma ripreso direttamente da una fotografia (qui accanto) del 1901 ripubblicata recentemente dal New Yorker, che ricorda come il dibattito su tortura e contro-insurrezione sia già vecchio di un secolo. La notizia delle atrocità commesse dai militari USA nelle Filippine –incendi di villaggi, uccisione di prigionieri e appunto water-boarding- trovò modo di riflettersi nello spazio pubblico americano all’inizio del 1900.

Del water-boarding, o supplizio dell’acqua, esistono tracce e testimonianze che coprono quasi tutto il globo e praticamente ogni epoca.

Ancora gli americani, a Da Nang, in Vietnam: la fotografia venne pubblicata sulla prima pagina del Washington Post del 21.1.1968. Il militare USA che fa la supervisione della tortura applicata ad un prigioniero di guerra del Vietnam del Nord, venne portato due mesi dopo davanti alla corte marziale.

In Algeria, durante la guerra per l’indipendenza, i militari francesi utilizzarono tra i diversi metodi di tortura anche il water-boarding; ne ha ampiamente testimoniato il giornalista francese Henri Alleg che lo subì nel 1957.

Ben più indietro nel tempo, il supplizio era già praticato –sempre col fine di ottenere una confessione- dall’Inquisizione; in quella spagnola veniva chiamato ‘toca’. L’incisione qui riprodotta è tratta da J. Damhoudère, Praxis Rerum Criminalium, Antwerp, 1556: oltre agli esecutori sono rappresentati il cancelliere che verbalizza ed i tre giudici dell’inquisizione fiamminga, il cui presidente tiene in mano una pertica che ne simbolizza il potere.

Gli esempi, come s’è accennato, sono numerosissimi, e vanno dalla Cambogia dei Khmer Rossi, all’Africa, e all’America latina, dove il metodo del ‘submarino’ è stato applicato nelle ‘guerre sporche’ contro il terrorismo in Uruguay, Argentina, Brasile, Perù, Cile, San Salvador, Guatemala, ecc.

Il tratto comune è che gli interrogati sono eretici, sovversivi o terroristi, e gli interroganti sono uomini (e donne, come si legge nel rapporto CICR) del potere.

È probabilmente per questo che la tortura è riconosciuta come oggetto della storia -l’elaborazione distaccata del passato- ma rifiutata dalla memoria -l’uso del passato a fini politici attuali.

L’oblio generalizzato su questo tema porterebbe a credere che in Italia l’uso del water-boarding sia sconosciuto. Non è così, e non solo perché ogni sbirro al mondo ne conosce l’esistenza. Il metodo ‘della cassetta’ era già praticato dagli Ispettorati di PS sotto il fascismo, e riappare regolarmente:

12 dicembre 1951 

A Lucera, si svolge il processo per i fatti di San Severo del 23 marzo 1950, nei quali la polizia ha ucciso il giovane Di Nunzio e ferito decine di manifestanti. Diversi testimoni dichiarano che i rastrellamenti avvennero prima degli scontri ed alcuni imputati denunciano le torture subite: Pietro Forte denuncia la tortura dell’acqua, praticata con un tubo mentre gli era stato messo uno scarafaggio sul ventre, D’Errico dichiara di essere stato appeso ad un uncino, Matteo De Florio di aver avuto i denti spezzati durante l’interrogatorio a causa delle percosse.
24 febbraio 1979
A Milano, sono scarcerati per mancanza di indizi 3 dei 9 componenti del ‘collettivo autonomo della Barona’ arrestati in relazione all’omicidio Torregiani, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Fabio Zoppi. I tre denunciano subito dopo che Roberto è stato torturato mediante ustioni ai testicoli e picchiato e la stessa sorte è toccata a Sisino Bitti, ricoverato al Niguarda per le botte subite e ad Angelo Franco, costretto a ingerire litri d’acqua e bastonato. Anche Anna Casagrande, arrestata per ‘favoreggiamento’ denuncia di essere stata presa a schiaffi durante gli interrogatori.
11 gennaio 1982
A Roma, dinanzi al sostituto procuratore della repubblica Domenico Sica, il brigatista rosso Ennio Di Rocco denuncia di essere stato torturato da agenti di polizia con il metodo della ‘cassetta’ ed altri ancora. All’inizio dell’interrogatorio, su richiesta del suo avvocato Edoardo Di Giovanni, viene dato atto che “l’imputato è stato condotto con le mani ammanettate dietro la schiena, e che ha il polso sinistro sanguinante”. A conclusione dell’interrogatorio, “i difensori chiedono accertamenti medici urgenti e l’immediato trasferimento in carcere dell’imputato”.
2 agosto 1985 
A Palermo, sulla spiaggia di Sant’Erasmo, è trovato seminudo il cadavere di un uomo che sarà identificato, poche ore più tardi, come Salvatore Marino. L’uomo si era presentato spontaneamente in Questura, il giorno precedente, accompagnato dal proprio avvocato di fiducia dopo aver saputo che la polizia lo cercava per interrogarlo nell’ambito delle indagini sull’omicidio del commissario di Ps Giuseppe Montana. Trattenuto in Questura, il giovane viene interrogato nel corso della notte con il metodo della cassetta: sdraiato, con un tubo infilato in bocca attraverso il quale gli fanno bere acqua salata. Il tubo, però, sfonda la trachea e provoca la morte del torturato per insufficienza cardiaca. A quel punto, i poliziotti fanno scomparire i documenti del giovane e ne trasportano il corpo sulla spiaggia di Sant’Erasmo dove lo abbandonano nel tentativo di depistare le indagini.


Su questa pagina si trovano estratti della Sentenza di rinvio a giudizio del 17 marzo 1983 per il water-boarding su Cesare di Leonardo e del verbale in cui Ennio Di Rocco racconta ciò che ha subito.
Vale ancora la pena di ricordare che gli episodi citati del 1979, il trattamento degli arrestati in relazione all’omicidio Torregiani, sono parte del procedimento che ha portato alla condanna di Cesare Battisti, che viene oggi venduta, per ottenerne l’estradizione, come un atto perfettamente rispettoso dello Stato di diritto.

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Torture contro i militanti della lotta armata

«Ridacci Battisti e riprenditi i trans». Finisce così il sit in contro Lula

Appena 100 manifestanti sotto l’ambasciata del Brasile a Roma. Quasi tutti militanti di estrema destra. Solo 50 a Milano davanti al consolato. Anche qui solo fascisti. Apena 5 a Firenze. Intanto nuova umiliazione per il ministro Frattini: secondo l’Ue il caso Battisti è «un affare bilaterale tra Italia e Brasile»

Paolo Persichetti
Liberazione
5 gennaio 2011

Attivisti neofascisti protestano sotto l'ambasciata del Brasile a Roma

Non si da pace il ministro degli Esteri Franco Frattini da quando il presidente brasiliano Lula ha negato, nell’ultimo giorno del suo mandato, l’estradizione di Cesare Battisti. Sembra un nuovo Cimabue, quello che una ne pensa e ne sbaglia due. Prima un nuovo ricorso al tribunale supremo brasiliano, poi quando ha capito che l’ipotesi non reggeva ha tirato fuori dal cilindro l’appello al tribunale dell’Aja, per fare cilecca anche qui. Ormai è interminabile la lista degli scivoloni diplomatici, delle brutte figure, delle tirate d’orecchie e dei sonori ceffoni ricevuti dal governo italiano in questa vicenda. L’ultimo incidente si è verificato ieri quando Michael Mann, uno dei portavoce della commissione Ue, ha dovuto precisare che per il diritto internazionale e comunitario il caso Battisti «è una questione essenzialmente bilaterale, non di competenza Ue». Il chiarimento è venuto dopo che la Farnesina aveva fatto circolare la voce di una iniziativa europea per costringere il Brasile a consegnare l’ex militante dei Pac. «E’ il Brasile che deve decidere», punto. Così ha sgomberato ogni dubbio sulla questione l’esponente della commissione. Affermazioni tacciate di «superficialità» da parte del ministero degli Esteri che tuttavia ha dovuto riconoscere la natura «complessa» dell’iniziativa. Affrettato è stato invece l’incontro concesso nella mattinata all’aeroporto milanese di Linate dal premier Silvio Berlusconi ad Alberto Torreggiani. Pochi minuti, il tempo di una foto da utilizzare per la giornata di protesta organizzata sotto l’ambasciata del Brasile a Roma, e di una dichiarazione per le agenzie, «andremo insieme a Bruxelles per una conferenza stampa». Nel pomeriggio si sono tenuti i sit-in di protesta a piazza Navona, dove per un giorno il tradizionale raduno della Befana è stato scacciato dall’arrivo delle tricoteuses. La questura è stata chiamata ad un difficile gioco d’incastro, un autentico rompicapo geometrico per tenere insieme i diversi contestatori di Lula, tutti uniti dall’odio feroce per la persona di Battisti ma divisi su tutto. Un circo Barnum promosso dal movimento della Santaché che sta cercando di lanciare in politica, per racimolare un po’ di voti, Alberto Torregiani, il figlio dell’orefice ucciso per rappresaglia dai Pac per aver a sua volta ammazzato un rapinatore in una pizzeria. Alberto venne ferito durante l’attentato da un proiettile esploso dalla pistola del padre che tentò di reagire all’agguato e da allora è tetraplegico. Davanti all’ambasciata brasiliana saluti romani, tricolori, manifesti che ricordavano Acca Larentia, un radioso Borghezio, slogan del tipo «chi non salta è brasiliano», cartelli con scritto «Lula riprenditi i trans brasiliani e ridacci Battisti». Improvvisamente nei paraggi si è materializzata la preoccupata presenza del senatore Gasparri. Grida di grande astio anche nei confronti di Carla Bruni mentre un manifestante un po’ alterato diceva a chi non lo avesse ancora capito, «so’ nazista e laziale». I pochi esponenti del Pd e Di Pietro sono stati accolti al grido di «buffoni» dai giovani di estrema destra che animavamo la protesta. Silenzio assoluto invece sulla mancata richiesta di estradizione da parte italiana degli agenti della Cia condannati per il rapimento di Abu Omar. Toni simili anche a Milano, in corso Europa, davanti al consolato brasiliano. Un gruppetto di manifestanti raggiunto dal ministro La Russa gridava, «Ridateci Battisti e riprendetevi i travestiti». Insomma contenuti molto qualificati per una giornata che ha ridato vigore all’orgoglio neofascista. Mancava solo la forca esposta in piazza. Il clima era tale che una scritta inneggiante a «Battisti libero» ed alcuni manifesti di Militant hanno suscitato allarme contro una supposta eversione.

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Battisti, “Il no di Lula è una decisione giusta”
Battisti: condiserazioni di carattere umanitario dietro il rifiuto della estradizione
“Ridacci Battisti e riprenditi i trans”, finisce così il sit-in contro Lula
Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore

Le consegne straordinarie degli esuli della lotta armata
Caso Battisti fabula do ergastolo

Governo italiano so obtem-extradicoes Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti

La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori

E il Quirinale affondò l’ideologia del “doppio Stato”

Pierluigi  Battista
Corriere Sera 11 maggio 2009

Storici, politologi, politici, giornalisti, memorialisti, avevano trovato in una formula enigmatica come il «Doppio Stato» (uno ufficiale e democratico, l’altro, occulto e «criminale») la chiave per svelare ogni segreto. Il Presidente della Repubblica ha richiamato al dovere di sciogliere i misteri, liberandosi però della misteriologia superstiziosa, del racconto cospirazionista della storia italiana; di rischiarare tutte le oscurità sulle stragi, senza mettere sotto accusa come «falsa» l’intera democrazia italiana. «Fantomatico», dice perentorio il capo dello Stato. Fantomatico il «Doppio Stato», fantomatici i ghirigori storiografici sul Doppio Stato, fantomatico il «doppiostatismo» inteso come ideologia, racconto cospirazionista della storia italiana, la dietrologia come chiave onnicomprensiva delle vicende d’ Italia. Il presidente della Repubblica ha richiamato al dovere di sciogliere i misteri, liberandosi però della misteriologia superstiziosa. Di rischiarare senza tutte le oscurità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia, a cominciare da quella di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969, ma non di mettere sotto accusa come «falsa» l’intera democrazia italiana. E lo ha detto avendo accanto Gemma Calabresi e Licia Pinelli. Per chiudere un capitolo di lutti e tragedie. E con esso anche la sua posticcia sovrastruttura retorica: il «doppiostatismo», appunto. Storici, politologi, politici, giornalisti, memorialisti avevano trovato in quella formula all’ apparenza così enigmatica – il «Doppio Stato» – la chiave universale per svelare ogni segreto. Dicevano che la storia italiana repubblicana, tutt’ intera la storia italiana repubblicana, era fatta di due piani. Uno ufficiale e formale, vestito con i panni della democrazia. L’altro, occulto, inconfessabile e «criminale» nella sua essenza. Uno popolato di burattini che mimavano i riti della democrazia: le elezioni, il discorso pubblico, i partiti, la lotta politica. L’altro manovrato dai burattinai che faceva la vera politica con le armi sporche delle stragi, del terrorismo, della corruzione sistematica, della criminalità organizzata. Uno apparentemente autoctono e nazionale. L’altro di matrice internazionale. E quando si diceva internazionale, si diceva l’ America, la Cia. Da sempre e per sempre, con o senza guerra fredda.
La nozione di «Doppio Stato» ha una storia nobile. Risale alla descrizione che Ernst Fraenkel, interpretato in Italia da Norberto Bobbio, aveva fatto della dittatura nazionalsocialista costruita da Hitler. Sul piano accademico, si era avvalsa verso la fine degli anni Ottanta di una rimodulazione erudita per opera di Franco De Felice, uno degli intellettuali più brillanti e versatili che gravitavano attorno all’Istituto Gramsci, la prestigiosa fondazione culturale destinata a una funzione tutt’altro che secondaria soprattutto ai tempi del Pci, ma anche dopo lo scioglimento del partito-madre. Ma sul piano emotivo la narrazione doppiopesista prende forma e coraggio con la celeberrima formula della «strage di Stato», con l’ opuscolo che all’ indomani dell’ eccidio di Piazza Fontana indica al «movimento» la controstoria, non solo la controinchiesta, di quelle bombe che inaugurarono la stagione cruenta della «strategia della tensione»: la certezza che la strage non solo non fosse opera degli anarchici di Valpreda, ma che fosse maturata nel sottoscala torbido dei servizi di sicurezza dello Stato sleali, dei vertici militari in combutta con parti del potere politico, manovrati dal partito «amerikano» e coadiuvati per l’ esecuzione materiale del loro disegno criminoso dalla manovalanza dell’ estremismo fascista e neofascista, adibita alla messa in atto della strategia stragista e adusa all’ infiltrazione della parte più vulnerabile dell’ estremismo di sinistra. Lo spaventoso tributo di sangue pagato dall’ Italia colpita dalle stragi che seguirono quella di Piazza Fontana e soprattutto la palude giudiziaria in cui, tra omertà, reticenze, depistaggi, si impantanarono i processi chiamati a identificare i responsabili di quei massacri, resero la rappresentazione del «doppio Stato» una figura sempre più malleabile e multiuso. Dal terrorismo delle Brigate Rosse («sedicenti» si diceva, proprio perché manovrate dalla parte occulta e «deviata» dello Stato) alla P2, dagli scandali economici (il petrolio) e bancari fino alla grande fioritura della stagione antimafia, tutto divenne materia dei sacerdoti della nuova dottrina del «doppiostatismo». Politicamente se ne fece interprete soprattutto Luciano Violante, l’ ex magistrato e poi presidente della Commissione parlamentare antimafia ai tempi dell’ incriminazione di Andreotti che in anni recenti deplorò la visione «distorta», esageratamente dietrologica di chi riduceva l’ intera storia politica italiana a un romanzo criminale. La Rete di Leoluca Orlando fece del «doppiostatismo» addirittura il credo ufficiale. Tra gli storici più impegnati in una rilettura doppiostatista si segnalarono Nicola Tranfaglia e Paul Ginsborg. Ex politici e studiosi di diritto come Sergio Flamini e Giuseppe De Lutiis diedero vita a una copiosa produzione di libri a sostegno della battaglia contro il tentacolare «doppio Stato». Eredi e continuatori della nobile schiatta di giornalisti detti «pistaroli» per il loro diuturno esercizio di smascheramento delle «piste» segrete che a loro dire avrebbero condotto all’ individuazione dei mandanti e degli esecutori delle stragi e del terrore, si infoltirono le schiere di pubblicisti e ricercatori che prestavano la loro opera di consulenza per le commissioni parlamentari sui «misteri d’ Italia», da Aldo Giannuli ai fratelli Cipriani, da Giovanni Fasanella a Sandro Provvisionato ai tanti altri impegnati a sinistra, da Dimitri Buffa e Nicola Rao, meglio collocati a destra. Fino a lambire la letteratura noir e la fiction politica, come nel caso dello scrittore Carlo Lucarelli. Il «doppiostatismo» si trasformò in una ricostruzione narrativamente avvincente della «vera storia d’ Italia». Immancabilmente partiva, come origine di ogni nefandezza occulta, dal patto («fantomatico», secondo la definizione del capo dello Stato) tra americani e mafia ai tempi dello sbarco alleato in Sicilia. Si snodava attraverso l’ eccidio di Portella della Ginestra. Si sovrapponeva a ogni passaggio oscuro della storia nazionale, dalla morte di Mattei al tentato golpe di Junio Valerio Borghese, al Piano di Rinascita nazionale di Licio Gelli. Si adornava di un lessico formalizzato («terzo livello», «mandanti a volto coperto», «spezzoni deviati» della magistratura, della massoneria, della politica eccetera). La misteriologia doppiostatista ora rischia di andare in soffitta, almeno come storia ufficiale. Come fiction, è un po’ meno sicuro. La scheda L’origine del termine La nozione di «Doppio Stato» risale alla descrizione che il politologo tedesco Ernst Fraenkel aveva fatto della dittatura nazionalsocialista costruita da Adolf Hitler (sopra nella foto). Tale nozione, in Italia è stata interpretata da Norberto Bobbio, e, sul piano accademico, è stata rimodulata per opera di Franco De Felice dell’ Istituto Gramsci Le parole di Napolitano Il presidente Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria, a proposito delle verità mancanti sulle stragi ha osservato: «Il nostro Stato democratico, proprio perché è sempre rimasto uno Stato democratico, e in esso abbiamo sempre vissuto, non in un fantomatico “doppio Stato”, porta su di sé questo peso».

Link
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana – Paolo Persichetti
Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Le thème du complot dans l’historiographie italienne – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori
Ci chiameremo la Brigata rossa – Vincenzo Tessandori
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand

Lotta armata e teorie del complotto

Libri – Alberto Franceschini, a cura di Giovanni Fasanella, Che cosa sono le Br, Bur 2004 (Brigades rouges. L’histoire secrète des BR racontée par leur fondateur, Éditions du Panama 2005)

Libri – Guillaume Perrault, Génération Battisti, Plon, Paris 2005

Paolo Persichetti
23 gennaio 2006

Due libri pubblicati negli ultimi tempi in Francia hanno rilanciato in termini estremamente polemici la tesi secondo cui copj13asple insorgenze armate apparse nell’Italia degli anni 70 avrebbero trovato una complicità culturale, se non aperto sostegno, nelle autorità di Parigi. È significativo dei tempi che corrono questo capovolgimento di prospettiva storica. Quella somma di fattori che presero forma nel dopoguerra, congelando per lungo tempo il sistema politico italiano, fino a renderlo privo d’alternanza per 49 anni, una fissità di sistema che secondo la storiografia più avvertita non poteva che facilitare l’apparizione di spinte rivoluzionarie in presenza di una potente tradizione sovversiva, contesto riassunto nella formula dell’«anomalia italiana», si capovolge nel suo contrario: l’«eccezione francese». Il problema non verrebbe più dalle carenze storiche di un paese che resta tuttora incapace di chiudere con un’amnistia stagioni da lungo tempo concluse, ma dalla sua vicina d’Oltralpe. Nell’intervista che Giovanni Fasanella ha fatto a Alberto Franceschini, la Francia viene dipinta come un «santuario del terrorismo», una centrale che avrebbe sistematicamente promosso la destabilizzazione della democrazia italiana. Siamo nel pieno di una narrazione storica che ripropone alcuni vieti cliché della retorica del complotto e della visione poliziesca della storia. L’obiettivo preso di mira è la cosiddetta «dottrina Mitterrand». Nel corso della sua grottesca testimonianza, un Franceschini ossessionato dalla cultura del sospetto racconta di come il padre, militante comunista ancora impregnato della mentalità staliniana, avuto sentore delle intenzioni bellicose del figlio, l’avesse messo sull’avviso: «ricordati che fuori dal partito c’è soltanto la Cia». Ancora prima della caduta del muro di Berlino, Parigi sarebbe stata dunque un vero incrocio d’intrighi internazionali, sostituendosi a Washington e Mosca nel ruolo di piattaforma destabilizzante dell’Italia. Così si arriva a sostenere che un asse socialdemocratico, guidato da Mitterrand, avrebbe tentato di giocare la terza forza tra le due maggiori potenze, destabilizzando volutamente la penisola grazie alla protezione offerta ai militanti della lotta armata. Quando la storia si trasforma in noir, il racconto può avvalersi di facili licenze narrative e trascurare il rigore cronologico degli eventi, fino a dimenticare che negli anni 70 la Francia era sotto la presidenza di Giscard D’Estaing.
Durante la guerra d’Algeria, l’Italia aveva sempre rifiutato di estradare i militanti dell’Oas e dell’Fln. Jean-Jacques Susini, coinvolto nell’attentato del Petit Clamart contro De Gaulle, rimase per molti anni sotto la protezione della polizia italiana. Non per questo il nostro paese venne accusato di essere una base antifrancese. Negli anni 80, Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo (Libération del 23 settembre 2002) – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era di non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».
Per il giudice Rosario Priore, autore della postfazione, le cose non stanno affatto così. Deciso a seguire le tracce de l’abbé Augustin Barruel, afferma: «Con ogni probabilità il cervello parigino è esistito, agendo in perfetta intesa con le autorità di quel paese, come hanno provato le inchieste romane». L’istituto di lingue Hyperion avrebbe rimpiazzato la loggia degli Illuminati di Baviera. Ragione che lo spinse a sospettare dell’abbé Pierre, una delle personalità francesi più note, mentre il suo collega Ferdinando Imposimato voleva spiccare un mandato di cattura contro lo stesso Joinet, consigliere giuridico di Mitterrand. 9782755700206
Nel pamphlet scritto per denunciare la campagna di sostegno condotta dalla sinistra e da una parte degli intellettuali francesi contro l’estradizione di Cesare Battisti, chiesta dall’Italia nel febbraio 2004, Guillaume Perrault, convinto che «mai democrazia sia stata così liberale nell’affrontare il terrorismo», si dilunga nel descrivere un’Italia paradisiaca, vero giardino di giustizia e di diritto, rappresentazione che non coincide affatto con l’opinione della destra italiana a cui il suo quotidiano fa riferimento. Preso dall’entusiasmo del neofita, per giustificare il fondamento delle estradizioni richieste contro i fuoriusciti, spiega le meraviglie del rito semi-accusatorio, introdotto nel processo penale italiano con la riforma del 1989 e più volte ritoccato. Dimentica però di precisare che tutti i maxi processi per «terrorismo» sono stati condotti col vecchio rito istruttorio e che l’Italia è il paese più sanzionato dalla corte di giustizia di Strasburgo. Crede – per averlo letto da magistrati come Bruti Liberati – che si possa parlare di giustizia d’emergenza solo in presenza di corti speciali, che l’Italia non ha introdotto, e non sa che l’emergenza può darsi anche attraverso la produzione di una legislazione speciale, che mai abolita trasforma l’eccezione in regola. Come è accaduto fin dalla fine degli anni 70 e come la Corte costituzionale ha riconosciuto, giustificando l’adozione da parte del governo e del parlamento di una legislazione d’eccezione mai emendata. Ripercorre, quindi, la selva di prese di posizione sulla vicenda che gli intellettuali della rive gauche, e molti esponenti della letteratura noir, hanno preso – in realtà – a danno di Battisti stesso e degli altri rifugiati, un po’ come la medicina che uccide il malato. Perrault ha facile gioco nel ridicolizzare l’improvvisata ricostruzione storica degli anni 70 proposta da questi intellettuali. Emergono toni che trasudano risentimento, stucchevoli accenti da letteratura termidoriana, commenti codini e farisei, grottesche uscite scandalizzate che ricordano i gridolini d’orrore di madame la marquise, e argomenti che ricordano le accuse del Merlo, una gazzetta che l’Ovra (la polizia segreta fascista) pubblicava a Parigi per calunniare e denigrare i rifugiati antifascisti. Tratti di un generone cialtronesco che straparla senza pensare. Non sfugge al giornalista una recensione, apparsa su Libération dell’8 ottobre 1998 che, recensendo un libro di Battisti, presenta l’insurrezione sociale degli anni 70 come: «l’epopea di una generazione d’Italiani in secessione armata contro una società che non riconoscono più come la loro, raccontata sullo sfondo di un susseguirsi di rapine, alcool e donne[…] Il protagonista va alla guerra come all’amore, quasi fosse un solitario Don Giovanni».
Per spiegare la folgorazione della sinistra francese più snob verso questa caricatura culturale e politica degli anni 70, l’ex ambasciatore Martinet (autore della prefazione) evoca il «complesso del Marrano». Alla stregua di quegli ebrei spagnoli che per sfuggire alle persecuzioni si convertirono al cattolicesimo, rimanendo tuttavia intimamente fedeli alla vecchia religione, la sinistra francese orfana della rivoluzione cercherebbe ancora dei simboli capaci di rinfocolare i vecchi ideali di gioventù. Per Martinet si tratta ovviamente di un abbaglio sconcertante, che testimonierebbe della persistenza di un arcaismo politico novecentesco dentro la sinistra francese, causa di un clamoroso malinteso che l’avrebbe condotta a prendere lucciole per lanterne e chiamare «rivoluzionari» dei semplici «criminali». La controprova sarebbe venuta dalla reazione indignata della sinistra italiana, ai suoi occhi ben più moderna, riformista e liberale. L’ex ambasciatore di Palazzo Farnese guarda senza dubbio con favore al modello social-liberale blairiano, è singolare dunque che non si accorga di come il primo ministro inglese non abbia esitato a sporcarsi le mani con il conflitto irlandese, negoziando con l’Ira, liberando tutti i prigionieri politici, anche quelli con reati di sangue (e l’Ira, come gli altri gruppi irridentisti cattolici o protestanti, metteva le bombe), e stabilito le tappe di un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto. In Italia, invece, il tanto decantato Blair viene guardato dai liberali e social-liberali di sinistra come di destra soltanto per le sue politiche di liberalizzazione e privatizzazione economica e sociale. resizephp2
Martinet compie anche altre omissioni, dimentica così di spiegare come dietro i rimproveri stizziti piovuti dai cugini d’Oltralpe, ci fosse una sindrome altrettanto curiosa: quella dell’«album di famiglia». Per fare fronte alla perenne carenza di legittimazione istituzionale, la sinistra italiana è posta di fronte alla continua necessità di far dimenticare il proprio passato. Le polemiche seguite all’apparizione del volume di Mirella Serri, I Redenti, hanno ricordato come una buona parte dell’intellighenzia ex comunista abbia vissuto diverse vite, passando il proprio tempo a cancellare le precedenti: dal fascismo della gioventù, al comunismo della maturità, al post o all’anticomunismo della senescenza. In un simile contesto culturale, appare chiaro allora perché i prigionieri e i rifugiati degli anni 70 debbano continuare ad essere relegati nel ruolo di capri espiatori, inchiodati ad una funzione cristica: pagare per tutti «la tragedia del Novecento», rispettando alla lettera il rito della esportazione della colpa.
Racconta ancora Perrault che nel pieno delle feroci polemiche che la stampa italiana aveva lanciato contro la sinistra francese, il sindaco di Roma Walter Veltroni si sarebbe precipitato a telefonare al suo omologo parigino, Bertrand Delanoë, per dissuaderlo dall’appoggiare Battisti. Un’ammirevole sensibilità etica che gli era mancata quando, direttore dell’Unità, fece campagna per la liberazione di alcuni neofascisti rei confessi di una decina di omicidi (e formalmente condannati anche per la strage di Bologna – che Perrault mette sul conto dei gruppi armati di sinistra). La clemenza, sembra dire Veltroni col suo gesto, vale per gli avversari della sponda avversa, non per quelli alla propria sinistra. Ma il doppio linguaggio venuto dall’Italia nei mesi di astiose polemiche sul caso Battisti non termina certo qui. Tra i giustizialisti della sinistra favorevoli alle estradizioni, viene citato anche Antonio Tabucchi, sublime personaggio che eccelle nell’arte di selezionare i pentiti: cattivi quelli che accusano i propri amici (Sofri); buoni quelli che chiamano in causa i nemici (Andreotti o Battisti). Dalle fila della magistratura non sono venuti discorsi migliori: mentre il segretario dell’Anm denunciava «i progetti di fascistizzazione dell’ordinamento giudiziario», fuori d’Italia ci si indignava con gli esponenti della rive gauche che ripetevano ingenuamente quanto letto sulla stampa della sinistra italiana. La destra non era da meno, in casa accusava la magistratura di totalitarismo, ma all’estero pretendeva che le sue sentenze fossero venerate, salvo evidentemente quando queste riguardavano Berlusconi.
Sembra finita qui, e invece ecco emergere un retroscena ancora più inquietante: il 13 giugno 2003, il magistrato della procura antiterrorismo di Parigi, Gilbert Thiel, aveva organizzato insieme alla Direzione nazionale antiterrorismo una retata che sarebbe dovuta scattare il successivo lunedì 23. L’obiettivo era quello di arrestare tre fuoriusciti, tra cui Battisti, insieme ad altri due italiani non latitanti, Maj e Czeppel, i soli che di fatto poi vennero catturati. Un’operazione concordata con i vertici del Viminale e la collaborazione della procura bolognese. L’intera operazione era finalizzata a propagandare un legame diretto con l’arresto, avvenuto nel marzo precedente, di una militante del gruppo autore degli attentati D’Antona e Biagi e validare così la leggenda della «centrale francese», proprio mentre questa era clamorosamente smentita dalle indagini. L’intervento di Chirac che, dopo l’estradizione lampo organizzata dal suo rivale Sarkozy, nell’agosto 2002, aveva accentrato i fascicoli sui rifugiati italiani sotto il controllo dei suoi uffici, fece saltare tutto. Il presidente della repubblica francese, infatti, temeva che la retata venisse interpretata come un regalo a Berlusconi che il primo luglio avrebbe assunto, tra i clamori mediatici della grande operazione antiterrorismo, la presidenza della Ue.

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Italie, le thème du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
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Spazzatura, Sol dell’avvenir il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
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Storia della dottrina Mitterrand